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contraddizione

La Crisi irrisolta

Quel che si cela dietro ai drammatici crolli di borsa

di Francesco Schettino

3da48b ac8cbcf13a1f450594939aead4e99fd0È un fatto tristemente noto, grazie anche alla pluralità di pellicole girate sul soggetto e, soprattutto per esperienza diretta di coloro che tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta erano almeno adolescenti, che l’eroina è una bestia feroce in grado di trasformare completamente qualsiasi essere umano sino a ridurne in fumo ogni traccia di razionalità. Questo concetto doveva essere ben chiaro anche alla classe dominante giacché, anche attraverso l’inondazione del mercato di questa immondizia, che si sostituiva alle cosiddette droghe leggere, o agli allucinogeni, ampiamente usati nella decade precedente, essa riuscì – in modo estremamente più efficace di qualsiasi altra manovra repressiva – ad infliggere un colpo mortale a quello che era restato del movimento della sinistra alternativa italiana erede della resistenza al fascismo e delle battaglie di classe di fine anni cinquanta ed inizio anni sessanta[1]. È altrettanto riconosciuto, anche grazie alla recente uscita di libri o testi sul tema, come la cocaina, droga di classe (dominante) per eccellenza, circoli abbondantemente negli ambienti della finanza ed in particolare a Wall Street, come ampiamente descritto e documentato da un recente film di Scorsese.

Dunque, droga, dipendenza e tossicomania sono elementi che, in un modo o in un altro sono connaturati al modo di produzione del capitale giacché, essendo esso stesso un meccanismo sociale che agisce alla stregua di un organismo biologico, non può esimersi dall’essere attratto da sostanze\elementi che possono generare dipendenza risollevando, nell’immediato, da fasi più o meno lunghe di crisi profonda.

In questo caso si fa riferimento a un’altra sostanza che pian piano sta assumendo questo ruolo per gran parte del capitale mondiale: genera dipendenza e assuefazione; violente alternanze di depressione ed euforia, senza che ci sia modo di intervenire altrimenti per arginare questo bipolarismo. In molti penseranno che si stia alludendo al profitto, forma monetaria dello sfruttamento; altri, più correttamente immagineranno che il riferimento è al plusvalore ricordando la naturale “voracità” del capitale che Marx non tarda mai di rimarcare. In realtà stiamo parlando di un qualcosa che non agisce in maniera benefica sul ritmo di accumulazione, bensì, proprio come l’eroina, può determinare effetti stupefacenti nell’immediato a cui seguono – più o meno immediatamente – reazioni nefaste ed incontrollabili.

Incatenati ad una situazione critica, per certi versi più profonda rispetto a quella emersa nel 2008 col fallimento di Lehmann Bros. (Lb), le sorti del capitale legato al dollaro e all’euro (ma in generale anche quelle degli altri fratelli nemici) sono dipese profondamente dalle cosiddette iniezioni (non è un caso che l’analogia tenga anche volendo usare la terminologia tecnica) di liquidità all’interno del sistema. In altri termini, i cosiddetti quantitative easing (ossia gli allentamenti quantitativi) proposti prima dalla Federal Reserve e poi da molte altre banche centrali in giro per il mondo hanno tenuto in vita un sistema che non solo in quasi dieci anni di disastro economico non è riuscito a risolvere gli insolubili problemi, ma li ha persino amplificati.

Il problema della “iniezione fatale” si è riproposto all’inizio dell’anno corrente, 2016, quando, per le ragioni di cui si discuterà in seguito, a fronte di un empasse generalizzata dell’accumulazione mondiale, sancita dal continuo ribasso delle stime di crescita del Pil mondiale da parte del Fmi e dalle difficoltà incontrate della locomotiva cinese, le reazioni dei mercati borsistici di ogni parte del mondo sono state a dir poco drammatiche; il crollo è stato talmente drastico che ciò ha indotto molti a presupporre che si stessero riproponendo le stesse dinamiche del celebre settembre del 2008. Uno dei più rilevanti rappresentanti del capitale legato all’euro, il governatore della Bce, Mario Draghi, è stato costretto, non per altro, a promettere di iniettare nuova liquidità nel sistema, sebbene ciò, come già ampiamente dimostrato dalla storia, non abbia un effetto benefico neanche nell’immediato, in termini di accumulazione reale, ossia di produzione e vendita di merce; tuttavia, proprio come accade ad un tossicodipendente in astinenza, ciò è stato sufficiente per far passare il morale delle borse da un profondo rosso all’euforia. Tuttavia, questa sensazione è durata molto poco, forse meno del previsto e, nei prossimi paragrafi tenteremo di spiegarne il perché.

