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Valore d'uso della forzalavoro, crisi capitalistica e nuove problematiche

Quella crisi sociale ebbe uno dei suoi punti alti nel lungo 'autunno caldo' italiano in cui culminano le lotte operaie degli anni Sessanta: lotte che vennero poi contagiate dalla contestazione studentesca del Sessantotto, e si dispiegarono pienamente nell'arco di anni tra il 1969 e il 1973. Una esperienza illustrata bene proprio tenendo conto di quanto si è appena detto sulla teoria del valore marxiana da due citazioni che traggo da interviste dell'epoca, la prima ad un lavoratore della Fiat e la seconda ad un economista allora impegnato in una ripresa (sia pur problematizzante) del discorso teorico di Marx nella sua integralità.

Nel primo caso si tratta di un brano tratto da un'intervista del "Corriere della sera" ad alcuni operai, registrata durante l'autunno caldo del '69 e mai pubblicata su quel quotidiano. Fu resa disponibile vent'anni fa da Pino Ferraris che la aveva nel suo archivio, e comparve sul "manifesto". Un operaio, Sergio Gaudenti, dice:

"Io voglio spiegare i punti decisivi di queste lotte: gli scioperi selvaggi, la lotta contrattuale che la Fiat ha cercato di fermare sospendendo 30 mila operai. Il padrone con il salario crede di comprare un operaio come si compra un chilo di mele. Tu ti vendi e io ti pago. Poi ti consumo come voglio. La mela la tagliuzzo, la faccio cuocere, la lascio marcire [...] la mordo. Il destino della merce è infatti quello di lasciarsi consumare [...] Ma l'operaio è una merce un poco speciale, non basta vendersi ad un buon prezzo, non vuole più lasciarsi consumare come piace ai padroni. E' una merce questa che vuole avere il potere di controllare ogni giorno il modo del suo consumo, per questo ora si fanno le lotte interne sul lavoro per il controllo operaio".

La seconda citazione è parte delle risposte che dette nel 1973 Claudio Napoleoni, che insegnava allora a Torino, ad un questionario ancora del manifesto:

"la lotta operaia è venuta assumendo caratteri tali per cui essa non è stata più né semplicemente redistributiva né semplicemente normativa, ma è diventata politica in un senso più stretto, in quanto cioè ha indebolito spesso profondamente, una delle condizioni necessarie alla realizzazione del rapporto capitalistico, ossia la subordinazione, la mancanza di autonomia, della classe operaia all'interno del processo produttivo . . . la crisi economica, e sociale, è dovuta essenzialmente a questa spinta operaia, nel senso che il processo accumulativo, già colpito dai successi ottenuti, al principio degli anni Sessanta, sul terreno della distribuzione, è stato poi ancor più duramente colpito da quella conquista di autonomia operaia che ha fortemente limitato la possibilità di risposta del capitale in termini tradizionali, in termini cioè di aumento del grado di sfruttamento".

Vi è nell'una e nell'altra citazione l'idea che l'autonomia (possibile, mai garantita) del valore d'uso della forzalavoro dai movimenti del capitale rimanda alla caratteristica peculiare di questa merce così diversa dalle altre, cioè al fatto che in questo caso non è possibile separazione tra merce venduta (capacità lavorativa, acquistata per estrarre lavoro in quanto attività) e individuo concreto.(che ne è il portatore, e dunque è colui che effettivamente deve erogare quella attività). Quella autonomia è possibile, e mai garantita, perché fa riferimento all'essere umano come soggetto storicamente determinato, dentro il lavoratore collettivo soggetto alla socializzazione capitalistica nella produzione immediata. Ha come sua condizione avrebbe detto giustamente Napoleoni una 'mediazione politica e sindacale': ma quella mediazione non può mai essere pensata, almeno nel discorso marxiano, come separata ed esterna alla soggettività sociale. Il capitale è per questo una 'contraddizione in movimento': perché nel luogo principe della valorizzazione è simultaneamente vero che il 'lavoro' è del capitale come è dei lavoratori. Riscoperta delle ragioni degli operai in carne ed ossa contro un sistema produttivo che pretendeva di ridurli a rotelle di un meccanismo questo fu allora la 'centralità operaia'.

Al tempo stesso, le lotte degli anni Sessanta e Settanta aprono a tre problematiche nuove. La prima è questa: poter dire (grazie a quelle lotte e a quella soggettività sociale) che l'origine della ricchezza capitalistica sta nella differenza tra il lavoro vivo erogato dai lavoratori salariati e il lavoro oggettivato nei mezzi di sussistenza che tornano loro, cioè nella differenza tra valore d'uso e valore di scambio della forzalavoro come parte della forzalavoro vivente, equivale ad affermare la dipendenza del capitale da un elemento 'naturale', che ha un 'corpo'. La produzione capitalistica è in primo luogo uso della forzalavoro, e consuma innanzi tutto i lavoratori che ne sono i portatori. La questione ambientale ed ecologica, meglio la 'questione della natura', ha qui una sua fondazione del tutto materialistica e sociale: sfruttamento dell’essere umano sull’essere umano e distruzione della natura sono caratteristiche distintive, e che si tengono insieme, del modo di produzione capitalistico. Lo aveva visto bene quel Marx che scriveva nel primo libro del Capitale che “la produzione capitalistica sviluppa la tecnica e la combinazione del processo di produzione sociale solo minando al tempo stesso le fonti primigenie di ogni ricchezza: la terra e il lavoratore”. E in effetti le lotte sulla salute e sulla nocività degli anni Sessanta e Settanta ebbero qualità nuova anche perché aprivano ad una possibilità di rapporto tra antagonismo sociale e problematiche che oggi definiremmo 'verdi', una possibilità che però andò presto dispersa.

