Print Friendly, PDF & Email

Article Index

 

La questione energetica

Questo straordinario appesantimento del volume delle transazioni fittizie è senza dubbio uno degli elementi che è alla base dei crolli che sembrano non aver alcuna intenzione di rallentare in tutto il mondo, tanto da non fare ormai neanche più notizia (nel frattempo che elaboriamo questo articolo, il principale indice di borsa italiano è arrivato a sgonfiarsi in un mese del 20%; l’indice S&P ha perso circa 2 mmrd $ dall’inizio dell’anno e così via). In molti si son chiesti se il contemporaneo tracollo del prezzo del petrolio possa esserne una causa e, qualora ciò fosse appurato, perché le due grandezze, intuitivamente correlate negativamente, debbano procedere, in questo inizio d’anno, scivolando in un abbraccio mortale: l’apparente ossimoro concettuale è che per anni si è raccontato che il prezzo alto del petrolio tirava su i costi delle aziende e dunque bisognava licenziare per rilanciare la produzione, mentre oggi sembra che nonostante il repentino calo, la produzione non dia alcun segnale di controtendenza. Sull’andamento del prezzo del barile c’è poco da aggiungere: solo nell’ultimo anno la sua valutazione si è dimezzata, proseguendo la spettacolare corsa che nel giro di sei anni lo ha portato da 140 $ a circa 30 $, con ovvi stravolgimenti economici e politici a livello mondiale. Senza dubbio, il crollo dei prodotti energetici (non solo il petrolio, ma anche il gas e derivati) ha, di fatto, inginocchiato tre economie che, secondo alcune analisi, erano il reale obiettivo della “manovra” che ha prodotto una riduzione così marcata: stiamo parlando di Russia, Venezuela e Iran. L’attore principale di tale stratagemma è stato ovviamente l’Arabia saudita – storico alleato degli Usa – che negli ultimi mesi ha spinto la produzione a tal punto da causare un ribasso così formidabile, non tenendo conto, forse, come si vedrà più avanti, di alcune complessità che nel frattempo si son aggiunte.

Indipendente dalla volontà esplicita, i risultati sono andanti in tale direzione: il bilancio commerciale russo è immediatamente andato in rosso, imponendo un crescente indebitamento al paese che, al momento attuale, risulta essere il più evidente antagonista del capitale legato al dollaro, soprattutto dal punto di vista militare: le questioni dell’Ucraina e della Siria, ancora drammaticamente aperte, sembrano quotidianamente sul momento di precipitare, aprendo a scenari bellici difficili da intuire ed anticipare. Discorso analogo per quanto riguarda il Venezuela che, essendo il secondo produttore di greggio al mondo, aveva ancorato la tenuta del cosiddetto “socialismo del xxi secolo” ai surplus commerciali conseguenti alla vendita di petrolio: come è noto, il presidente Maduro, non a caso sonoramente sconfitto nelle recenti elezioni parlamentari, si trova alla testa di un paese profondamente spaccato politicamente e incapace di garantire anche le merci basilari a grandi parti della popolazione: dunque, con il barile ai minimi storici, tutte le conquiste sociali del “petrosocialismo” sono state fortemente messe in discussione. Chiaramente, ciò non potrà che generare effetti significativi sugli equilibri del subcontinente latinoamericano e sui rapporti con gli Usa, in particolare per quel che concerne Cuba che negli ultimi anni aveva creato un rapporto di forte dipendenza proprio con il Venezuela: è ancora incerto se questo possa avere un peso significativo su una presumibile svolta reazionaria in molti dell’America latina, a partire dal Brasile – di cui si discuterà successivamente – già in parte iniziata con la vittoria di Macri in Argentina e della destra appunto in Venezuela. Infine l’Iran, stato canaglia per antonomasia nell’immaginario dei governi statunitensi, unica nazione espressamente sciita e per questa, ed altre ragioni, in profonda ed esplicita opposizione al governo saudita, e stato chiave non solo per le questioni energetiche.