 

Il momento dell’iniezione

Gli inizi degli anni settanta furono il periodo in cui l’accumulazione di capitale iniziò ad incontrare, a livello mondiale, le prime sonore battute d’arresto dovute principalmente alla crisi Usa e del dollaro palesatasi con la decisione unilaterale di concludere gli accordi di Bretton Woods. La stessa generazione che era stata soggetto nel decennio precedente di importantissime battaglie, seguendo paradossalmente la fase recessiva del capitale, sembrava anch’essa esaurire la propria spinta rivoluzionaria, richiudendosi più spesso in droga e rock’n’roll piuttosto che proporre e ribadire rivendicazioni di classe. La band Rolling Stones, arcinota al pubblico in quel periodo, oltre che per il suo ottimo rock-blues, anche per la disinvoltura nella gestione di un’ampia gamma di droghe pesanti da parte di alcuni dei suoi membri, cantava, nel 1972, “per favore, sorella morfina, tramuta questo incubo in un sogno”. Il successo del pezzo, le cui parole in realtà erano state scritte da Marianne Faithful e non già da Mick Jagger, era dovuto alla capacità di interpretare quello che era uno stato fisico comune, ossia un insieme di forti sensazioni che apparteneva trasversalmente alla generazione nata perlopiù tra le bombe della seconda guerra mondiale e l’immediata ricostruzione: la dipendenza dalle droghe pesanti conduceva rapidamente agli inferi, da cui, solo apparentemente, una iniezione di eroina o morfina avrebbe potuto far riemergere peraltro per un periodo molto limitato e a condizione che, nel ritorno verso la triste “normalità”, l’incubo sarebbe divenuto ancora più nero e spaventevole… e così fino alla presumibile resa incondizionata, come è accaduto fin troppe volte.

Non deve essere molto distante ciò che è passato per la mente dei voraci rappresentanti del capitale fittizio quando Draghi ha convocato una conferenza stampa, e, come già detto, ha proposto il proseguimento dell’allentamento monetario, aprendo, come in molti hanno sottolineato, di fatto una “fase due” del celeberrimo bazooka della Bce. Come è noto, infatti, il primo mese del 2016 è stato straordinariamente drammatico su tutte le piazze finanziarie mondiali: solo nella prima metà del mese di gennaio i prezzi di borsa si sono sgonfiati (e non “bruciati” giacché non c’è nulla di materiale, bensì solo scommesse fittizie) dell’equivalente di ben 5.600 mrd $. Nel dettaglio, la borsa di Shanghai ha perso il 15%, Dow Jones e Nasdaq circa il 10%, e su questi dati si è attestato anche il mercato europeo, seppur con valori leggermente più negativi, e quello giapponese. Insomma, in quindici giorni la ricchezza fittizia si è ridotta di una cifra equivalente ad un terzo del Pil statunitense. Un crollo generalizzato, che mostra, evidentemente, delle falle sistemiche che hanno indotto gli operatori di borsa e dunque il capitale in generale, in crisi, a supplicare per un intervento delle autorità monetarie (Bce e Fed, in particolare) trattate alla stregua di veri e propri pushers (spacciatori di liquidità) che si cercano affannosamente quando si entra nelle terribili crisi di astinenza. Per quanto estremamente esasperata nelle modalità di espressione, la manifestazione di questa dipendenza non è cosa nuova, né tantomeno poco intuibile. La sola grande differenza è che si estrinseca con una violenza inaudita e sancisce, nei fatti, che dopo otto anni ben poco è stato risolto, nonostante le parole dei lacchè della classe al potere e dei suoi rappresentanti istituzionali.