La seconda e la terza problematica sono in qualche misura connesse a quanto si è appena detto. Le lotte dentro il lavoro, sul valore d'uso della forzalavoro, rompevano nella loro natura più profonda con quell'industrialismo e quel produttivismo che avevano tradizionalmente inquinato il movimento operaio, e che erano d'altra parte largamente presenti anche nelle frange meno tradizionali. Le lotte nella produzione che esprimevano la 'centralità operaia' erano al tempo stesso lotte contro la 'centralità della produzione'. Ne veniva colpito anche quel 'marxismo delle forze produttive' che riduce il materialismo storico a una prospettiva nella sostanza tecnologica. Erano certo, in questo senso, lotte per la liberazione 'dal' lavoro: liberazione dal lavoro salariato, liberazione da una visione totalizzante e oppressiva del lavoro. Esse erano però anche e simultaneamente e inseparabilmente lotte per la liberazione 'del' lavoro. Ponevano dal basso la questione del 'cosa' e del 'come' produrre. Contestavano contemporaneamente la forma e la natura della attività, così come la forma e la natura assunte dalla scienza e dalla tecnica, andando ben oltre la mera denuncia dell' 'uso capitalistico' delle macchine.

La messa in questione della valorizzazione nel luogo 'centrale' della produzione capitalistica tanto più nella misura in cui la critica dell'economia politica diveniva, oltre che critica della società, anche critica del dominio sulla natura e critica del produttivismo esigeva un prolungamento in uno 'sbocco politico' che non vi fu. L'epoca keynesiana cadde ‘da sinistra’. Ai nuovi caratteri della crisi rispose un lungo processo di 'decostruzione' del mondo del lavoro che si tratta adesso di passare ad indagare, sia pure sommariamente.

 

Le molte facce del neoliberismo

La crisi attuale è comprensibile solo se si legge in modo meno approssimativo di come non si faccia di solito l'ultimo trentennio, che viene spesso catalogato con l'etichetta un po' vaga di 'neoliberismo'. All'innovazione tecnica e organizzativa si affiancarono l'innovazione finanziaria e l'innovazione nella politica economica, secondo modalità altrettanto originali. Si è così costituito negli anni Novanta un 'nuovo' capitalismo di cui si tratta di intendere l'ascesa se si vuole capirne il crollo.

Vediamo meglio. Le due gambe su cui si mosse la reazione del capitale alle lotte operaie e alla crisi degli anni Settanta furono la frantumazione del lavoro e la finanziarizzazione. L'una e l'altra ebbero caratteri nuovi. La frantumazione del lavoro infatti, fu in modo significativo l'altra faccia di una inedita 'centralizzazione senza concentrazione'. La finanziarizzazione, a sua volta, si incarnava questa volta in una autentica 'sussunzione reale del lavoro alla finanza e al debito': una inclusione delle famiglie e dei consumatori in sostanza, dunque, del mondo del lavoro all’interno dell’universo finanziario. La sussunzione reale del lavoro alla finanza finiva con l'approfondire la centralizzazione senza concentrazione, e più in generale un ulteriore giro di vite nello sfruttamento del lavoro.

 

Sweezy, Minsky, e il ruolo dell'indebitamento privato

La sussunzione formale del lavoro alla finanza muove i primi passi alla fine dell'Ottocento, e l'esplosione del debito delle famiglie è in parte già responsabile dello scoppio della Grande Crisi. Parte dei lavoratori cominciavano a poter risparmiare, e il loro risparmio fluiva sui mercati finanziari. Negli anni Ottanta del Novecento inizia a venire a maturazione una nuova forma del primato della finanza, che aveva cominciato a mettere radici nel ventennio precedente.

Per capire lo svolgersi di questo processo sono utili sia il contributo di un economista keynesiano, Hyman Philip Minsky, che quello di un economista marxista Paul Marlor Sweezy: entrambi, si deve dire, alquanto eretici nei rispettivi campi. L’idea di Sweezy è che il capitalismo monopolistico nutrisse una tendenza strutturale alla stagnazione, e che questa però non si potesse inverare mai compiutamente perché sconfitta di volta in volta da controtendenze, in senso lato, politiche. Sweezy si rende conto sin dai primi anni Settanta che quando il saggio di profitto e il saggio di investimento si abbassano, la controtendenza principale alla tendenza alla stagnazione non è più solamente lo stato interventista keynesiano, incentrato sulla spesa militare, bensì l’indebitamento. Coglie, in particolare, il crescente ruolo dell'indebitamento privato, e in questo dell'indebitamento delle famiglie. Quasi nessuno oggidì cita Sweezy. Minsky, invece è un autore divenuto di moda. La sua ipotesi secondo cui il capitalismo tenderebbe a far degenerare la stabilità in instabilità finanziaria è parsa a molti una riflessione importante per poter spiegare la crisi attuale. Nel caso di Minsky, l'indebitamento privato si impenna come conseguenza non tanto della tendenza alla stagnazione quanto piuttosto della spinta alla accumulazione reale del capitale. I protagonisti del suo modello di base sono le imprese non finanziarie, e gli investimenti in beni capitali.

In breve, ciò che sostiene Minsky è questo. Un capitalismo finanziariamente sofisticato come quello del Novecento è soggetto necessariamente all'alternanza di euforia e panico. Quando si esce da una grande crisi le unità 'produttive' intrattengono posizioni sane e 'coperte', nel senso che le loro entrate nette monetarie di cassa sono sufficienti a restituire ai finanziatori e alle banche quanto avevano ottenuto in prestito caricato dell’interesse. Le cose procedono talmente bene che a un certo punto sia i banchieri che gli imprenditori diventano più ottimisti: non è però una pura e semplice illusione, è la realtà stessa dei risultati economici nel corso ascendente del ciclo che li induce a scelte espansive. Le loro posizioni si fanno dunque più coraggiose, e da 'coperte' diventano 'speculative'. E' proprio questa attitudine speculativa che in Minsky (come in Marx, peraltro) accelera l’investimento di lungo termine. La posizione speculativa è caratterizzata da entrate nette monetarie di cassa sufficienti a pagare gli interessi, ma non a restituire la quota annuale del capitale preso a prestito. In alcuni periodi le unità economiche devono rifinanziarsi. In questo caso, però, al rischio economico si aggiunge ora il rischio finanziario. L’economia è cioè più fragile, perché le imprese potrebbero doversi rifinanziare a tassi di interesse crescenti. Ma in realtà le cose potrebbero continuare ad andare talmente bene che, se pure vi fosse una tendenza del sistema bancario ad aumentare il costo del denaro, gli intermediari finanziari potrebbero intervenire inventando 'quasimonete' altrettanto liquide. E' facile che a questo punto l'euforia dia luogo a bolle nei prezzi delle attività, e le posizioni di un numero crescente di operatori diventino 'ultraspeculative'. Una posizione ultraspeculativa è quella in cui le entrate nette monetarie di cassa non consentono neppure di pagare gli interessi, e la sua razionalità sta soltanto nella speranza di guadagni di conto capitale. Gli agenti si indebitano cioè nella speranza di una rivalutazione del valore delle attività in cui investono, quali azioni, immobili, e così via. A un certo punto, sostiene Minsky, si dovrà determinare un crollo di questo castello di indebitamento, crollo per lo più originato da un repentino, drastico e inatteso aumento dei tassi di interesse deciso dalla Banca Centrale.