Se la volontà, più o meno esplicita, di inginocchiare le economie russe e venezuelane si coniuga abbastanza chiaramente con la strategia imperialista del capitale legato al dollaro di questo inizio secolo, qualcosa in più relativamente all’ostilità saudita\iraniana va quanto meno accennata poiché rappresenta un passo importante per comprendere anche altre dinamiche, comprese quelle inerenti il sedicente califfato e la prossima invasione di Libia. La strategia palese dei Saud era dunque quella di inondare il mercato di petrolio, facendo leva sulla crescita della domanda cinese, per mettere definitivamente fuori giuoco l’Iran che, alle prese con le sanzioni sul nucleare, avrebbe subito dei danni ingenti non potendo competere su un mercato con un prezzo così basso. L’affermazione dell’Arabia Saudita come potenza leader nell’area mediorientale sarebbe divenuta cosa scontata e ciò avrebbe potuto pesare anche nell’economia della guerra in Siria, paese legato all’Iran anche perché governato da Bashar Assad, sciita anch’egli come tutto il suo governo. Tuttavia, gli accordi sul nucleare, con i 5 + 1 dell’Onu nel luglio 2015, hanno completamente capovolto le attese saudite, portando nel giro di pochi mesi all’eliminazione delle sanzioni all’Iran (gennaio 2016) che ha acquisito reputazione, dimostrando una inattesa fermezza dinanzi anche alla plateale provocazione saudita consistita nella decapitazione dell’Imam sciita Al Nimr. La conflittualità tra i due paesi rimane comunque molto elevata: in molti, infatti, sostengono che il regime waabita finanzia più o meno direttamente il califfato, il cui prioritario nemico non è, come si vuol far credere, l’occidente, bensì proprio gli sciiti, mentre l’Iran è, naturalmente, un suo fermo oppositore. A livello militare, i Saud spendono annualmente circa 80 mrd $, 12% del Pil, seguendo solamente Usa, Russia e Cina come totale investito: perciò non stupisce affatto che il più importante alleato, il governo statunitense, sia il maggior fornitore da cui hanno ricevuto armamenti per un totale di 90 mrd $ in soli quattro anni. Anche l’Iran, da quello che trapela, non risparmia in questi termini, raggiungendo i 30 mrd $ l’anno, di cui il 70% viene speso per la sovvenzione dei cosiddetti guardiani della rivoluzione, Pasdaran. In termini di produzione di greggio, l’Arabia saudita ha un potenziale nettamente più elevato, raggiungendo quasi 10 mln di barili, contro i quasi 3 iraniani che potrebbero divenire rapidamente 4\5 specie a seguito dell’eliminazione delle sanzioni. La strategia anti-Iran, pertanto, ha funzionato ben poco e, allo stato attuale, Rouhani viene considerato alla stregua di un interlocutore attendibile per il capitale internazionale così come l’economia iraniana che, di fatto, sicuramente ha subito il crollo del prezzo del petrolio ma non meno di quanto sia accaduto proprio all’Arabia saudita: l’immediato viaggio d’affari di in Europa, e in Italia, che ne è il secondo partner commerciale, rappresentano probabilmente anche una vittoria da parte della Russia, e in parte della Cina, che hanno sempre sostenuto il governo di Teheran, anche quando era presieduto da Ahmadinejad.