Quasi tre anni fa, a seguito del diffondersi tra le banche centrali della “moda” di battere moneta a suon di quantitative easing (specie negli Usa), già avvertivamo dei rischi che un’inondazione di liquidità avrebbe potuto comportare e scrivevamo al riguardo (Schettino F., 2014, Diluvio di liquidità, La Contraddizione, 143): “Seguendo alla lettera una litania ben nota a Wall Street (sell in may and go away), la prima metà del mese di maggio dell’anno corrente, 2013, ha visto gli operatori del capitale speculativo abbandonare ogni remora, immergendosi in un volume di “affari” che, se da una parte trova pochi precedenti anche prima del crollo di Lb, dall’altra ha permesso a molte piazze finanziare di superare alcune soglie (cosiddette psicologiche) ottenendo dei risultati che, innegabilmente, rimarranno nella storia: l’abbondante utilizzo del termine rally, ormai patrimonio non più esclusivo della stampa specializzata, rappresenta proprio questa serie di movimenti che, in poche settimane, ha traghettato la borsa di Francoforte a superare gli 8.200 punti [Dax] già nei primi giorni di maggio, i 15.000 negli Usa [Dow Jones], ad uno stato euforico sui listini nipponici, oltre ad aver garantito alla gran parte delle piazze finanziare profitti particolarmente soddisfacenti, aggiungendo nuovi tasselli alla scia di performance che dall’inizio dell’anno si è stabilizzata in territorio nettamente positivo.

La questione, già intrisa di sospetti, considerando le inenarrabili fatiche registrate nell’accumulazione reale, di valore, diviene ancora più preoccupante se si osserva che l’assalto ai titoli di stato non si è limitato a quelli emessi da paesi che, almeno prima del 2008, avevano dimostrato di essere sufficientemente solventi; quel che più colpisce è che questa mostruosa richiesta è stata rivolta persino ai paesi meno stabili del continente africano. In Ruanda, ad esempio, la recente emissione di titoli ha ricevuto una clamorosa over-subscription: ciò vuol dire che il volume della domanda per l’acquisto dei titoli del debito pubblico ruandese è stato di ben otto volte superiore rispetto all’offerta, nonostante i tassi di rendimento non fossero particolarmente alti, da rendere ragionevole l’accollo di un rischio così significativo; se si considera che il tasso di rendimento è persino più basso rispetto a quello offerto dagli omologhi italiani sino a qualche mese fa, ci si rende conto dell’entità dell’anomalia. Da questo punto di vista sembra opportuno sottolineare come questi titoli, con scadenza a 10 anni, siano stati emessi in valuta straniera (dollari Usa), riproponendo, sebbene su scala per ora inferiore, quel meccanismo adottato in diversi paesi latinoamericani (Argentina in primis) tra la fine degli anni ottanta ed il decennio successivo, che ha reso praticamente impossibile la restituzione di tale debito contratto in valuta “forte”, divenendo così una delle cause principali del conseguente default.

Un andamento dei titoli azionari così sostenuto, in generale, può essere giustificato da due fenomeni alternativi e del tutto divergenti: da situazioni di accumulazione netta strettamente positiva e diffusa a livello mondiale (o almeno da uno scenario presumibilmente migliorativo), questione che spinge i valori delle azioni presenti in borsa a crescere di una misura simile; dalla condizione opposta, ossia nelle fasi più acute della crisi da sovrapproduzione, quando una pletora di capitale monetario accumulatasi nelle mani della classe dominante, individua nel giuoco di borsa l’unica possibilità per autovalorizzarsi attraverso il profitto (senza passare per merce e plusvalore), tramutandosi in pianta stabile in capitale fittizio; in assenza, dunque, di accumulazione crescente, il risultato più ovvio è che, a livello più ampio, un miglioramento sostenuto dei valori dei titoli di borsa non fa altro che rigonfiare bolle speculative in ragione geometrica.

Anche gli apologeti più servili del modo di produzione del capitale – che ideologicamente continuano a chiamare “economia di mercato” come se il mercato fosse una fattispecie esclusiva del capitalismo – in questo momento non se la sentirebbero di sostenere che l’accumulazione mondiale stia procedendo a gonfie vele. Scartata pertanto la possibilità che i rally di borsa siano indotti da una esaltante fase di produzione e circolazione di neovalore a livello mondiale, quella del violento rigonfiamento di una immensa bolla speculativa – conseguenza e, pertanto, non causa della crisi di accumulazione – resta l’ipotesi più agghiacciante e al tempo stesso più conforme alla realtà.

