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Viene avanti il cretino

di Marcello Benfante

9788877682970 0 0 733 75“E a un tratto Ulrich riassunse in modo
assai comico tutta la questione,
ponendosi la domanda se in fin dei
conti, dato che di intelligenza ce n’è
certamente abbastanza, il guaio non
stia semplicemente in questo, che
l’intelligenza stessa non è intelligente”

Robert Musil

Impegnarsi in un discorso sul cretinismo, seppure riferito al solo ambiente culturale, è un’impresa improba e scivolosa. Non solo, infatti, è facile smarrirsi nella complessità di una tematica così vasta e articolata, ma si rischia soprattutto di arrivare alla conclusione poco o punto lusinghiera che in fondo il fenomeno ci riguarda molto da vicino.

Insomma, siamo quasi tutti un po’ cretini, chi più, chi meno. E se talvolta di questa condizione beota possiamo addirittura farne un vanto o una bandiera, come quando ci compiacciamo di non comprendere le astruserie di un mondo demenziale, più spesso ci capita di provare un senso di frustrazione e di mortificazione per quanto sfugge al nostro intelletto e alle nostre capacità.

Com’è noto, una certa idiozia confina paradossalmente con la genialità e/o la santità. Tale è la sospensione imprecisabile del candido (ma anche oscuro) Myškin di Dostoevskji. Più esplicito – anche se non privo di una sua sfuggente enigmaticità – è il messaggio evangelico sulla purezza dei poveri di spirito, che sta all’origine della figura stessa dell’Idiota dostoevskiano e della sua straziata cristologia.

Ma al di là di questo misterioso potere catartico e salvifico di una particolare insipienza o incoscienza che attiene alla follia e alla mansuetudine sacrificale, la stupidità presenta solitamente un volto assai più truce e volgare.

Per usare le parole di Saul Bellow in Herzog:

“Questo è un crudele mondo di fronzoli e d’escrementi. Una civiltà superba e pigra che adora la propria cafonaggine”.

Dobbiamo ogni giorno confrontarci con un mondo bifolco e dozzinale contro cui è vano perfino opporsi, se non a scopo consolatorio.

Lo hanno detto bene Fruttero e Lucentini nella Prefazione al loro Il cretino in sintesi:

“Perché nello sfondo c’è sempre la grande questione: a che mai servirà tutta questa critica della bêtise? A niente, parrebbe di poter rispondere in conclusione. Il cretino è imperturbabile, la sua forza vincente sta nel fatto di non sapere di essere tale, di non vedersi né mai dubitare di sé (…) Il movente di libri come questo andrà dunque cercato tra passioni di minoranza: lo sfogo impotente, la vana rivalsa, il piacere invero minuscolo di aver almeno detto al nemico ses quatre vérités”.

Tuttavia, non è di tali ambiguità né tanto meno di tali depravazioni che occorre trattare in questa sede. Bensì di un cretinismo relativamente nuovo – in termini storici – e apparentemente meno osceno che si presenta armato di cultura e perfino di arguzia, entro certi limiti almeno. Ovvero di un cretinismo, per così dire, intelligente.

Il fenomeno era già stato intuito da Sciascia, che lo aveva definito e battezzato in Nero su nero:

“Dei cretini intelligentissimi. Sembra impossibile: ma ce ne sono”.

E qui davvero siamo un po’ tutti chiamati in causa, compreso ovviamente il sottoscritto, tanto che si potrebbe dedurne che un certo cretinismo erudito e sagace è il vero tratto distintivo dei nostri tempi.

Naturalmente, tutto ciò ha inizio con l’avvento della società di massa e la nascita dell’industria culturale. Ma è inutile soffermarsi per l’ennesima volta su analisi fin troppo note di Tocqueville, Ortega y Gasset o la Scuola di Francoforte, che daremo in qualche modo per scontate.

Questa arbitraria ma necessaria semplificazione ci consente di concentrare il discorso sul cretinismo colto come si è venuto a configurare progressivamente pressappoco negli ultimi cinquant’anni.

Siamo al di là della bêtise di Flaubert. Al di là della grossolana innocenza del mite dottor Bovary, con il suo complicatissimo cappello, ma in un territorio in cui si è già insediato comodamente Monsieur Homais, il farmacista grafomane.