Peraltro, oltre all’obiettivo persiano, l’incremento della produzione – mossa decisa unilateralmente, dacché l’Opec ormai ha un peso molto marginale – nei programmi di Riad era destinata alla potenziale crescita di domanda proveniente dall’idrovora cinese e da quella indiana; allo stesso tempo, l’atteso fallimento dei produttori di shale oil statunitense avrebbe di fatto ridotto la produzione complessiva mondiale permettendo un adeguato rialzo proprio del prezzo medio. Ma, purtroppo, così non è andata e il governo saudita si trova a navigare in acque particolarmente agitate trovandosi per la prima volta con un deficit commerciale di quasi 90 mrd $. Le ragioni sono abbastanza chiare: da una parte le fibrillazioni dell’economia cinese, di cui si parlerà successivamente, non hanno garantito quella domanda necessaria ad assorbire la sovrapproduzione di greggio. Dall’altra, la teoria secondo cui la convenienza di estrazione dello shale oil statunitense sarebbe esistita qualora il prezzo di ogni barile fosse stato superiore ai 60 $ (break even) si è rivelata insensata, non considerando che le recenti innovazioni tecnologiche permettono di estrarre petrolio di scisso a costi nettamente inferiori, creando peraltro dei danni naturali imponenti – che però non vengono mai contabilizzati proprio perché pubblici, ossia di nessuno, secondo la vulgata liberale. Dunque, il governo saudita, e forse in parte anche gli Usa, hanno sostanzialmente commesso un grave errore strategico sia dal punto di vista economico, e dunque politico, che da quello militare, fallendo oltretutto nel tentativo di finanziare gruppi jiadisti contro Assad in Siria e non riuscendo ad eliminare la resistenza sciita, sostenuta dall’Iran, in Yemen[3].

Una volta osservato in quali condizioni di conflittualità si sono svolte le cause della riduzione del prezzo del petrolio, è più semplice comprendere anche le ragioni che sono alla base della correlazione diretta con l’andamento delle borse mondiali. Esistono migliaia di modelli che spiegano i nessi tra borse e petrolio, ma la loro numerosità è un ovvio indice della loro imprecisione: non è certamente questa la sede per discuterli o proporne uno che possa avere una valenza assoluta ma è invitiamo a riflettere su alcuni elementi. Innanzitutto, come già visto, i due andamenti riflettono: una crisi generalizzata a livello produttivo, non più adeguatamente soccorsa dalla Cina, come si vedrà più avanti; una feroce instabilità politica e militare, oltreché economica, in larghe parti di Europa, Africa e Asia; infine, come visto a principio di questo articolo, lo spropositato eccesso di liquidità che negli anni ha inondato il mercato mondiale. Su quest’ultimo punto, forse il più pericoloso per la tenuta del sistema, è di rilievo aggiungere alcune riflessioni: proprio per la sua specificità, gli indici di borsa hanno una relazione con la produzione di valore molto flebile, specie in fasi in cui esistono rigonfiamenti di bolle speculative in giro per il mondo, ossia nelle fasi di crisi molto avanzata. Per quanto riguarda il prezzo delle merci energetiche, sarebbe un errore limitarsi ad osservarne la relazione con la produzione di valore o il suo trasporto (circolazione); è altrettanto, se non di più, di rilievo analizzare la tipologia delle scommesse prevalenti sulle cosiddette commodity, proprio sul mercato di borsa: se prevale la posizione rialzista, mentre il petrolio scende, chi ha effettuato investimenti fittizi di questo tipo, e cioè sull’aumento dei prezzi del petrolio, ci perde un mucchio di quattrini, indipendentemente dall’effetto che esso può avere sulla produzione di merci e così via. Quindi, in una economia mondiale dominata in questo momento da valori fittizi che sono dieci volte superiori rispetto al quello monetario delle merci complessivamente prodotto, è inevitabile che l’andamento del mercato speculativo, relativamente al prezzo del barile di petrolio, sia nettamente più importante rispetto all’altro, generando questo tipo di andamenti solo apparentemente contro-intuitivi.

 