Un esempio su tutti può fornire un’adeguata rappresentazione di ciò che sta avvenendo sui mercati finanziari internazionali. Certamente tutti ricordano la bolla legata ai derivati sui mutui subprime, ossia quei pacchetti azionari-immondizia che già dal 2006 furono messi in circolazione, con l’approvazione colpevole delle agenzie di rating, ma che erano minati alle fondamenta da una più che certa insolvenza da parte dei debitori, quei soggetti statunitensi che, privi di ogni tipo di garanzia (lavoro stabile, proprietà ecc.), avevano preso a prestito cifre ingenti per l’acquisto di immobili che, dopo l’esplosione della bolla di fine 2008, avrebbero inevitabilmente perso in quanto insolvibili. Uno tra quei tanti bond era denominato Mabs 2006-Fre1 ed era uno strumento costruito su mutui subprime di circa duemila persone (che, come previsto, in gran parte non avrebbero restituito le somme contrattate) il cui valore, già a fine 2008 era giunto, per ovvie ragioni, ad una cifra praticamente nulla: ma come questo, una miriade di strumenti simili erano stati venduti in ogni parte del mondo – proprio perché dotati di una buona valutazione rilasciata dalle agenzie di rating – lasciando nelle mani degli acquirenti ciò che si rivelò essere un pugno di mosche quando, alla fine del 2008, il giuoco veniva svelato e l’immensa bolla iniziò a detonare.

Ebbene, ciò che spaventa di più, è che, dopo un quinquennio di crisi pesantissima, di rassicurazioni da parte dei rappresentanti istituzionali che i comportamenti “dissoluti” svolti nel decennio precedente il crollo di Lb non si sarebbero più verificati, all’inizio del 2013 un fondo speculativo del Colorado ha avuto il coraggio di acquistare proprio il “maledetto” Mabs 2006-Fre1, nonostante il tasso di insolvenza di chi contratta questi mutui sia salito al 57%; perdipiù, è importante sottolineare come tale scelta non sia stata frutto di una scellerata strategia suicida, in quanto non pochi operatori hanno messo gli occhi sul titolo, dacché la sua valutazione di mercato si è più che raddoppiata in poco meno di cinque mesi. È questo uno dei tanti casi in cui la realtà soverchia nettamente ogni tipo di immaginazione e, ci racconta che, come dieci anni fa, anche la “spazzatura è divenuta oro” [vedi anche W.Riolfi, sole24ore, 8.5.2013].

La questione di maggior rilievo è che, il caso appena descritto, non è affatto sporadico: dall’inizio dell’anno corrente, infatti, il volume delle emissioni dei cosiddetti “titoli-spazzatura” ha superato quello del biennio 2006-2007, periodo di maggior rigonfiamento della bolla speculativa, esplosa solo qualche mese dopo. Pertanto, non sorprendono, ma al tempo stesso devono far riflettere, le recenti dichiarazioni di importanti agenti del capitale come Warren Buffett per cui “le obbligazioni sono ora un terribile investimento; quando le cose cambieranno, la gente perderà un mucchio di denaro”; oppure quelle di Mohamed El-Erian (direttore generale della Pimco, uno dei più grandi fondi di investimento al mondo) per cui “quest’onda finirà prima o poi per infrangersi”: individuarne le modalità e le conseguenze, al momento, data l’importanza qualitativa che il fenomeno sta assumendo, è cosa ardua”.

 

Semplificazione monetaria (quantitative easing)

La sovrapproduzione di capitale altro non è che sovraccumulazione di capitale: impossibilitati nella produzione di plusvalore e, per questo, liberati dalla produzione di merci, la proiezione nella speculazione nel tentativo di usurpare quote di profitto ai fratelli nemici in fase di crisi è una necessità più che una scelta. È l’incedere stesso della crisi, e dunque la riduzione tendenziale del saggio di profitto, da una parte a favorire fenomeni di concentrazione, dall’altro a creare quella massa di capitale monetario che viene liberata dalla produzione di merce ma che, proprio perché capitale, ha il dovere di autovalorizzarsi accedendo all’unica fonte di profitto (non di plusvalore) che esiste, ossia quella dei mercati borsistici: “la crescente concentrazione non appena abbia raggiunto un certo livello, provoca una nuova diminuzione del saggio del profitto. La massa dei piccoli capitali frantumati viene così trascinata sulla via delle avventure: speculazione, imbrogli creditizi ed azionari, crisi. Quando si parla di pletora di capitale ci si riferisce sempre o quasi sempre, in sostanza, alla pletora di capitale per il quale la caduta del saggio di profitto non è compensata dalla sua massa – e questo avviene sempre nel caso di nuovi capitali di formazione derivata – oppure alla pletora che questi capitali, incapaci di funzionare da soli, mettono a disposizione dei dirigenti delle grandi industrie sotto forma di credito. Questa pletora di capitale viene determinata dalle stesse circostanze che generano una sovrappopolazione relativa e ne costituisce quindi una manifestazione complementare, quantunque i due fenomeni si trovino ai poli opposti, capitale inutilizzato da un lato e popolazione operaia inutilizzata dall’altro” [Marx, C,iii, 15].