Minsky formulò questa interpretazione negli anni Sessanta, per spiegare la Grande Crisi. La risposta 'keynesiana', utile per impedire la deflazione da debiti e l'avvitamento verso il basso dell'economia reale, è quella dove la Banca Centrale svolge il ruolo di prestatore di ultima istanza (immettendo nel sistema liquidità senza limiti e ad un basso tasso di interesse), e dove il governo spende in disavanzo (finanziando l'eccesso sulle imposte con nuova moneta). Non si tratta solo di una spesa per incrementare direttamente la domanda effettiva, come nella lettura del keynesismo più tradizionale. Il punto di vista di Minsky è che il governo in questo modo fornisce anche 'contante', entrate di cassa che migliorano la posizione finanziaria delle imprese e delle banche.

Gli anni Sessanta erano ancora anni di relativa stabilità, le crisi finanziarie sembravano storia del passato. Minsky intuisce però che l’instabilità finanziaria in realtà non è affatto scomparsa, e che si riproporrà, ma sotto altre vesti. Ciò che è avvenuto negli anni Settanta ha per molti versi confermato le previsioni dell'economista statunitense. La risposta iniziale alla 'crisi sociale' accoppia l'inflazione (per erodere le conquiste salariali, ma anche l'aumento nominale del prezzo delle materie prime) e la deflazione (per attaccare l'occupazione, ma anche per tenere sotto controllo l'inflazione). Agli scivolamenti nella crisi si risponde, in una prima fase, ancora con espansione della spesa e aumento dell'offerta di moneta. Il risultato è stato la 'stagflazione'. Ancora in coerenza con Minsky, la Grande Crisi 'non si ripete' grazie ad un Grande Stato e una Grande Banca Centrale (ma anche, aggiungeva, un Grande Sindacato).

L'intervento attivo della politica economica, ma anche gli stabilizzatori automatici, determinano un 'pavimento' più elevato alla crisi. Questo però ha significato, sempre secondo le linee del ragionamento di Minsky, non soltanto un aumento dei prezzi dei beni legato all'aumento dei salari: ha significato pure una crescita più lenta rispetto al trentennio postbellico,.

Questo stato di cose ha comportato, a partire dagli anni Ottanta, una vera e propria svolta ad U nella politica economica, che si pone l'obiettivo di comprimere violentemente l’aumento dei prezzi e dei salari, e accetta di imporre altrettanto violentemente una riduzione dell’attività produttiva. Il centro di queste politiche c.d. 'monetariste' erano la pretesa di controllare rigidamente l'offerta di moneta, l'attacco alla spesa pubblica (in primo luogo sociale), l'attacco al lavoro. Da questo punto in poi, a me pare, la dinamica capitalistica e la stessa instabilità finanziaria non possono essere più comprese pienamente se ci si attiene strettamente al modello originario di Minsky anche se, va aggiunto, l'ultimo Minsky ha fornito alcuni suggerimenti interpretativi di grande interesse per comprendere il nuovo scenario. Si tratta della transizione a ciò che egli chiama il money manager capitalism, che corrisponde a quello che autori francofoni definiscono come le capitalisme patrimoniale, e che qui viene ribattezzato come 'sussunzione reale del lavoro alla finanza e al debito'.

 

La prima fase del neoliberismo: la svolta neoconservatrice del monetarismo e la crisi mancata

Prima di entrare nel dettaglio della sussunzione reale del lavoro alla finanza e al debito è bene rilevare che il 'colpo di stato' nella politica economica promosso da Volcker, Reagan e Thatcher avrebbe dovuto inverare, ben al di là di un capitalismo stagnazionistico, il ritorno di una Grande Crisi per insufficienza di domanda effettiva. La riduzione dell’offerta di moneta ha fatto in effetti schizzare verso l’alto i tassi di interesse (nominali e reali) e dunque cadere gli investimenti privati. L’attacco al lavoro ha compresso il salario come quota, e talora lo stesso salario reale, facendo declinare la quota dei consumi derivanti dal reddito. I tagli al welfare avrebbero dovuto accompagnarsi ad una drastica flessione della spesa dello stato. Visto che gli imprenditori non producono per il magazzino ma per vendere sul mercato a prezzi adeguati a garantire la valorizzazione del capitale, il quesito è come questo primo capitalismo 'neoliberista' si sia procurato gli sbocchi. La risposta da dare qui è non è molto lontana da una risposta alla Sweezy: v’è stata una controtendenza politica. Si è evitata la crisi con una 'svolta nella svolta', con il doppio disavanzo di Reagan a metà degli anni ‘80: il disavanzo nei conti dello Stato (che fu trainato anche, se non soprattutto, dalla nuova spesa militare) e il disavanzo nei conti con l'estero (che fece degli Stati Uniti, e più in generale del capitalismo anglosassone, la locomotiva dell'area capitalistica, e fu così anche in grado di fornire domanda ai capitalismi 'neoliberisti' di altre aree del pianeta).