Una crisi incontenibile

Il crollo delle borse mondiali assume ogni giorni connotati più spaventevoli: quotidiani e organi di stampa si affrettano a incensare momentanei rimbalzi ma, per usare gergo tecnico, dopo solo qualche ora devono convenire che si tratta dell’ennesimo “gatto morto”. Questa metafora, con un senso dell’umorismo abbastanza noir, viene utilizzata per indicare una ripresa apparente, momentanea e di poca entità a cui seguiranno cali ancora più vistosi: infatti, si dice, che anche un gatto morto lanciato da un’altezza significativa rimbalza un po’, ma ciò non implica che sia vivo, tutt’altro. Dunque, per molte ragioni, sembra di essere tornati alla fine del 2008 quando tutto sembrava precipitare nel baratro senza che si riuscisse a intravedere una via d’uscita. Nell’ormai lontano 2013 (F.Schettino, Diluvio di liquidità, La Contraddizione no.143) concludevamo l’articolo con un presagio che sembra quanto mai adeguato alla realtà che stiamo vivendo: “la situazione tarda ad assumere connotati significativamente diversi dal biennio 2007-2008 ed il livello di accumulazione mondiale è sempre stagnante, o addirittura negativo se si espungono dal calcolo i dati cinesi. Questo dimostra come le conclusioni di sicofanti analisti di mercato o prezzolati d’accademia abbiano, per l’ennesima volta, capovolto il rapporto tra cause e conseguenze: il problema, infatti, non era allora, e lo è ancor meno adesso, l’assenza di credito, bensì esso è rappresentato dall’impossibilità generalizzata di impiegare capitale monetario per produrre valore, a causa di una crisi di sovrapproduzione di merce che ormai ha pervaso ogni angolo del mondo.

Sembrerebbe, quindi, di assistere allo stesso film già visto poco prima dello scoppio della bolla della new economy (2000), preceduto dalle aggressioni speculative alle tigri asiatiche, passando poi per Russia e America latina, oppure giusto al ridosso del crollo fatale di Lb e affini. Tuttavia, rispetto ad allora, le cose sono mutate significativamente: la situazione contingente è stata preceduta da un quinquennio che ha messo a serio repentaglio, da molti punti di vista, il sistema capitalistico. La condizione della classe subalterna, e anche della piccola borghesia, è talmente prossima ai minimi di sussistenza, anche in quegli stati in cui per secoli essa ha vissuto al pari della aristocrazia proletaria, che, di certo, una violenta deflagrazione della bolla difficilmente potrebbe lasciare intatte le istituzioni capitalistiche, così come abbiamo imparato a conoscerle da almeno mezzo secolo a questa parte”.

Rispetto al periodo in cui avevamo redatto l’articolo, alcune cose si sono persino aggravate pesantemente e ciò non fa altro che condire la situazione di elementi ancor più agghiaccianti. Intorno al 2010, ossia dopo due anni di feroci sconvolgimenti, non furono in pochi – spesso e volentieri terzo-mondisti o intellettuali\accademici, “anime belle” di sinistra, pronte all’ennesimo innamoramento politico – a intravvedere nei paesi emergenti e soprattutto nei Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) un presunto modello di capitalismo alternativo a quello “classico” in cui le relazioni mondiali seguissero le consuete regole di dominio del capitale statunitense o europeo su tutto il resto mondo in un’ottica (erroneamente) neocoloniale (men che mai imperialista). Immaginando un inesistente antagonismo Nord-Sud del mondo in luogo della scientifica dialettica tra le classi, pensavano che la crescita anticiclica che questi paesi avevano dimostrato di saper conseguire in un periodo di vacche magrissime, potesse rappresentare la giustezza di un presunto modello alternativo in grado di salvare il capitalismo, facendolo traslare su un piano di maggiore umanità.