La pletora di capitale (monetario), che è cresciuta a dismisura con l’incedere dell’ultima crisi capitalistica – al pari della “liberazione” di forza-lavoro, a testimonianza della gravità della situazione – è pertanto frutto endemico della crisi; essa, già presa isolatamente, riesce a spiegare una buona parte dell’impres­sionante volume delle operazioni del capitale fittizio mondiale sia precedenti che successive alla fine del 2008: l’eccesso di capitale ha iniziato ad accrescersi già dagli inizi degli anni settanta, quando proprio l’accumulazione mondiale è entrata in crisi, espandendo i suoi tentacoli mortiferi in molte aree del mondo (sudest asiatico, sud America, paesi ex sovietici ecc.). Tuttavia, come abbiamo già più volte sottolineato in passato, negli ultimi 6/7 anni, un’ulteriore e mastodontica iniezione di liquidità, con l’obiettivo di contrastare l’ipotetico credit crunch (stretta creditizia), ha estremizzato tale fenomeno e reso, ovviamente, più devastanti, per ora almeno in potenza, le sue conseguenze.

Una stima quantitativa della montagna di liquidità in eccesso e presente sul mercato mondiale, in quanto capitale fittizio, è praticamente impossibile da fare: gli “addetti ai lavori” parlano di alcune migliaia di miliardi di euro, sebbene in molti reputino tale volume sottostimato rispetto a quello reale. Del resto è dagli ultimi mesi del 2008 che i cosiddetti quantitative easing vengono promossi ormai in ogni parte del mondo: questo stru­mento di politica monetaria (espansiva), in sintesi, consiste nella creazione di una nuova quantità di moneta liquida stampata dall’autorità locale che, per ovvii motivi, viene data in prestito a tassi molto bassi, spesso negativi, – e pertanto vantaggiosi – a imprese che, teoricamente, dovrebbero essere colpite dal credit crunch, essendo escluse dai consueti canali di finanziamento (prevalentemente quello bancario o obbligazionario).

Essendo il capitale più inguaiato quello legato al dollaro, a iniziare questa danza (potenzialmente) suicida delle iniezioni di liquidità, è stata ovviamente la Federal reserve [Fed] che decideva di stampare ben 1700 mrd $ ex novo, già agli inizi del 2009, per tentare di tamponare una situazione a dir poco drammatica; preparava così il terreno per lo spostamento dell’epicentro della crisi nei territori del capitale legato all’euro, suo principale antagonista, cosa che si sarebbe concretizzata in poco più di due anni in pianta stabile. In contemporanea, la Banca d’Inghilterra, sempre più allineata alle scelte politiche ed economiche della sua vecchia colonia, procedeva nell’acquisto di titoli potenzialmente tossici per un importo pari a circa 300 mrd €, per mezzo di sterline, anch’esse, appena sfornate dalla zecca di stato. La situazione era però talmente grave che Bernanke dovette ricorrere, solo qualche mese dopo alla seconda tranche, immettendo altri 600 mrd $ (qe ii), a cui corrispondeva un’analoga manovra in territorio britannico, sebbene di importo nettamente inferiore. Poi quando, a fine 2012, la Fed promulgò il cosiddetto qe-infinity, ossia il pompaggio di circa 50 mrd $ a settimana finché la disoccupazione non fosse ritornata sotto livelli “accettabili”, allora si comprese che un problema immenso sarebbe emerso nel momento dell’interruzione del programma e, quindi, al varo della cosiddetta sterilizzazione del mercato, ossia quando la Fed avrebbe dovuto iniziare le manovre per prosciugare il mercato della liquidità immessa, almeno in parte.