Questa lettura qualifica però il capitalismo neoliberista come un capitalismo segnato prevalentemente dalla tendenza stagnazionistica. E' questa idea di un capitalismo 'asfittico' ad essere dominante anche nelle narrazioni tanto marxiste ortodosse (da caduta tendenziale del saggio del profitto di tipo tradizionale) quanto keynesiane o neoricardiane (nella versione sottoconsumista cara ad altri marxisti). Dalla metà degli anni Novanta essa con tutta evidenza non regge più. Non spiega l'emergere di un capitalismo dinamico e vivace in molte aree del pianeta, se si escludono il Giappone, in preda ad una lunga deflazione, e l'Europa, nelle doglie del parto della moneta unica e sotto il giogo di politiche restrittive. Il periodo 19952007, in particolare, è dapprima segnato dalla new economy, e poi dall'esplosione della Cina, in un quadro che sfugge alle interpretazioni correnti. La sfida è dunque quella di formulare, come è tipico della lezione di Marx, una visione di questo 'nuovo' capitalismo che dia conto, ad un tempo, della sua ascesa e della sua crisi. A questo fine è utile tornare allo spirito dell'ipotesi della instabilità finanziaria di Minsky, se non alla sua lettera.

 

La sussunzione reale del lavoro alla finanza e al debito, il risparmiatore maniacale e il consumatore indebitato

Una caratteristica centrale e paradossale dell’ultimo capitalismo è il primato dei piccoli risparmiatori.

Organizzati in fondi istituzionali, tra cui i fondi pensione, i loro soldi e il loro risparmio vitale viene gestito da money manager in una ottica di 'valorizzazione' (qui nel senso di valorizzazione del capitale fittizio) che ha un orizzonte di breve termine. E’ una situazione storicamente nuova, una situazione nella quale sono sì gli azionisti a dominare sui manager, ma all’interno degli azionisti sono i piccoli azionisti a contare più dei grandi azionisti, beninteso in forma alienata, per il tramite appunto dei money manager. Ciò che altrove ho definito il 'capitalismo dei fondi pensione' ha significato un enorme afflusso di denaro sui mercati finanziari, e azionari in particolari. Allo stesso fenomeno hanno contributio le privatizzazioni dei beni pubblici, e poi dei beni comuni (le c.d. nuove enclosures). Ciò ha comportato a sua volta una accentuata crescita dei prezzi delle azioni, e ha fatto sì che le imprese non finanziarie potessero finanziarsi con l’equity, cioè con titoli di proprietà, senza ricorrere all’indebitamento. Le imprese sono riuscite a collocare facilmente le loro azioni ad alti prezzi, quindi si potevano finanziare a basso costo. Questo nella logica del modello di Minsky sarebbe in verità un elemento stabilizzante, non destabilizzante: e così è in effetti stato nella sostanza per molti anni, una volta che si tenga conto di mutamenti istituzionali e della politica economica. Vediamo in che senso.

Su scala internazionale si erano andate determinando due condizioni istituzionali che facilitavano l'esplosione della finanziarizzazione nella sua nuova forma: il doppio disavanzo degli Stati Uniti sotto la presidenza Reagan, negli anni Ottanta, e la lunga deflazione giapponese, negli anni Novanta. A questo si aggiungeva la risposta della Federal Reserve alla grave crisi borsistica del 1987, che chiariva che il nuovo governatore di quella banca centrale era disposto a renderla una prestatrice di prima istanza ogni qual volta i mercati fossero messi a rischio nei loro guadagni speculativi. I mercati erano periodicamente inondati di liquidità, l'offerta di moneta si faceva sempre più espansiva anche grazie al Greenspan put, e dal Giappone iniziava un sistematico carry trade (un arbitraggio consistente nell'indebitarsi in yen, a bassissimi tassi di interesse, per investire altrove, con rendimenti più elevati). Non solo lo squilibrio sui mercati finanziari, ma anche quello nelle bilance correnti, tendeva a riprodursi invece di essere eliminato dalle reazioni supposte spontanee del puro meccanismo economico.

La corsa verso l'alto dei prezzi dei titoli sui mercati azionari in un contesto di globalizzazione finanziaria e di libertà pressoché illimitata dei movimenti dei capitali ha dato origine a quella che può ben essere descritta come una fase 'maniacale' dei risparmiatori. Si origina di qui un paradosso. Se le attività rendono sempre più, il risparmio sul reddito da lavoro tende a svanire, e fa emergere la figura del consumatore 'indebitato'. E' quest'ultimo, in effetti, ad aver trainato la crescita degli Stati Uniti, e come abbiamo detto sono stati gli Stati Uniti e gli altri paesi del capitalismo anglosassone (eccetto il Canada) a divenire gli acquirenti finali dei modelli neomercantilisti in giro per il modo (ai vecchi protagonisti come il Giappone, la Germania, l'Est asiatico, si sono aggiunti nell'ultimo decennio alcuni altri paesi emergenti, ma soprattutto la Cina).

 

Il lavoratore traumatizzato e la centralizzazione senza concentrazione

Il risparmiatore in fase maniacale come il suo alter ego, il consumatore indebitato, sono due figure per niente sganciate dalle trasformazioni delle condizioni del lavoro. Sono anzi a ben vedere l'inevitabile contrappasso del 'lavoratore traumatizzato'. L’espressione fu impiegata da Greenspan alla metà degli anni Novanta, almeno secondo il racconto di chi ha riportato la giustificazione che il governatore della Banca Centrale statunitense dette allora a chi, nel 1995, era fronte di una caduta del tasso di disoccupazione al di sotto del 6% (il preteso tasso 'naturale' di disoccupazione) premeva per un aumento del tasso sui federal funds. Greenspan non soltanto registrava un cambiamento strutturale dovuto all'innovazione tecnologica, ma faceva riferimento anche alla trasformazione nel mercato e nel processo di lavoro, a quel drammatico cambiamento sociale dovuto al primo neoliberismo, ma anche al crollo del socialismo reale. Non soltanto la produttività stava aumentando più di quanto potessero registrare i dati che guardavano al passato, ma la stessa frammentazione del lavoro dovuta alle politiche di ristrutturazione e al raddoppio dell'esercito industriale di riserva su scala planetaria indebolivano quel legame inverso fra tasso di disoccupazione e tasso di aumento dei salari, che va sotto il nome di 'curva di Phillips'. Quest'ultima si era molto appiattita: ad una diminuzione del tasso di disoccupazione non corrispondeva cioè più un’accelerazione dei salari. Era dunque possibile spingere verso l'alto la produzione senza che i salari aumentassero. In questo contesto giocava anche la possibilità sempre maggiore per i consumatori americani di acquistare beni a basso costo, visto che il dollaro si rivalutava, ma soprattutto che arrivavano beni a basso costo non solo dai paesi dell’Est asiatico ma anche dalla Cina. Poteva tornare la piena occupazione: meglio, la piena sottooccupazione di lavori precari; un lavoro precario nel quale cresceva il peso del lavoro migrante.