Stiamo parlando, in sintesi, del cretino che legge e che soprattutto si vanta di ciò che ha letto (o che finge di aver letto).

Ancora Bellow, sempre in Herzog:

“La gente che sa leggere si appropria del meglio che trova nei libri e poi se ne adorna come pare facciano certi granchi quando s’agghindano di alghe per imbellirsi”.

Ottusità e vanità. Superficialità e narcisismo. Ecco i tratti specifici del cretino acculturato.

Peggio ancora, stiamo parlando del cretino che scrive. Di me, certamente, ma anche di te, Hypocrite lecteur – mon semblable – mon frère.

C’è infatti una perfetta specularità e circolarità fra il cretino che scrive e il cretino che legge, entrambi sciascianamente intelligentissimi.

L’oggetto del nostro discorso è dunque quel tipo di cretino che potremmo definire (parafrasando Montale) “laureato”. Cioè l’esatto ribaltamento della dotta ignoranza. Come catalogarlo? È un cretino che affolla le mostre e i teatri, che interviene nei modi più vari a dibattiti e conferenze, che si aggiorna, che è sempre al corrente, a cui non sfugge l’ultimo best seller o il più discusso “caso” letterario, che è invariabilmente un cinefilo agguerrito, un cultore di arti maggiori e minori.

Un cretino alacre, perfino impegnato, iperattivo, fecondo non meno facondo, di cui per lungo tempo abbiamo un po’ tutti auspicato un incremento costante. Almeno fino a che non siamo stati sorpresi dalla sua intima essenza distruttiva.

Il cretino intelligente è infatti l’ossimoro che sancisce la fine del pensiero critico e la minaccia esiziale all’arte tutta.

Che il cretino fosse pericoloso, perfino più pericoloso del delinquente, era già un fatto ben noto. Il paradosso ci era stato illustrato con sottile arguzia dallo storico Carlo M. Cipolla in Allegro ma non troppo, un suo brillante saggetto tra il serio e il faceto.

“Una persona stupida è una persona che causa danno ad un’altra persona o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé o addirittura subendo una perdita”.

Questa gratuità della stupidaggine è proprio l’elemento imprevedibile che la rende particolarmente perniciosa.

“Essenzialmente gli stupidi sono pericolosi e funesti perché le persone ragionevoli trovano difficile immaginare e capire un comportamento stupido”.

Di conseguenza eccoci giunti alla Quinta Legge Fondamentale della stupidità umana: “La persona stupida è il tipo di persona più pericoloso che esista”. Il cui corollario è il seguente: “Lo stupido è più pericoloso del bandito”.

Ma adesso si tratta di affrontare l’insidia assai più sottile di un cretino in qualche modo utile, che acquista e consuma beni culturali, che alimenta un’economia basata sulla spettacolarizzazione della cultura, su un turismo che una volta si diceva alternativo e intelligente, e oggi invece appare in tutta la sua ottusa eterodirezione. Si tratta, insomma, del cretino che pensa (ovviamente con la testa di un altro e per mezzo di una serie di più o meno sofisticate mistificazioni). Del cretino che pontifica ex cathedra.

Fra i primi a cogliere la mutazione (e a collegarla allo svuotamento di senso della democrazia e quindi al ritorno di ideologie autoritarie e reazionarie) fu Musil in una conferenza tenuta a Vienna l’11 e il 17 marzo del 1937.

L’intuizione di Musil muove dalla costatazione che la stupidità può sembrare molto simile al progresso e perfino al talento.

È una tesi presente nel capolavoro di Musil, L’uomo senza qualità, con cui la conferenza viennese, intitolata Sulla stupidità, ha profonde connessioni:

“Per quel che mi riguarda, diversi anni or sono ho scritto: ‘Se la stupidità non somigliasse tanto al progresso, al talento, alla speranza e al miglioramento, nessuno vorrebbe essere stupido’. Questo accadeva nel 1931, e nessuno oserà porre in dubbio che anche successivamente il mondo abbia conosciuto progressi e miglioramenti!”.

Qui rileviamo una secondaria contraddizione: da un lato la stupidità somiglia soltanto a ottime cose come l’evoluzione e la capacità attraverso cui la si ottiene, e quindi non consiste propriamente in esse; ma dall’altro lato, essa effettivamente concorre alla loro realizzazione. Tanto che si potrebbe pensare che senza la stupidità non vi sarebbero crescita né avanzamento per la società e l’umanità stessa.