Ma i problemi erano straordinariamente impellenti e, pertanto si puntò a dare una boccata d’ossigeno subito, rimandando ad un imprecisato domani le drammatiche conseguenze. La Banca centrale europea, in quel periodo vittima delle sue stesse regole – improntate sul controllo del livello dei prezzi – non aveva la possibilità normativa di replicare a tali metodi aggressivi e divenne così la vittima sacrificale degli attacchi speculativi che ne seguirono e che acutizzarono, in maniera quasi mortale, le crisi del debito dei piigs che ancora viviamo[2]. La mossa della Bce di inizio 2015 di promulgare un vero e proprio qe è stata senza dubbio tardiva ed è probabilmente intervenuta quando la frittata era già stata fatta: con tale programma la Bce avrebbe fornito al sistema bancario europeo, fino a settembre 2016 nuova liquidità pari a 1.140 mrd €, quantità suddivisa in emissioni settimanali di 60 mrd € circa. Questo nuovo denaro è stato ceduto alle singole banche centrali nazionali che hanno avuto mandato di acquistare i titoli del debito pubblico emessi dallo stato sul mercato secondario, quindi non all’emissione, non violando così il principio di “divorzio” tra autorità monetarie e governo sancito a livello europeo (ma anche diffuso altrove) almeno dagli anni novanta. Sui limiti potenziali di una tale manovra già abbiamo scritto abbastanza nel no.150 della Contraddizione e, effettivamente, a distanza di un anno, possiamo sostenere, senza troppi crucci di venir smentiti, che l’impatto sull’accumulazione è stato di scarsa entità; i dati sul Pil 2015 dei paesi dell’eurozona difficilmente superano il punto percentuale. E considerando, da questo punto di vista, la spettacolare caduta del prezzo del petrolio e la svalutazione dell’euro rispetto al dollaro, in effetti si potrebbe pensare persino ad una neutralità sostanziale, almeno in relazione alla produzione di merce e valore. Spesso in passato [in particolare no.135 della Contraddizione] sottolineavamo come la maggior parte di questa nuova immensa liquidità fosse destinata principalmente all’acquisto di nuovi strumenti derivati di natura speculativa: affossata, de facto l’approvazione della legge Dodd-Frank – che nella propaganda usamerikana avrebbe dovuto dare nuove regole ai mercati finanziari in quanto colpevoli, secondo la propaganda di classe, della crisi – già dal 2011, le cose si incanalavano su un pericoloso piano inclinato per il capitale mondiale.  Scrivevamo allora, e oggi ne vediamo le più materiali conseguenze: subito dopo la detonazione del 2008 “la musica è ripresa, con la stessa orchestra e gli stessi direttori di prima”.

 

Piove sul bagnato

Per sbrogliare tutta questa matassa di numeri è innanzitutto significativo rimarcare come la crisi di sovrapproduzione generi una pletora di capitale monetaria, a causa dell’impossibilità dello stesso di autovalorizzarsi – scriveva efficacemente Marx “la sovrapproduzione in modo speciale ha per condizione la legge generale di produzione del capitale, di produrre nella misura delle forze produttive (cioè della possibilità di sfruttare, con una data massa di capitale, una massa di lavoro la più grande possibile) senza riguardo per i limiti del mercato esistenti o per i bisogni solvibili, e di realizzare questo per mezzo di un continuo allargamento della riproduzione e dell’accumulazione” [Teorie sul plusvalore, cap. 14, (f.725)]. In altri termini, giacché il capitale non trova convenienza nel produrre merce, poiché il mercato è saturo, e dunque non può giungere al profitto attraverso la produzione di valore (il celebre d-m-d’) è costretto a gettarsi in larga parte nel giuoco di borsa con lo scopo di rapinare ai capitali concorrenti quote di profitto (d-d’). Dunque, al contrario di quello che sostengono molti economisti o operatori di mercato, non ci si trova dinanzi ad un credit crunch perché c’è poca liquidità: viene interrotto il canale di prestiti da istituti bancari ad aziende o a singoli lavoratori poiché in una fase di crisi come quella attuali gli uni non offrono garanzie di restituire a causa del glut of the market; gli altri, molto più semplicemente, poiché non possono garantire, vista la progressiva precarizzazione del lavoro. In questo caso si potrebbe forse dire che di capitale monetario liquido ce ne è troppo, ma le condizioni di mercato ne impediscono una ripartizione più adeguata.