La trasformazione delle condizioni del lavoro era anche il prodotto di una vera e propria ‘centralizzazione’ senza ‘concentrazione’: un fenomeno inedito rispetto al mondo immaginato dall'autore del Capitale. L’unità tecnica di produzione si è spesso ridotta. Anche senza ‘concentrazione’, il comando tecnico, finanziario e produttivo ha continuato comunque a ‘centralizzarsi’, con fusioni e acquisizioni. Le unità produttive sono state connesse ‘in rete’, lungo filiere transnazionali, stratificate secondo una gerarchia interna dei diversi moduli. Nel frattempo si determinava in alcuni settori un eccesso di offerta strutturale, esito di una concorrenza sempre più aggressiva tra i global player. Tutto ciò contribuiva evidentemente a tenere il mondo del lavoro nella morsa dell’insicurezza e della precarizzazione.

Questi mutamenti hanno accompagnato una metamorfosi nella natura stessa del lavoro. La volatilità dei mercati, la domanda sempre più di sostituzione che si rivolge ai beni di consumo di massa, i nuovi bisogni, hanno fatto della 'qualità' del prodotto – ma dunque anche della prestazione lavorativa – un asset competitivo. Il capitale pretende più 'qualità' dal lavoro. Si devono creare valori d’uso 'sociali', che si possano vendere sul mercato, e ciò non può non incidere sul lavoro 'concreto' prestato dal lavoratore collettivo. Si vuole un lavoro sempre più attivo, con un contenuto intenzionale maggiore. Si è passati da procedure e norme di rendimento definite ‘a priori’ in un contesto organizzativo e tecnologico stabile – la produzione come un ‘piano’ da eseguire secondo sequenze rigide alla produzione come un ‘compito’ da realizzare con flessibilità . Questo non soltanto ha reso in alcuni casi obsoleto il controllo diretto sul lavoro di tipo tayloristafordista. Esso ha anche potentemente favorito l’ ‘esternalizzazione’, la ‘terziarizzazione’, l’affermarsi di una governance che tratta i singoli spezzoni del ciclo del prodotto aziendale come ‘aziende’ indipendenti. Dentro l’organizzazione si è andata dilatando la logica di mercato, così come dentro il lavoro salariato la prestazione di lavoro talora assomiglia al lavoro ‘autonomo’ e formalmente ‘indipendente’. Il controllo del capitale sul lavoro può assumere la parvenza del controllo dei lavoratori su se stessi. La valorizzazione del capitale può mascherarsi da autovalorizzazione del lavoro.

Il maggiore o minore grado di qualificazione tollerabile, o persino richiesto, dal sistema dipende sempre in effetti da vari fattori, quali il controllo dei lavoratori sulla propria prestazione, la loro possibilità concreta di esercitare un conflitto, la loro integrazione nell’organismo della produzione, la frammentazione del mercato del lavoro, le fluttuazioni del mercato dei prodotti, la volatilità dei mercati finanziari, e così via. Proprio per questo il comando sul lavoro, pur sempre essenziale, deve essere ogni volta ridefinito nelle diverse forme storiche assunte dall'accumulazione capitalistica. Il lavoro 'astratto' capitalistico non è affatto un lavoro dequalificato o deconcretizzato. L’ 'autonomia' maggiore del lavoro è in alcune congiunture un dato reale: ma, dove è stata concessa, ha dovuto essere inevitabilmente parziale e limitata. Nei decenni più recenti ciò è stato ottenuto non soltanto attraverso la ‘mercatizzazione’ dell’organizzazione e il continuo smembramento, virtuale o reale, dei processi produttivi, ma anche attraverso la pressione, vera o presunta, di vincoli dal lato della finanza pubblica o della mobilità dei capitali. Da questo angolo visuale l’appiattimento dei livelli gerarchici e la riduzione del controllo diretto sono stati una funzione inversa di un controllo 'sistemico' maggiore, favorito dalla accresciuta incertezza dei mercati.

La frammentazione del lavoro di cui si sta dicendo non è affatto indipendente dall’inclusione del lavoro dentro la finanza, perché sono gli stessi elevati rendimenti pretesi dalla finanza a costringere le imprese a indirizzarsi sempre di più su questa strada. Sono gli stessi fondi istituzionali, e in primis i fondi pensione, a imporre dei criteri di corporate governance che favoriscono le misure di riduzione dell’occupazione e di diminuzione del salario, a condizione che ciò dia luogo all’aumento del valore delle azioni. In modo simile vanno le cose per quel che riguarda i comportamenti dei fondi, per esempio i private equity, i quali acquistano a debito e smantellano le imprese. Il risparmiatore in fase maniacale che si fa consumatore indebitato contribuisce dunque a determinare quei processi che hanno il lavoratore traumatizzato come loro prodotto, e incidono concretamente sui modi dell'estrazione del plusvalore. Per questo la sussunzione del mondo del lavoro alla finanza e al debito non è più solo 'formale', ma si fa anche pienamente 'reale'.