Abbiamo così una prima percezione dell’intima ambiguità di un certo cretinismo culturale che, proprio come la follia descritta da Erasmo, non solo presenta un polo positivo e uno negativo, ma in entrambi rivela una necessità intrinseca e in qualche modo provvidenziale.

“Erasmo da Rotterdam non ha forse scritto nel suo incantevole e ancor oggi attuale Elogio della follia che senza certe stupidità l’uomo non sarebbe neppur nato?”.

A encomio della stupidità bisogna dunque ammettere che essa è uno dei motori della civiltà umana. Ma anche in questo suo ruolo propulsivo dimostra un’essenziale doppiezza: concorre con una sua operosa ottusità a un avanzamento materiale collettivo, e tuttavia sospinge soprattutto un certo carrierismo becero e l’immeritato successo dei mediocri, a scapito e detrimento del talento più autentico.

“Sarà sufficiente stabilire, come risultato certo, che la scarsa sensibilità artistica di un popolo non si rivela soltanto in tempi difficili e in modo brutale, ma anche quando le cose procedono positivamente, per cui vi è una differenza solo graduale tra divieti e persecuzioni di un’opera, da un lato, e lauree ad honorem, nomine accademiche e distribuzioni di premi, dall’altro”.

Sicché possiamo dire che la stupidità alimenta in realtà un falso progresso e delle illusorie conquiste, mentre determina le condizioni di un effettivo intralcio alla cultura più autentica.

Tutto ciò spiega perché sia così allettante la condizione double-face del cretino intelligente. La quale non ha nulla a che vedere con quella stupidità “astuta”, dice Musil, che in ultima analisi è una forma di “scaltrezza” ravvisabile in quei “rapporti di dipendenza in cui le forze sono così impari che il più debole cerca scampo nel fingersi più stupido di quanto realmente sia”.

È il caso, per esempio, della proverbiale furbizia contadina o di una certa arguta dialettica tra servo e padrone.

Vi è poi una forma di stupidità “schietta e onesta”, una stupidità “solare” e sostanzialmente innocua, che consiste semplicemente in una certa lentezza e durezza di comprendonio. E vi è, paradossalmente, un tipo di stupidità che può essere intesa come “un segno d’intelligenza”, ancorché in modo limitato, e che “è di gran lunga la forma più pericolosa”.

La si riconosce per la sua caratteristica presunzione, per certi suoi atteggiamenti vanitosi e arroganti: “Questa stupidità supponente è la vera malattia della cultura”.

Grazie al suo trasformismo, tale stupidità altezzosa assume le sembianze della verità per trarre vantaggio da questo superficiale travestimento, e sebbene contribuisca “a vivacizzare la vita spirituale, però la rende instabile e sterile”.

Ecco perché la modestia rimane in ultima analisi il “più importante rimedio contro la stupidità”.

L’umiltà, quindi, come antidoto e criterio di discernimento, necessario anche se non sempre sufficiente.

L’insidia portata dal cretino intelligente risiede infatti subdolamente in un suo abile e credibile mimetismo. Come in certi film di fantascienza l’alieno è indistinguibile dall’essere umano per talune sue virtù proteiformi, analogamente il cretino intelligente può sembrare un autentico intellettuale, un brillante scrittore o un genuino artista a uno sguardo superficiale, grazie ad una sua elaborata costruzione di millanterie.

Lo si può riconoscere, per esempio, dal fatto che afferma di aver letto tutto e di stare rileggendo questo o quel classico (di cui ha comunque già scritto). Analogamente egli ha visto tutto, ha ascoltato tutto, è stato ovunque (talora anche contemporaneamente). Questa sua esistenza elevata all’ennesima potenza non è comunque il male più inquietante, ché anzi rivela a lungo andare l’impostura.

In fondo, l’autoesaltazione di un pubblico di fruitori presenzialisti è un fenomeno antico e in ultima analisi innocuo. Ben più corrosiva e inquinante è l’attività produttiva del cretino intelligente, il suo proporsi e imporsi come autore in base alla considerazione, peraltro nient’affatto infondata, di non essere tutto sommato inferiore a questo e a quell’altro che già è stato baciato dalla fama e dal successo.

