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South Pars, l'immenso bacino di gas all'origine dell'attacco al Qatar

di Giovanni Barbieri

La rottura delle relazioni diplomatiche col Qatar da parte di Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Bahrein è un fatto di pura e semplice politica energetica vista dalla prospettiva dei paesi produttori.

In questo frangente, il terrorismo e le accuse rivolte al Qatar non sono altro che una bandieruola sventolata sul naso dell’opinione pubblica mondiale, ultimamente abbastanza ricettiva sull’argomento per i tanti fatti di cronaca che si sono recentemente susseguiti, ad un ritmo incalzante.

Mentre in Europa e, in generale, in Occidente, la politica energetica viene affrontata per lo più con il punto di vista dei consumatori, che sostengono questo o quel governo in funzione delle concessioni di sfruttamento che gli può garantire, oltreché in termini di sicurezza energetica, i produttori ragionano, molto più concretamente, in termini di potere politico-diplomatico che la preservazione della propria posizione sui mercati mondiali gli garantisce.

Questo è stato fino ad adesso, il punto di vista dei produttori di petrolio medio-orientali, consorziati nell’OPEC, e che, recentemente, è stato messo in pericolo da uno “strano” progetto di intesa, tra Qatar e Iran, sullo sfruttamento del bacino gasifero che entrambi i paesi condividono sotto il Golfo Persico.

Questo bacino, che l’Iran chiama South Pars e il Qatar chiama North Dome Field, si estende per c.a. 9700 chilometri quadrati, di cui 6000 sotto la sovranità Qatarina, e 3700 sotto quella Iraniana. Orbene, l’Iran e il Qatar figurano, rispettivamente, come il secondo e il terzo produttore mondiale di gas naturale, dietro alla Russia che occupa il primo posto. Il Qatar riesce a soddisfare autonomamente la totalità della domanda interna di gas naturale e a ricavarne il 60% delle entrate dall’esportazione, di cui una gran parte proprio verso gli Emirati Arabi (attraverso la c.d. Dolphin Pipeline) e, in misura minore, verso l’Arabia Saudita e l’Egitto. L’Iran, pur autosufficiente dal punto di vista della domanda interna, non riesce a “mettere a reddito” i propri giacimenti per l’esportazione, a causa delle difficoltà che incontra nel reperimento di capitali e tecnologie estrattive adeguate agli standard dell’industria moderna, prevalentemente a causa delle sanzioni di cui è stato destinatario e recentemente cessate a seguito del “Nuclear Deal” (sebbene resistano pesanti restrizioni para-legali alla movimentazione di capitali verso il paese dall’Occidente).

Il fatto è questo. Ad Aprile 2017, il Qatar ha dichiarato che avrebbe messo fine alla moratoria, stabilita nel 2005, con cui bloccava qualsiasi suo progetto di sviluppo dell’attività estrattiva nel North Field, in attesa di comprendere quali conseguenze avrebbe avuto sulle riserve un massiccio aumento della produzione.

Ma non si è limitato a questa dichiarazione, riprendendo parallelamente un dialogo con l’Iran, cominciato nel 2014 con Rouhani e reso difficile dalla contingente negoziazione del Nuclear Deal, su una cooperazione Qatar-Iran per lo sfruttamento congiunto del bacino gasifero e l’aumento dei volumi di produzione.

La rielezione di Rouhani ha evidentemente convinto Doha dell’opportunità di riaprire questo tavolo, e mostrato ai suoi vicini “petroliferi” la pericolosità di un Qatar “gasifero”, che mira ad espandere la propria produzione di gas naturale in un mondo che vedrà un picco della domanda di petrolio entro il 2030 ma una continua espansione della domanda di gas.

Se il Qatar, con una popolazione di 2,6 milioni di abitanti, dovesse diventare leader regionale nella produzione di gas naturale, potrebbe diventare una seria minaccia per la leadership delle monarchie petrolifere del Golfo, Ryhad in testa, che al contrario navigano verso un futuro incerto, legato sostanzialmente alle proiezioni negative sull’andamento della domanda nel mercato del petrolio. Scenario peggiorato enormemente dalla prospettiva di una cooperazione energetica con l’Iran, paese sciita in un lago sunnita (neanche tanto moderato).