 

La seconda fase del neoliberismo: un paradossale keynesismo privatizzato

Risparmiatore maniacale e consumatore indebitato spiegano però pure come in un mondo di bassi salari si sia avuta una dinamica capitalistica accelerata che non ha incontrato difficoltà dal lato della domanda effettiva. La crescita del prezzo delle azioni, tipica della new economy tra il 1995 e il 1999, determinava un 'effetto ricchezza', per cui la domanda di consumo (e allora anche la domanda di investimento) crescono significativamente, favorendo la realizzazione del plusvalore. L'indebitamento crescente è innanzi tutto privato, non pubblico: negli Stati Uniti, sotto la presidenza Clinton, il debito pubblico tende addirittura a contrarsi. Il debito privato, peraltro, tende ad essere sempre più il debito dei consumatori (e delle imprese finanziarie): non, come nella versione tradizionale di Minsky, il debito delle imprese non finanziarie. Dunque, la crescita negli Stati Uniti (ma di rimbalzo nel mondo) non è stata trainata dalla spesa pubblica, né tanto meno dalle esportazioni, e ancor meno ovviamente dal consumo salariale. Solo in parte vi hanno contribuito gli investimenti privati, nella new come nella old economy. Lo sviluppo di quegli anni lo si deve soprattutto se ci si riferisce al consumo a debito delle famiglie americane.

Non si deve evidentemente farsi sviare da una sorta di illusione ottica e credere alla leggenda secondo cui negli Stati Uniti le famiglie sarebbero state all'improvviso investite da un particolare benessere. Tutt'altro. Il salario reale individuale in quel paese è rimasto pressoché stazionario dalla metà degli anni Settanta, quando non è addirittura scivolato verso il basso. Il reddito familiare è sì lievemente cresciuto, ma solo perché più persone dello stesso nucleo sono state occupate, e dunque anche a causa della 'femminilizzazione' del mercato del lavoro e dell’allungamento dell’orario di lavoro. È cambiata anche la struttura della spesa: alcune voci si sono certamente ridotte, non solo per il progresso tecnico ma anche per il minor costo dei beni importati, e dunque per l'intreccio tra plusvalore relativo ed assoluto in altri paesi. Sono però aumentate le spese fisse legate alla salute, all’abitazione, all’educazione dei figli, ecc. In altri termini, l’indebitamento delle famiglie è stato in qualche misura un indebitamento obbligato.

Negli anni Novanta, e ancor più nel decennio successivo, le innovazioni finanziarie hanno consentito che questo indebitamento potesse essere acceso a costi sempre minori. Nello stesso senso spingeva la politica monetaria di Greenspan, che ha dunque dovuto divenire progressivamente nel tempo ancora più espansiva. Visto che non vi era pressione sui prezzi dal lato dei salari, la politica monetaria si sentiva peraltro sempre più libera nel sostegno alla corsa verso l’alto del prezzo delle attività, a dispetto del rischio percepito che sui mercati vigesse quella che lo stesso Greenspan definì allora una 'euforia irrazionale'.

Se ne può concludere che la terna lavoratore spaventatorispamiatore maniacaleconsumatore indebitato si è potuta dispiegare pienamente solo grazie ad un neoliberismo che non era niente affatto 'liberista', mostrandosi anzi particolarmente attivo sul terreno della politica economica. Questo peraltro si potrebbe dire anche della fase strettamente monetarista. Il neoliberismo ha però con il tempo mutato pelle, fino all'essere caratterizzato da una tendenza alla piena occupazione e da una gestione della politica economica di sostegno politico della domanda. Solo che il primo corno, la piena occupazione, si inverava come crescente precarietà e espansione dei working poor, mentre il secondo corno, il sostegno alla domanda, si dava grazie ad una politica monetaria che aveva trovato i canali per incidere direttamente in senso espansivo sui consumi. Un po' provocatoriamente lo potremmo definire un keynesismo finanziario 'privatizzato', dove la crescita della domanda di merci (l'economia 'reale') dipende dalle bolle nei prezzi delle attività (l'economia 'finanziaria'), e queste dall'atteggiamento compiacente della Banca Centrale. Un asset bubble driven Keynesianism.

Il problema di un meccanismo del genere è che non solo è instabile, è anche insostenibile. Abbiamo visto come l'instabilità sia rimasta a lungo nascosta, e anzi si sia diffusa l'impressione opposta di una economia non soltanto sempre più dinamica ma addirittura sempre più stabile. Non a caso si è parlato di questi decenni come del periodo della Grande Moderazione. Ciò ha però significato che quando l'insostenibilità si è infine manifestata, ciò è avvenuto con il ritorno virulento di una nuova Grande Crisi, nella forma per ora di una Grande Recessione.

 

Dalla crisi delle dot.com alla crisi dei subprime: il ritorno della crisi 'sistemica'

Per la verità, a ciò ha contribuito il fatto che il 'nuovo' capitalismo, che ancora una volta proclamava baldanzoso di avere debellato il ciclo, pareva avere superato senza gravi danni lo sgonfiamento della bolla delle dot.com, che inizia già nella primavera del 2000, ben prima dell'attacco di Al Qaeda alle Torri Gemelle.

Quando le cose cominciano ad andare male, quando si passa dall’euforia al panico, il risparmiatore dalla fase 'maniacale' scivola in quella 'depressiva'. E' forzato a rientrare dal debito, ad aumentare rapidamente il risparmio. A fare ciò che la teoria economica predica come una virtù. In momenti del genere, però, le autorità di politica economica e la gran parte degli economisti, persino quelli ortodossi, cercano di convincerlo a fare il contrario, e lo invitano a continuare a spendere. Il passaggio dal risparmiatore in fase maniacale a quello in fase depressiva lo si è intravisto, ma solo come tendenza, come rischio, fra il 2000 e 2001. La crisi economica era cominciata in borsa, e ad essa aveva contribuito l’aumento del tasso di interesse deciso dalla Federal Reserve nel 1999. La bolla tecnologica si è sgonfiata, e a questo si è aggiunta, a partire dal caso Enron, quella che fu definita la crisi etica del capitalismo. Nel frattempo l’11 settembre provvidenzialmente consentiva che si potesse dare alla crisi una risposta classica da keynesismo di guerra: immettendo nel sistema liquidità a basso tasso di interesse, e insieme aumentando la spesa militare e per la sicurezza, sino alla guerra in Iraq ed oltre. Ma ciò ha fornito un pavimento alla crisi, più che essere la ragione ultima della ripresa. Infatti – certo anche grazie ai tassi di interesse mantenuti stabilmente molto bassi da Greenspan stava in realtà ripartendo il meccanismo del 'nuovo' capitalismo per cui la crescita reale viene determinata dal dilatarsi di bolle speculative, stimolate dalla politica monetaria. Mentre sino al 2000 la speculazione era stata prevalentemente sul mercato finanziario, ora essa si spostava prevalentemente sul mercato immobiliare.