Si capisce come in una simile deriva la profezia di Andy Wharol sul quarto d’ora di celebrità a tutti accessibile, non solo si sia avverata oltre misura, ma sia divenuta del tutto obsoleta.

Nei termini di un avvento di una cultura posticcia che fa il verso, in modo sterile quanto fastidioso, alla letteratura e all’arte vere e profonde, l’era del cretinismo culturale è stata definita e catalogata (sebbene in altri termini) da un classico della critica militante: Masscult & Midcult di Dwight Macdonald.

Si tratta di un celebre pamphlet apparso nel 1960 sulla Partisan Review che costituisce una delle più lucide e veementi invettive contro la massificazione della cultura.

Parlare di una cultura di massa è per Macdonald contraddittorio poiché “non si tratta affatto di cultura”. Il termine Masscult sta quindi a indicare un fenomeno che consiste soltanto in “una parodia dell’Alta Cultura”.

In realtà, come vedremo, questa definizione si attaglia molto più a quello che Macdonald chiama Midcult, ossia il “figlio bastardo” del Masscult, l’opaco middlebrow.

Per spiegare l’essenza del Midcult, Macdonald ricorre a una serie di esempi, di cui forse il più significativo è il seguente: “È Midcult il Club del Libro del Mese che dal 1926 fornisce ai suoi aderenti testi di cui il meglio che si possa dire è che potrebbero essere peggiori”.

Non stiamo quindi parlando del pessimo o dell’infimo, ma di una mediocrità che a lungo andare corrompe il gusto e il senso estetico.

Macdonald, inoltre, sceglie di analizzare quattro “prodotti tipici” del Midcult, tutti vincitori del Premio Pulitzer. Si tratta di opere non spregevoli, ma sostanzialmente prive di un autentico e profondo valore:

“Dal punto di vista tecnico, sono opere abbastanza d’avanguardia per impressionare i midbrows senza tuttavia costituire motivo di preoccupazioni. Quanto al contenuto, sono ‘centrali’ e ‘universali’, nella linea di quell’arte falsamente solenne che i francesi definiscono pompier, dagli scintillanti elmi dorati dei loro vigili del fuoco”.

Fra esse spicca Il vecchio e il mare di Hemingway: un testo scritto in quella “artificiosa prosa biblica” da Nobel “che pare esercitare un maligno incantesimo sui midbrows” e in cui gli unici due personaggi (il vecchio e il ragazzo) “non sono individualizzati perché l’individualizzazione escluderebbe il Significato Universale”.

Ciò può darci la misura non solo del drastico criterio aristocratico usato con magistrale sarcasmo da Macdonald, ma anche di come sia enormemente decaduta da allora la situazione della cultura occidentale (in Italia, per esempio, il panorama letterario odierno è pressoché interamente costituito da un asfittico Midcult, da Erri De Luca ad Alessandro Baricco a Margaret Mazzantini). Ma seguiamo un passo alla volta lo sviluppo del suo ragionamento. Da dove scaturisce il Masscult? Ovviamente dalla società di massa, che a sua volta è il prodotto della rivoluzione industriale. È in queste condizioni storiche che assistiamo alla mercificazione della cultura e alla corruzione del gusto, fino all’avvento del “reame” vastissimo della “Dea dell’ottusità”.

Sia Masscult che Midcult praticano una standardizzazione dei loro prodotti nell’ambito di un’estetica del Kitsch consistente in una sorta di arte predigerita che permette al fruitore di evitare ogni sforzo di comprensione, controllandone e dirigendone le reazioni emotive e intellettive.

Il Masscult non ha niente a che vedere con l’arte popolare, di cui è anzi concorrente. A sua volta il Midcult è un confuso compromesso che nasconde ipocritamente un “duplice tranello”. Esso infatti “finge di rispettare i modelli dell’Alta Cultura mentre in effetti li annacqua e li volgarizza”.

Se il Masscult è più schiettamente teso alla ricerca esclusiva del gradimento delle folle, il Midcult si “nasconde pudicamente con una foglia di fico culturale”. Ciò lo rende più subdolo e più devastante.