Gli straordinari risultati in termini di crescita da parte della Cina mettevano da una parte in crisi i modelli econometrici tradizionali e dall’altra finivano per inorgoglire fin troppo anche intellettuali di un certo calibro che, accecati dalla bandiera rossa e dalla mera esistenza di un carrozzone burocratico come il Pcc, vedevano nella grande nazione asiatica qualcosa di simile ad un riscatto del socialismo reale nei confronti di un moribondo capitalismo. Anche coloro che, tra questi, avevano osservato le cose in buona fede, dovevano però ammettere che la sensibile crescita cinese generasse contraddizioni in graduale incremento, anche e soprattutto all’interno della massa di lavoratori che sono soggetti del processo di valorizzazione mondiale né più e né meno come gli omologhi di tutto il mondo. Discorso parzialmente simile avveniva per il Brasile che, dopo quattro mandati di presidenza del governo Pt (partito dei lavoratori) sembrava aver permesso quello straordinario balzo in avanti al più grande paese sudamericano generandone una trasformazione talmente forte da portarlo nelle prime posizioni mondiali in termini di Pil, arrivando a superare, nel 2013, persino l’Italia. La cosa che maggiormente abbagliò molti analisti fu che accanto a questi risultati in termini di crescita, si affiancavano apparenti riduzioni della disuguaglianza e sensibili abbattimenti della povertà: dunque, un modello in grado di coniugare crescita sensibile a riduzione di povertà e distribuzione del reddito sembrava poter essere di straordinario interesse per molte nazioni alle prese con le prove più violente create dall’emersione della crisi. Se per quanto riguarda la riduzione della povertà è giusto prendere atto dell’efficacia delle manovre adottate (riduzione di 20 mln di poveri in dieci anni), per quanto riguarda sia la crescita che la distribuzione del reddito, già mettemmo in guardia sulla caratteristica profondamente apparente di entrambi i fenomeni e sul loro legame indissolubile con i flussi finanziari che negli anni erano attirati dalla politica di alti tassi di interesse sui titoli pubblici brasiliani (regolarmente superiori al 10% in tutto il periodo) che facilmente si conciliavano con un costo del denaro praticamente pari a zero (o negativo) in Usa, Eu e Giappone. In altri termini, era giuoco abbastanza semplice che molti capitalisti prendessero a prestito senza costi dal sistema monetario statunitense o europeo per acquistare immediatamente titoli locali lucrando su un differenziale pari al 10-15% (garantito dallo stato) che in un periodo di buona accumulazione è già significativo; in uno di forte e perdurante contrazione è simile ad una manna dal cielo. Per quanto riguarda, invece, la distribuzione del reddito, già in articoli passati denunciammo il fatto che la riduzione della disuguaglianza fosse guidata principalmente dalla crescita del Pil, mentre a livello strutturale la distribuzione del reddito si stesse modificando generando un profilo di maggiore polarizzazione che, in caso di stagnazione o di crisi, avrebbe potuto generare persino violenti scompigli sociali[4]. Poi, anche sulla Russia, specie nel periodo di maggiore attrito bellico nella questione Ucraina, in molti avevano cominciato a seguire con interesse il modello di sviluppo locale e a considerare Putin come un paladino della democrazia mondiale, dimenticando che non è la geografia a fare il socialismo, bensì la proprietà dei mezzi di produzione (che allo stato attuale non è neanche in lontana discussione).

Si tratta, senza alcun dubbio, di situazioni assai complesse: si può affermare, in estrema sintesi, che il Brasile è entrato in crisi per una pluralità di ragioni, tra cui spicca la vertiginosa fuga di capitale che ha lasciato un paese indebitato fino al collo, con una struttura produttiva basata principalmente sull’industria agroalimentare (soia, caffè, carne e altri prodotti di cui è primo esportatore mondiale) e dunque poco capace di competere su tanti settori; allo stesso tempo non va assolutamente tralasciata la spaventosa crisi dell’industria petrolifera Petrobras – secondo alcuni il vero collante dell’intero stato brasiliano – che, anche grazie alla riduzione del prezzo del greggio, ha subito una riduzione del 90% del proprio valore di borsa in pochissimi mesi, generando un problema strutturale di proporzioni molto ampie. Per quanto riguarda la Russia, sicuramente la conflittualità “per interposta persona” con gli Usa ha assunto un ruolo preponderante giacché ha determinato delle sanzioni internazionali che, inevitabilmente hanno avuto un effetto significativamente negativo sui conti del paese. Se a questo, come già ampiamente documentato, si aggiunge l’effetto sortito dalla manovra dell’Arabia saudita, ossia il crollo del prezzo delle merci energetiche, il quadro si chiude, restituendo una immagine di un paese inevitabilmente accerchiato politicamente e con dei conti pubblici di gestione sicuramente problematica.