In questi primi anni del terzo millennio si è avuta la massima vivacità sul terreno delle innovazioni finanziarie. E' contemporaneamente venuta a termine una trasformazione radicale del sistema bancario, incubata nei decenni precedenti. Chi concedeva un debito era in grado di 'cartolarizzare' l'attivo corrispondente, vendendolo a qualcun altro, e così liberandosi individualmente della corrispondente passività. Progressivamente queste cartolarizzazioni hanno condotto a 'impacchettamenti', sicché si potessero vendere degli interi pacchetti di titoli cartolarizzati, caratterizzati da gradi di rischio differenziati. In questo modo si potevano spremere dei margini più elevati di guadagno in un mondo di bassi tassi di interesse. Grazie alle innovazioni finanziarie si riteneva che i diversi rischi fossero assunto volontariamente e coscientemente da soggetti in grado di valutarli correttamente. In realtà il meccanismo era diventato così complesso e opaco che ci si finiva con l'affidarsi al giudizio delle agenzie di rating, che peraltro non capivano esse stesse cosa coprissero i nuovi strumenti finanziari, quando non erano addirittura colluse con chi li emetteva. L'intero castello di carta della nuova finanza faceva capo, quali che fossero le apparenze, alle stesse banche.

La trasformazione del sistema bancario è dunque una transizione dalla banca che 'seleziona' il debitore, lo 'monitora' o controlla, e che mantiene le passività del proprio cliente nel suo bilancio per tutta la durata del rapporto, alla banca che invece 'origina' un titolo e immediatamente lo 'distribuisce' altrove, o meglio lo disperde nell’ambiente, come un rifiuto tossico. Questo processo, incentrato sui contratti 'derivati', ha accelerato a dismisura l’esplosione dei titoli, della cartolarizzazione, delle garanzie, delle assicurazioni finanziarie. Sotto l'apparenza di una maggiore resilienza del sistema andava covando una fragilità sempre più marcata del sistema bancario: non soltanto perché la leva del finanziamento era sempre più elevata, ma anche perché si veniva a dipendere da debitori ultimi che non erano più imprese reputate solide, ma famiglie costrette ad un debito crescente periodo dopo periodo. Un debito che poteva essere giustificato solo da ulteriori rialzi nei prezzi delle attività: una tipica posizione ultraspeculativa, o Ponzi, nella tassonomia di Minsky.

A consentire che la corsa continuasse dopo il 20045, quando i tassi di interesse riprendevano a salire, è stata l’esplosione dei mutui subprime. Ciò ha significato l'inclusione nel mercato finanziario delle famiglie più povere: l'opacità del sistema nascondeva che ormai la solvibilità nel sistema monetario e finanziario finiva con il poggiare sulla capacità di pagamento dei settori sociali che erano in condizione di massima debolezza. La fragilità delle banche e la fragilità dei debitori ultimi poteva essere controbattuta solo a condizioni che titoli e immobili si rivalutassero costantemente. Un rialzo dei tassi di interesse può essere infatti ritenuto irrilevante se la possibilità di ripagare i debiti e di speculare ancora al rialzo viene dai guadagni attesi in conto capitale. A un certo punto però il prezzo delle case è crollato, e ciò ha mandato in crisi prima il mercato dei subprime, e poi il resto del sistema finanziario, per la sfiducia reciproca che dilagava tra banche e operatori finanziari. E' così che nel giro di un anno la crisi finanziaria è diventata crisi reale, prima negli Stati Uniti, poi nel resto del pianeta. Il sostegno pubblico alla finanza e alla domanda, e in parte all'occupazione, che è stato necessario attivare è stato a questo punto di dimensioni massicce, pari a quelle necessarie a finanziare un conflitto mondiale.

 

Conclusioni

La ragione di fondo della crisi non è né solo finanziaria, né solo reale. Non sta né nei bassi salari, né nella finanza perversa. Sta piuttosto in una interazione tra ristrutturazione dei processi di estrazione di plusvalore, da una parte, e inclusione subalterna delle famiglie dentro il capitale, dall'altra. Precarizzazione e finanziarizzazione, le due armi gemelle con cui si era risposto alla crisi sociale degli anni Sessanta e Settanta, hanno prodotto una 'centralizzazione senza concentrazione' e una 'sussunzione reale del lavoro alla finanza e al debito' che, prima, hanno prodotto una crescita reale drogata, poi hanno determinato il ritorno della instabilità e la fine di quel modello.

Non si può dire che si sia ancora usciti da questa crisi, e neppure disegnare i lineamenti generalissimi del nuovo modello. In realtà, la fine del neoliberismo così come lo abbiamo conosciuto è stata gestita dagli stessi neoliberisti. Ciò è vero anche dove la frattura con la vecchia politica economica è più stata netta, dove cioè si è data una sia pure perversa socializzazione della finanza e dell'occupazione, fino ad alludere ad una socializzazione dell'investimento. Quello che è certo è che la dinamica del capitale ha segnato un salto ulteriore dell'inclusione dentro il capitale (a dominante finanziaria) delle condizioni della riproduzione sociale: non soltanto il consumo e il risparmio vitale, ma anche l'abitazione, la salute, l'educazione, le risorse naturali.

Le questioni di un diverso modo di lavorare e di un diverso modo di organizzare la riproduzione come condizioni dell'uscita da questo mulinello sempre più infernale tornano per questo più attuali che mai.

La sfida è ancora quella di riattivare un conflitto di classe che si prolunghi in un intervento di politica economica – ma in realtà politico tout court che ponga in primo piano la questione di una ridefinizione strutturale dell’offerta oltre che della domanda, e dello stesso modo in cui si svolge l'attività umana. Con sorpresa di tutti, anche di una sinistra che fugge dal lavoro o si riduce alla dimensione redistributiva, una Grande Crisi, dunque una dura 'oggettività' sociale, ha rimesso sul tappeto, fuori da ogni crollismo meccanicistico, l'alternativa di Rosa Luxemburg: 'socialismo o barbarie'.