Per queste ragioni, se gli agenti del capitale fossero presi in considerazione come un unicum, ossia se si vedesse la classe dominante nella sua unità, la conseguenza più ovvia sarebbe quella di sostenere che un’inondazione di liquidità a livello globale potrebbe generare neanche il minimo effetto sulla produzione materiale e anche sui rapporti di forza esistenti all’interno della concorrenza tra capitali. Tuttavia, soprattutto in una fase di crisi violenta e persistente come quella attuale, la molteplicità della classe dominante è un aspetto molto evidente a causa della conflittualità che emerge con altrettanta chiarezza. Dunque, la tempistica con cui le diverse Banche centrali, strumento di ogni singola cordata di capitalisti, è intervenuta ha fatto senza dubbio la differenza. Già in numerosi articoli che scrivemmo in passato sulla Contraddizione [cfr. 130, 131, 135 ecc.] facemmo emergere come molte fasi della crisi post 2008 fossero attribuibili proprio a ingenti movimenti finanziari in parte foraggiati da queste iniezioni di liquidità. Tra i tanti va ricordato il mortale attacco speculativo del febbraio 2010 che solo apparentemente era diretto ai titoli del debito greco quando, in realtà, come poi dimostrato ampiamente, sancì la capitolazione del capitale a base euro nei confronti di quello ancorato al dollaro Usa, iniziando così a generare una prospettica unione (vedi ttip) in funzione anti-asiatica. Pertanto, non deve stupire che – per quanto solo in apparenza – l’economia mondiale più inguaiata, quella Usa, sia riuscita ad alzare la testa più rapidamente, anticipando le mosse dei fratelli nemici che, per quanto dovute, si sono rivelate del tutto inefficaci e non più in grado di contrastare l’offensiva ormai andata a segno. Da questo punto di vista sembra utile ricordare come non sia casuale l’utilizzo terminologico (bazooka), da parte degli agenti della classe dominante, per indicare le misure di politica monetaria messe in atto da Draghi a cui in parte si faceva riferimento all’inizio di questo articolo: l’evidente connotazione bellica conferita alla manovra “inconsueta” sancisce che, come al solito, gli appartenenti alla classe dominante e coloro che ne gestiscono gli interessi abbiano un grado di coscienza di classe e del funzionamento del sistema infinitamente superiore a quello dei lavoratori.

Dell’inutilità sostanziale, in termini di accumulazione, abbiamo già detto: tuttavia, osservando la questione, sempre dalla prospettiva della conflittualità interna alla classe, emerge un ulteriore aspetto che, per certi versi consolida le considerazioni già fatte e getta ulteriori ombre su quelli che potrebbero essere gli scenari futuri. Come è ampiamente noto ciò che sta accadendo sui mercati asiatici, in particolare da almeno un quarto di secolo da oggi, influisce pesantemente su tutto il sistema del capitale: in diversi articoli avevamo persino lanciato la provocazione che la “comunista” Cina fosse divenuta la locomotiva del capitalismo del xxi secolo o, da un’altra prospettiva ancora, che l’unico grande paese sedicente comunista avesse salvato l’attuale modo di produzione da una rovina altrimenti poco evitabile. Dalla metà del 2015, però, e precisamente dall’agosto di quell’anno, quando le autorità monetarie locali decisero di svalutare lo yuan, permettendo così in automatico un guadagno in termini di competitività per le merci cinesi (a discapito di quelle europee, statunitensi ecc.), si iniziava a guardare verso oriente con diffidenza e giustificato terrore. In molti ricorderanno che la reazione immediata fu sancita da un crollo strepitoso di tutte le borse mondiali condito da un diffuso senso di panico che però, in non poche settimane, non con poca fatica, rientrò: in quell’occasione si iniziava a parlare nuovamente di una presunta “guerra valutaria” riprendendo un’idea sviluppata negli Usa e poco diffusa in Europa (The Currency War, J.Rickards) secondo cui, in estrema sintesi, il fulcro della lotta capitalistica si stesse svolgendo attorno alle svalutazioni delle diverse valute (dollaro, euro, yuan e yen in primis) per tentare di accaparrarsi quote di mercato superiori a danno dei capitali concorrenti.