Tuttavia il grande malato degli ultimi mesi, sembra esser diventato proprio quel grande paese che, per anni, come già detto, ha tenuto in parte fuori dalle sabbie mobili di una crisi che appare insolubile l’intero sistema del capitale: la Repubblica popolare cinese. In realtà, più che di problemi strutturali (che come vedremo non mancano) sarebbe più opportuno parlare di compatibilità con il sistema capitalistico. Riassumendo brevemente la faccenda, la Cina è attualmente la seconda potenza economica mondiale e in pochi anni dovrebbe divenire la prima, sebbene alcuni analisti, tenendo conto di alcune questioni, già oggi la reputino tale. Il primo problema che si pone per il capitale mondiale è che l’economia più florida del pianeta, e anche per alcuni versi la più potente – nonostante gli accerchiamenti continui promossi dai fratelli nemici attraverso la chiusura di accordi tpp e ttip – per quanto abbia assunto un volto innegabilmente capitalista, ancora è privata di quelle istituzioni necessarie a far star tranquillo il capitale mondiale. Indipendentemente dal fatto che l’unica realtà politica sia quello comunista, ciò che rende le cose complicate nella gestione degli affari è la difficile penetrabilità degli uomini del capitale internazionale all’interno della stanza dei bottoni. In altri termini, la loro capacità di influenzare le scelte di politica economica e monetaria è prossima allo zero; non è un caso che la grande fibrillazione che poi ha aperto alla serie straordinaria dei crolli di borsa in ogniddove è avvenuta quando, unilateralmente, le autorità cinesi hanno deciso di svalutare la propria moneta, con lo scopo di rendere più a buon mercato le merci prodotte e valutate in yuan. Considerata la mole di merci che ogni giorno escono dalle fabbriche cinesi e che ora, rispetto a 5/10 anni fa, sono prevalentemente di proprietà locale, la cosa ha spaventato violentemente i mercati, causando una fragorosa caduta che ha riguardato anche la borsa di Shanghai. Un copione molto simile è stato seguito anche alla fine del 2015 quando, dinanzi all’ennesima svalutazione “ad orologeria” della moneta cinese, si è innescato quella catena disastrosa che arriva sino ai giorni in cui redigiamo l’articolo.

Le questioni sono numerose, ma quella che maggiormente fa discutere è la ragione per cui una economia che presenta dei tassi di crescita del Pil così sostenuti che in Europa e Usa se li sognano da più di mezzo secolo, sia considerata in un fase delicata se non di crisi. Ufficialmente, la Cina è cresciuta del 7,3% nel 2014 e del 6,9% nel 2015: questi sono dati che, per quanto distanti dalla soglia “psicologica” dell’8%, rappresenterebbero qualcosa di straordinario; tuttavia, sono in non pochi a cominciare a dubitare della loro validità e affidabilità. Infatti, è stato calcolato da un dipendente della China Energy Group che, come del resto è intuitivo, dal 2005 al 2013 mediamente, per ogni punto di Pil di crescita, la domanda di energia elettrica aumentasse di un 1,09%.  Nell’ultimo biennio, a fronte dei tassi di crescita ufficiali, nel 2014 la crescita della domanda di energia elettrica è aumentata del 3,8%, mentre nel 2015 (dati di novembre), solo dello 0,6%. Per quanto le trasformazioni dell’economia cinesi siano molto forti e, orientate ad un forte incremento di servizi, relativamente al settore industriale, ciò difficilmente può giustificare uno scollamento così violento, specie nel 2015, in cui al 6,9% di crescita del Pil corrisponderebbe meno dell’1% dell’aumento di consumo di elettricità: insomma, tutto è possibile, però i dubbi restano e si amplificano soprattutto alla luce del fatto che le autorità cinesi per ben due volte nello stesso anno sono costrette alla svalutazione, cosa evidentemente necessaria dinanzi alla forte difficoltà, più o meno palese, di accumulazione di capitale. Dunque, che siano i dubbi sulle stime del Pil, l’incontrollabilità delle autorità politiche e monetarie, lo “shadow banking” – che altro non è se non un sistema di credito informale che raggiunge il 34% del Pil – o anche l’indebitamento, cresciuto spaventosamente insieme al rischio sistemico (800 mrd $), in ogni caso, la Cina non rappresenta più quell’ancora di salvataggio sicura che negli scorsi anni ha in pratica tenuto a galla il sistema. L’inserimento, alla fine del 2015 da parte del Fmi dello yuan nel paniere delle valute che concorrono a formare i Dsp (diritti speciali di prelievo) di fatto permette alla moneta cinese di divenire a tutti gli effetti, al pari di dollaro Usa, euro, yen e sterlina, una valuta utilizzabile a livello internazionale sia come riserva che per gli scambi di merci o servizi. Per quanto questa mossa sia stata osteggiata da molti operatori, giacché la Cina non sembrerebbe aver implementato sufficientemente le riforme in senso liberale, come richiesto dalle autorità sovranazionali, sembrerebbe che essa possa essere letta come un tentativo di stabilizzare le volatilità eccessive garantite negli ultimi mesi dalle autorità monetarie locali, oppure, questione ancora più profonda e importante, preparare il terreno al conferimento internazionale del Mes (market economy status) il che cambierebbe sostanzialmente gli assetti produttivi mondiali.