Macdonald individua nel secondo dopoguerra il periodo di svolta che sancisce l’affermazione del Midcult:

“La settimana lavorativa s’è accorciata, i salari reali sono aumentati, e mai nella storia un numero così grande di uomini ha raggiunto un tenore di vita così alto come negli Stati Uniti a partire dal 1945. Il numero degli iscritti alle università supera attualmente i quattro milioni di unità, tre volte quello del 1929. Denaro, tempo libero e sapere, i requisiti della cultura, sono più abbondanti e più equamente distribuiti che mai prima d’ora”.

È un quadro indubbiamente positivo, che certamente può essere considerato un apprezzabile progresso democratico. Oltre a beneficiare di un maggiore benessere economico, grandi masse si elevano culturalmente, avvertono bisogni più raffinati.

Ma tutto ciò cela un’insidia inquietante:

“In questi tempi più progrediti, l’Alta Cultura è minacciata da un pericolo, costituito dal Masscult quanto da un particolare ibrido nato dai rapporti contro natura di quest’ultimo con la prima. Ha visto la luce una cultura media, che minaccia di assorbire entrambi i genitori”.

Tralasciamo per un attimo la rigidità classista della tripartizione culturale utilizzata da Macdonald e concentriamo la nostra attenzione sull’esito finale di questo parto mostruoso. L’avvento del Midcult segna l’estinzione sia dell’Alta Cultura che della cultura di massa, dopo che quest’ultima ha soppiantato la cultura popolare.

Non resterebbe quindi che una sorta di palude priva di una precisa identità intellettuale e sociale.

Capiamo allora (e specialmente oggi) il senso dell’accorato allarme di Macdonald:

“Il nemico che se ne sta fuori le mura è facilmente individuabile. Ciò che rende pericoloso il Midcult è la sua ambiguità. Perché il Midcult si presenta come facente parte dell’Alta Cultura”.

Il nemico è dunque intra-moenia. Ma il Cavallo Troia che ne ha consentito l’invasione non è stata la cultura di massa, cui almeno Macdonald attribuisce una sincerità di intenti. Non si tratta infatti di un’elevazione dell’infimo a uno status medio, bensì di una banalizzazione e di una simulazione dell’arte autentica.

“Il Midcult non costituisce, come potrebbe apparire a prima vista, un miglioramento del livello del Masscult; è piuttosto una corruzione dell’Alta Cultura”.

Il meccanismo mimetico caratteristico del Midcult si palesa nell’utilizzazione pedissequa e strumentale degli stilemi e delle tematiche delle avanguardie.

Naturalmente, si tratta di un calco depotenziato d’ogni carica innovativa, che non va oltre la riproduzione di una maniera, ma con conseguenze anche peggiori dell’accademismo.

“La particolare minaccia del Midcult consiste nel fatto che sfrutta le scoperte dell’avanguardia. È qualcosa di nuovo. Il precedente storico del Midcult, gli somigliava nel senso che era Kitsch per una élite, esteriormente Alta Cultura, ma in effetti un articolo fabbricato esattamente come i prodotti più a buon mercato”.

Anche riguardo all’Accademia, Macdonald dimostra una certa miopia (vi ascrive perfino Stevenson!) ma non esclude del tutto che in essa permanga talora un barlume di coscienza critica e possa perfino “sbocciare qualcosa di nuovo”.

Sarebbe già tanto se tali concessioni, ancorché parziali, al suo elitario senso estetico fossero estese alla cultura di massa, che Macdonald sembra ignorare del tutto, anche quando assurge (deliberatamente o magari casualmente) a un innegabile valore artistico.

D’altronde, anche nell’analisi del Midcult, che è la parte più originale e convincente del suo discorso, Macdonald elabora in qualche caso teorie (o teoremi) poco coerenti.

Ma si tratta di incongruenze secondarie. Nella sostanza il suo giudizio sul Midcult è di una chiarezza e di un’efficacia straordinarie: nell’atto di plagiare e deprivare la cultura highbrow e in particolare le avanguardie in modo spregiudicato e superficiale, il Midcult perviene a un singolare processo di rovesciamento di valori e di senso. Si appropria di oro e lo trasforma - quando va bene - nel più greve e opaco piombo.

“Dato un certo quantitativo d’impudenza, sembra che non vi sia limite a un tale genere di alchimia alla rovescia”.