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Nota Bibliografica

Visti i limiti di spazio, mi atterrò solo ad alcuni riferimenti principali, e per così dire minimali, privilegiando il filone marxista rispetto a quello keynesiano. Per una prima ricognizione sul tema Marx e la crisi, sia nel senso della teoria della crisi in Marx, che della possibilità di impiegare Marx per l’analisi della crisi corrente, si può vedere l’ottimo Karl Marx, Il capitalismo e la crisi, a cura di Vladimiro Giacché, DeriveApprodi, 2009. Si tratta di una lettura in parte diversa da quella qui condotta (ma meno di quanto appaia a prima vista). Ancora oggi di grande utilità è l’altra antologia a cura di Lucio Colletti e Claudio Napoleoni, Il futuro del capitalismo. Crollo o sviluppo?, Laterza, 1970, che contiene testi, oltre che di Marx e del marxismo, anche di autori appartenenti ad altre correnti – si vedano, in particolare, le introduzioni di Colletti ai testi di autori marxisti e la sua introduzione generale al volume, tra le sue cose migliori. Sia consentito anche il rimando a “Teoria del valore, crisi generale e capitale monopolistico. Napoleoni in dialogo con Sweezy”, Quaderni Materialisti, vol. 78, di chi scrive.

Buone rassegne in inglese sulla teoria della crisi marxiana sono l’articolo di Anwar Shaikh, An Introduction to the History of Crisis Theories (1978), un autore simpatetico alla caduta tendenziale del saggio del profitto, e il libro di Simon Clarke, Marx’s Theory of Crisis, Macmillan (1994), disponibili entrambi sul sito www.countdownnet.info curato da Antonio Pagliarone. Sulla Luxemburg si veda il volume da me curato Rosa Luxemburg and the Critique of Political Economy, Routledge, 2009, e il saggio di Joan Robinson nell’antologia di CollettiNapoleoni già citata. Importanti, di Paul Mattick, Marx e Keynes De Donato, 1972 e Crisi e teorie della crisi, Dedalo, 1979; come anche, di Henryk Grossmann, Il crollo del capitalismo. La legge dell'accumulazione e del crollo del sistema capitalista, prefazione di Rocco Buttiglione, Jaca Book, 1976, e ancora di più Marx, l’economia politica classica e il problema della dinamica, Laterza, 1971.

Riprende per gli anni Sessanta e Settanta del Novecento la sua lettura in termini di esercito industriale di riserva e compressione dei profitti per la lotta sul salario Andrew Glyn nel suo bel Capitalismo scatenato. Globalizzazione, competitività e welfare, Francesco Brioschi Editore, Milano 2007 (ma il sottotitolo dell’edizione originale non parla di competività ma di finanza, prima della globalizzazione!), che è una ottima introduzione al capitalismo contemporaneo. Per una lettura incentrata sulla crisi nella valorizzazione immediata si veda invece il mio “I lunghi anni Settanta. Crisi sociale e integrazione economica internazionale”, in Le radici della crisi. L’Italia tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta a cura di Luca Baldissara, Carocci, 2001. Per il periodo successivo si vedano i miei articoli sulla rivista del manifesto, e successivamente i miei successivi saggi con Joseph Halevi.

Sulla crisi attuale, la migliore lettura ‘sottoconsumista’ è quella di Emiliano Brancaccio, di cui vedi La crisi del pensiero unico, Franco Angeli, 2° edizione, 2010. Ha provato una lettura in termini di caduta del saggio del profitto Stefano Perri al convegno The Global Crisis, tenutosi a Siena a gennaio del 2010, in Ritorno al futuro? La caduta tendenziale del saggio di profitto, tra teoria e evidenza empirica.

Alla caduta del saggio di profitto si rifanno Andrew Kliman, Alan Freeman e Guglielmo Carchedi. Numerosi i materiali che possono essere reperiti online. Diversi, e a mio parere più condivisibili, gli interventi di altri marxisti, che qualificano fortemente la ‘caduta’ per i decenni più recenti. Cfr. p. es. gli scritti di Gerard Duménil e Dominique Lévy, Fred Moseley, Simon Mohun, Michel Husson, Alain Bihr, Costas Lapavitsas, lo stesso Anwar Shaikh; ma si vedano anche le visioni contrastanti di Chris Harman François Chesnais; e si potrebbe continuare l’elenco. Di un certo interesse i recenti e meno recenti lavori di Ben Fine sulla finanziarizzazione, e quelli di Robert Brenner sul long downturn. Giustamente, Paul Mattick jr, un autore favorevole alla caduta del saggio del profitto, contesta radicalmente il mito che essa, come in genere la teoria marxiana, possa mai essere ‘confermata’ dall’evidenza empirica così come si dà alla superficie della realtà economica. Per tutti questi autori si rimanda il lettore alla ricerca sui siti web.

Per quel che riguarda una interpretazione almeno in parte minskyana della crisi, si rimanda alla introduzione di chi scrive a Hyman P. Minsky, Keynes e l’instabilità del capitalismo, Bollati Boringhieri, 2010. Per una lettura che incrocia la lettura marxiana con quella minskyana, e dà pari peso agli aspetti monetariofinanziari e a quelli relativi alla produzione e al lavoro, si vedano di nuovo i miei lavori con Halevi dal 2005 in poi. Per tutti, e da ultimo, la nostra relazione al convegno di Siena su The Global Crisis, che viene pubblicata in versione ampliata su Critica Marxista, n. 23, 2010: “La Grande Recessione e la Terza Crisi della teoria economica”.

Per una introduzione alla crisi 20079 consiglio il libro di Paul Mason, economics editor di BBC newsnight, Meltdown. The end of the age of greed (reso anonimamente con La fine dell’età dell’ingordigia. Notizie sul crollo finanziario mondiale, Bruno Mondadori 2009). Mason è un non marxista, simpatetico alle idee di Minsky, e con un talento per la divulgazione. E conosce il linguaggio della lotta di classe. Basta vedere il suo altro libro, naturalmente non tradotto, e che lo meriterebbe: Live Working or Die Fighting. How the Working Class Went Global, Vintage 2008.

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