È probabilmente questo il perno attorno a cui gira una parte delle turbolenze che sono divenute oramai plateali: a distanza da 15 anni dall’ingresso all’interno del Wto (Organizzazione mondiale del commercio), come accordato allora in quella sede, la Cina ha legittimamente fatto richiesta, in modo più o meno ufficiale, di ottenere il Mes, ossia di essere riconosciuta come economia di mercato al pari di tutte le altre potenze economiche mondiale. Tralasciando per un attimo le potenziali reazioni isteriche di coloro che ancora vedono nella Cina il baluardo comunista nel mondo, la cosa ovviamente è tutt’altro che limitata ad una etichettatura ma potrebbe avere degli effetti assolutamente sconvolgenti. Nonostante in molti cavalchino inconsapevolmente la litania “ormai siamo invasi dalle merci cinesi”, in realtà, proprio per la sua specifica configurazione almeno parzialmente centralizzata, nei confronti dell’economia dell’Rpc esistono dazi e politiche fiscali (alla faccia del tanto decantato liberismo) che riducono sensibilmente il flusso di merci e servizi potenzialmente in arrivo dal grande paese asiatico aumentandone il prezzo o riducendone la quantità per legge. Qualora venisse concesso il Mes, una gran parte queste misure sarebbero rimosse, con evidenti ripercussioni per quei settori che al momento vivono praticamente all’ombra di dazi e contingentamenti. Solo per quanto riguarda l’Italia, le conseguenze sarebbero ingenti, considerando che il 40% delle aziende europee protette da tali politiche sono proprio italiane. I settori più colpiti sarebbero, secondo uno studio governativo pubblicato dal sole24ore (10.12.2015): chimica, siderurgia, ceramica, la filiera della carta e bulloneria potrebbero venir spazzati letteralmente dall’apertura alla reale concorrenza cinese con evidenti ripercussioni drammatiche sull’occupazione europea. Si consideri che la sovracapacità produttiva cinese dell’acciaio eccede le 300 mln di tonnellate, ossia il doppio della produzione annuale dell’intera Europa; nella ceramica sarebbero a rischio 200 mila addetti, mentre nella filiera della carta si arriverebbe a poco meno di 700 mila, non considerando gli inevitabili effetti sull’indotto. Questa è una realtà sufficientemente nota alle autorità europee che non c’è giorno che passa che cercano di impedire che a livello internazionale venga condivisa la concessione del Mes; d’altra parte, gli Usa potrebbero giocare tatticamente sulla questione e, utilizzando il Mes come arma di ricatto, avrebbero la possibilità di costringere l’Ue ad accelerare il processo di conclusione degli accordi ttip che solo apparentemente aprirebbe delle reali possibilità al capitale legato al dollaro[5].