La quasi contemporaneità della rottura delle relazioni diplomatiche con il Qatar e il doppio attentato di Teheran, se inseriti in questo quadro, lasciano molto poco spazio all’immaginazione per quel che riguarda la matrice e l’origine degli avvenimenti.

Le accuse rivolte a Doha, di essere un sostenitore e finanziatore del terrorismo, fanno poi sorridere.

Non è un mistero e, anzi, è ormai diffusamente acclarato come e quanto la Monarchia saudita (sunnita) abbia, nei decenni, rincorso i propri sogni di leadership nel Mashreq e, più recentemente, nel Maghreb, attraverso il finanziamento pluridecennale di gruppi salafiti che nel tempo si sono trasformati in veri e propri gruppi armati paramilitari, che costituiscono la spina dorsale, operativa e ideologica del terrorismo islamico locale e transnazionale (inclusi i cosiddetti movimenti democratici di liberazione, come il Free Syrian Army).

L’Arabia Saudita è da anni impegnata in una guerra, che si pone al di fuori di qualsiasi logica umana e militare, in Yemen e, nello specifico, contro i ribelli Houthi. Senza entrare nelle specificità del conflitto Yemenita, che meriterebbe una trattazione a sé stante, vale la pena rilevare un unico dato di fondo: gli Houthi sono un gruppo sciita, naturalmente spalleggiato dall’Iran, che combattono un governo fantoccio supportato dall’Arabia Saudita sunnita, che anche in Yemen ha portato avanti una politica di sostegno al salafismo.

Questo è, per i sauditi, un punto di grande frizione diplomatica con l’Iran. Non è difficile immaginare come il sentore di una sua possibile cooperazione economica con il Qatar, membro OPEC e del Consiglio di Cooperazione del Golfo, abbia messo in allarme la monarchia saudita, ben consapevole che questo tipo di intese economiche hanno come sbocco naturale la creazione di assi politico-diplomatici duri da incrinare (perché la politica internazionale, che piaccia o no, origina principalmente dagli interessi nazionali).

In più, un’intesa Qatar-Iran sullo sfruttamento congiunto del bacino South Pars – North Dome Field avrebbe, in prospettiva, l’effetto di tagliare l’Arabia Saudita fuori dal percorso di transito del gas naturale diretto verso la Turchia, dove si incrocerebbe al gasdotto Nabucco che lo reindirizza in Europa. Transito vuol dire royalties e peso politico (come Hub regionale dell’energia), elementi che l’Arabia Saudita avrebbe sicuramente guadagnato se nel 2009 Bashar-al-Assad avesse accettato l’originale progetto Qatarino di pipeline verso la Turchia attraverso l’Arabia Saudita, la Giordania e la Siria e che, invece, rifiutò (per tutelare gli interessi in Europa dell’amica Russia, dichiarò ufficialmente).

L’evoluzione di questa vicenda, nell’arco delle prossime 24/48 ore, potrebbe ridefinire completamente gli equilibri politici, diplomatici e, quindi, militari, nell’intera area del Golfo Persico e del Mashreq.

E ancora una volta, gli Stati Uniti si ritroveranno ad essere l’ago della bilancia, dal momento che in Qatar sono presenti con CENTCOMM (il comando centrale per le operazioni in Afghanistan e Iraq), con l’Arabia Saudita hanno appena firmato accordi per la fornitura di armamenti per 110 miliardi di dollari, con l’Iran hanno in pendenza un processo di distensione, lasciato in eredità dall’Amministrazione Obama, e in Siria giocano una partita diplomatica complicata con la Federazione Russa.

Sullo sfondo, rimane il petrolio, a cui si aggiunge con sempre maggior prepotenza il gas.

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