Alla base del Midcult c’è dunque una ben misera furbizia e “qualcosa di maledettamente americano”, un modello degradato di progresso che si spaccia per democratico, ma che invece è soltanto un “comodo pantano” dove a un Unico Grande Pubblico piace tanto sguazzare, illudendosi di immergersi in salubri e tonificanti bagni termali.

Su una simile linea di pensiero si trova anche Sciascia - sempre in Nero su nero - quando denuncia un nuovo tipo di convenzionalismo opportunista generato dallo stesso sviluppo democratico e dalle sue magnifiche sorti e progressive.

“Una nuova formidabile ondata di conformismo sta per abbattersi sul nostro paese; meno fragorosa di quelle del 1925 (fascismo), del 1945 (antifascismo), del 1948 (anticomunismo, civiltà occidentale), ma tanto più grave nella misura in cui è spontanea, non mossa dalla preoccupazione del pane quotidiano”.

È un conformismo con la pancia piena, ma affamato di affermazioni, per così dire, sovrastrutturali: titoli di studio, posti dirigenziali, posticci momenti di gloria, posizioni di prestigio, riconoscibilità sociale.

In una Italia che intravede, in gran parte illusoriamente, il benessere e la modernità, iniziano a contare anche i lussi culturali e quegli status symbol che promettono un’uscita dall’anonimato di massa.

È da questo contesto che scaturisce un fenomeno nuovo, per certi versi sorprendente e perfino scandaloso:

“Intorno al 1963 si è verificato in Italia un evento insospettabile e forse ancora, se non da pochi, sospettato. Nasceva e cominciava ad ascendere il cretino di sinistra: ma mimetizzato nel discorso intelligente, nel discorso problematico e capillare. Si credeva che i cretini nascessero soltanto a destra, e perciò l’evento non ha trovato registrazione. Tra non molto, forse, saremo costretti a celebrarne l’Epifania”.

Il cretino di sinistra chiude il cerchio d’ogni possibile cretinismo. Nella società omologata il cretino non ha più colore né bandiera. È un cretino interclassista e trasversale che percorre diagonalmente tutto lo schieramento politico, che critica (acriticamente) e contesta (formalmente) ciò a cui si assimila e a cui si adegua.

Il cretino di sinistra sciasciano si inserisce in una linea di sviluppo che va da Musil a Macdonald, ossia di quel cretino intelligente che da oltre mezzo secolo domina la scena culturale del mondo occidentale.

In qualche modo il cretino di sinistra è anch’esso una figura ossimorica, se considerata alla luce della categoria ideologica della coscienza di classe o di altre tipologie marxiste del concetto di avanguardia.

La sua immagine speculare, il cretino di destra, è invece una figura in buona sostanza tautologica, salvo eccezioni quasi sempre demenziali e deliranti.

Ma la collocazione politica del cretino intelligente è un dato secondario e strumentale che non ne modifica fondamentalmente il comportamento. Si tratta in ogni caso di una imitazione quando non addirittura di una scimmiottatura della vera cultura, ma anche di un apporto quantitativo e strutturale di materiale combustile alla locomotiva di un sedicente progresso.

Molta parte di ciò che oggi passa per evoluzione e riformismo, per dottrina e bellezza, è fatta di mera stupidità, da cui ben pochi si salvano.

Che fare dunque? Il dilemma è antico e ancora privo di risposte convincenti. In fondo, possiamo soltanto raccomandare, in primo luogo a noi stessi, la misura prudenziale della modestia e della parsimonia come opposizione alla prosopopea di un’epoca in cui ciascuno aspira a proporsi come un genio, almeno per un quarto d’ora.


Indicazioni bibliografiche
Saul Bellow Herzog (traduzione di Letizia Ciotti Miller), Roma, Gruppo editoriale L’Espresso, 2002.
Carlo M. Cipolla Allegro ma non troppo Bologna, il Mulino, 1988.
Fruttero e Lucentini Il cretino in sintesi Milano, Mondadori, 2002.
Dwight Macdonald Masscult e Midcult (traduzione di Adriana Dell’Orto e Annalisa Gersoni Kelley), Roma, Edizioni e/o, 1997.
Robert Musil Sulla stupidità (traduzione di Alisio Rendi), Milano, SE, 2013.
Leonardo Sciascia Nero su nero Milano, Adelphi, 1991.
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