 

Considerazioni finali

Il quadro delineato, per quanto non esaustivo, data la relativa brevità dell’articolo, fornisce un numero sufficiente di elementi per tentare di individuare una chiave di lettura sull’attualità e le sue prospettive. Dopo otto anni, l’economia mondiale si trova nuovamente a combattere contro una crisi che sta riemergendo in tutta la sua violenza. Alla fine del 2008 spiegammo, in aperto contrasto con tutta la stampa e ovviamente con gli accademici – saliti improvvisamente in massa sul carro degli esperti di crisi, dopo aver fatto carriera su modelli che prevedevano crescita senza tregua e diretta all’infinito –, perché non avesse alcun senso parlare di crisi finanziaria o speculativa, e che, al contrario, quello che accadde dopo il fallimento pilotato di Lb fosse l’epifenomeno di una crisi di sovrapproduzione che serpeggiava già dall’inizio degli anni settanta. Allo stesso modo, nel 2016, a distanza di otto anni, nonostante le più fantasiose e creative ricostruzioni giornalistiche e pseudo-scientifiche, continuiamo a dire che i problemi che si erano accatastati prima dell’esplosione della crisi del 2008 sono gli stessi che ancora oggi affliggono mortalmente il capitale mondiale, giacché la grandissima parte delle manovre messe in atto hanno avuto la stessa funzione che una dose di metadone assume nel corpo di un tossicodipendente giunto agli sgoccioli. Gli Usa, così come gran parte degli stati europei sono effettivamente a rischio recessione, sebbene i lacchè della classe dominante si arrabattino alla ricerca di nuovi capri espiatori utili a fantasiose spiegazioni di contingenza. Le stesse dichiarazioni di Lagarde, direttrice del Fmi, della fine del 2015 sono emblematiche e vanno in questo senso: “ci troviamo in una congiuntura difficile e complessa”. Nonostante lo smantellamento del mercato del lavoro mondiale, ossia la precarizzazione diffusa della classe subordinata e, più in generale, la promozione di politiche che potessero agire in maniera antagonistica nei confronti della crisi, l’asfissia del capitale si è aggravata e la vitale ossigenazione cinese sta perdendo grande parte dello slancio, mettendo a serio repentaglio la tenuta complessiva del sistema. La crisi da sovrapproduzione sta probabilmente attraversando la sua fase più difficile e gli strumenti utili a camuffarla sembrano essere esauriti. In tutto ciò, l’inondazione di liquidità divenuta di pertinenza quasi esclusiva del capitale fittizio potrebbe assumere un ruolo in palese contrasto con le attese e le dichiarazioni di intenti: questa immensa massa di prodotti finanziari gonfiatisi in una o più bolle nel tempo potrebbe ancora una volta agire allo stesso tempo come innesco ed amplificatore della crisi da accumulazione, svelando, come avvenuto nel 2008, a seguito dell’esplosione della crisi dei subprime, la prevalente natura fittizia del capitale mondiale e l’oscurità, sempre più nera, del tunnel dove il modo di produzione si è ormai incanalato da anni.

________________________________

Note
[1] Si veda anche il documentario Blue Moon a cura di Matite Spezzate, https://vimeo.com/69889032
[2] Schettino F., Metti una sera a Manhattan, La Contraddizione, no.131, 2010.
[3] Per un approfondimento della questione si suggerisce di leggere gli articoli scritti da Alberto Negri sul Sole24ore a partire nel gennaio 2016.
[4] Per un approfondimento si rimanda a: Coggiola O. (2015), L’America latina in scena, La Contraddizione no.150; Schettino F. (2014), Polarizzazione e disuguaglianza, La Contraddizione, no. 148.
[5] Si veda anche: Schettino F. (2014), Accordi e disaccordi, La Contraddizione, no.149.

Add comment

Submit