Apparentemente, una spiegazione del genere sembrerebbe convincente: il mito della “svalutazione competitiva” viene applicato al mercato mondiale e, secondo i fautori di questa teoria, la concorrenza si giocherebbe principalmente sulla tendenza a ribassare il valore della propria moneta tentando di rendere più a buon mercato la mercanzia prodotta nel territorio di riferimento. La questione è però assai più complessa e non è riducibile ad una questione contabile impostata così semplicemente: prescindendo dalle specificità del capitale e del suo modo di produzione, viene adottato qui un punto di vista borghese, per questo molto prossimo a quello dei fautori della fuoriuscita dall’euro (vedi anche Bagnai e altri). Non che la questione valutaria non abbia la sua rilevanza, tutt’altro. Come abbiamo scritto molte volte sulla Contraddizione, l’accezione valutaria è quella che più caratterizza l’attuale fase dell’imperialismo: tuttavia, se stralciata dalle leggi generali dello sviluppo capitalistico e dunque dalla produzione di valore al livello mondiale – che implica imprescindibilmente la conflittualità di classe, nonché quella interna ad entrambe – la questione si svilisce a divenire unicamente una storia contabile, per questo di scarso interesse (per un approfondimento sulla questione delle aree valutarie si invitano i lettori a consultare il sito: www.contraddizione.it/temi). Bisogna tuttavia anche ammettere che, seppur esso rappresenti unicamente un aspetto della questione, la politica ribassista sui cambi è, anche e soprattutto a causa della crisi generalizzata, una realtà a cui tutte le grandi banche centrali (Ue, Usa,  Cina, Giappone) si stanno appoggiando, per tentare di dare una piccola boccata d’ossigeno all’asfittico capitale locale. Però, come sottolinea anche la stampa specializzata [M. Longo, sole24ore, 04.02.2016], nel momento in cui tutti costoro ormai propongono la stessa politica monetaria “non convenzionale”, che consiste un’inondazione di liquidità connessa a tassi di interessi reali che divengono negativi – che in altri termini significa che i tassi di interessi nominali sono più bassi dell’inflazione, ossia che prendere a prestito denaro non solo non costa nulla, ma è di per sé un investimento – allora gli effetti sono nulli, nei termini della “svalutazione competitiva” giacché sono mosse che si neutralizzano tra di loro. In altri termini, ammettendo implicitamente che un pompaggio di liquidità non fa altro che generare inflazione, questa corsa al ribasso si basa su generose iniezioni nel sistema. A quel punto non sarà strano rilevare come questo capitale monetario inizierà nuovamente il giro della morte solo che in proporzioni significativamente più elevate di prima aggravando il sistema del capitale di altra zavorra. La sua conversione in capitale speculativo (o fittizio) è ormai data per scontata e solo questo fattore non potrà che agire generando nuove fibrillazioni sul mercato azionario in prima battuta e poi, chiaramente, su quello della produzione di merce.

Dunque, volendo tirare momentaneamente le somme, ciò che emerge con sufficiente nitidezza è che nonostante in sette anni siano stati pompati nell’sistema mondiale dalle sole Bce, Fed e Banca Giapponese una quantità di moneta non troppo lontana dai 7.500 mrd $ (che, per capirci, è una cifra prossima al doppio del Pil annuale tedesco), il capitale mondiale è da una parte in fase di sostanziale stallo se si considerano le prospettive di crescita previste (al ribasso) dal Fmi (circa il 3% a cui si aggiunge una crescita demografica superiore all’1%); dall’altro un fardello di straordinario peso di capitale fittizio sta lentamente schiacciando il capitale produttivo di valore o impiegato nella sua circolazione a livello mondiale. È evidente, pertanto che, in generale, i qe non sono stati così efficaci nell’agire sull’accumulazione di capitale (cosa di fatto affermata da una recente ricerca della Commerzialbank sull’efficacia di quello europeo), bensì, di fatto, sono stati in grado di creare una bolla straordinaria la cui pericolosità e dinanzi agli occhi di tutti, agenti del capitale in primis. In sostanza, questa folle corsa alle iniezioni di liquidità e al ribasso dei tassi di interesse, ha di fatto sentenziato che, il divorzio delle banche centrali dai governi, si è di fatto concretizzato nel fatto che la politica monetaria sia divenuto uno strumento utilizzato in grande prevalenza al fine di alimentare operazioni speculative il cui volume ormai raggiunge dei livelli straordinari. Dunque, a distanza di otto anni dall’esplosione violenta della crisi, si assiste ad una repentina autofagocitazione da parte del non-capitale (modo in cui Marx definiva il capitale fittizio) ai danni di quello produttore di valore. In una delle più evidenti contraddizioni, non esistendo alcuna scissione, a livello di proprietà, del capitale industriale con quello speculativo, la negazione (capitale fittizio) spinge ancora più in basso il punto di crisi cibandosi delle briciole del capitale produttore di merce (affermazione) che, sempre più in difficoltà di accumulazione, risulta completamente dominato dall’altro.

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