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prismo

Il senso della fine

di Gianluca Didino

In tempi di postumano e “declino dell'Occidente”, tornare a Frank Kermode è un modo per comprendere la complessità delle narrazioni contemporanee

Giotto Il Giudizio Universale cropSono dovuto arrivare a trentuno anni prima di leggere Frank Kermode e questo dovrebbe bastare a decretare il fallimento dell’università italiana, ma siccome per fortuna l’università è una e il mondo è molteplice, e la prima è limitata mentre il secondo non lo è, e la prima è un modello davvero astratto e parziale del secondo, per tutte queste ragioni la curiosità intellettuale mi ha portato laddove non hanno potuto i piani di studio del Ministero e le mode culturali in voga tra gli accademici: cioè a leggere Il senso della fine, il seminale lavoro di Frank Kermode pubblicato per la prima volta nel 1967 e che, come proverò a dimostrare nel corso di questo articolo, dice qualcosa di fondamentale sulle narrazioni contemporanee.

 

Kermode basic

Quella descritta sopra è una delle tante maniere possibili per raccontare la mia scoperta di Kermode. È una maniera narrativa: prevede un inizio (la mia ignoranza di ventenne che si attiene ai testi suggeriti nella Guida Dello Studente) e una fine (la lettura dei saggi di Kermode e la conclusione che essi siano in qualche modo importanti nella definizione della fiction contemporanea). È una versione che conferisce senso alla mia scoperta, delinea una progressione, inserisce la lettura del libro e la scrittura di questo articolo e persino voi che lo state leggendo in un orizzonte temporale dotato di significato.

Ovviamente però non è l’unica, come potrebbe confermarvi qualsiasi entità non-umana se solo potesse parlare – diciamo la lampada che sta sulla vostra scrivania. Molto probabilmente dal punto di vista della lampada le cose sono andate come segue: in un punto indefinito del tempo (chiamiamolo X) io ho aperto un libro, l’ho osservato intensamente per una certa durata (chiamiamola Y) e l’ho posato. Inquietante, soprattutto se pensate che la lampada ha lo stesso sguardo sulla vostra vita: in un momento X siete nati, in un momento Y morirete.

Kermode fa un esempio molto chiaro per spiegare questo concetto. Prendete il rumore delle lancette di un orologio: tick e tock. Quando il nostro orecchio sente il tick comincia ad aspettare l’arrivo del tock. C’è una progressione narrativa, seppure molto semplice, tra i due rumori, un inizio, un momento nel mezzo e una fine. Il fatto che riusciamo a percepire il silenzio nel mezzo deriva proprio dalla struttura narrativa che sovrapponiamo a un evento che di per sé non significa nulla. Infatti, se quantizzare l’intervallo tra tick e tock è relativamente semplice, molto più difficile è farsi un’idea dello spazio che passa tra tock e tick: perché questo, per la nostra mente che ragiona per narrazioni lineari, non è un intervallo dotato di senso. Di fatto, non è niente, come lo spazio della vita per un’entità non-umana come la lampada.

Ora, dice Kermode (l’esistenzialista-de-facto-Kermode), il problema deriva proprio dal fatto che gli uomini, nel momento in cui nascono, vengono gettati in medias res, in un punto qualsiasi del tempo. E siccome hanno bisogno di dare un senso alla propria esistenza, e che le narrazioni sono gli strumenti principali di questa opera di creazione di senso, gli uomini si trovano a dover sovrapporre una struttura narrativa al tessuto informe del tempo per trovare una forma di concordanza tra il passato, il presente e il futuro: per legare il silenzio nel mezzo al tick iniziale e al tock finale. Un’ottima maniera per fare questa cosa sono i racconti della fine, le narrazioni dell’Apocalisse.

 

Kermode intermediate e advanced

Ecco quindi che l’uomo per dare un significato alla propria vita si inventa che il tempo sta per finire, il giorno del giudizio sta per arrivare. Lo aspetta, e crede che questa fine arrivi davvero. E quando la fine deve arrivare… be’, non arriva, come prova il fatto che siamo ancora qui. Quindi ci troviamo di fronte a un bivio: possiamo A) decretare che la nostra narrazione della fine era falsa, e dunque attenerci alla realtà e rinnegare la fiction (ma questo ovviamente ci farebbe sprofondare nell’assenza di senso e dunque, a lungo andare, ci farebbe perdere il senno), oppure B) possiamo aggiustare il nostro racconto della fine per adattarlo alla disconferma operata dalla realtà. L’umanità, per ovvie ragioni, ha sempre scelto l’opzione B. Con il risultato che i suoi racconti della fine sono diventati progressivamente sempre meno ingenui fino al punto in cui, fatalmente, abbiamo smesso di credere che la fine dei tempi fosse prossima e abbiamo traslato il senso della fine sul piano della nostra fine individuale, la morte. La fine, dice Kermode con una formula che più azzeccata non potrebbe, diventa da imminente a immanente. Il tempo della fine viene sostituito dal tempo della transizione verso la fine, cioè dal tempo della crisi.

Questa evoluzione ha diverse conseguenze. La prima consiste nel fatto che le narrazioni diventano “consapevolmente finte”, cioè fiction e mito si differenziano. Per Kermode il mito è una narrazione degenerata, incapace di riconoscere il proprio carattere di livello sovrapposto alla realtà: il nazismo, ad esempio, è stato un mito che ha dovuto sperimentare la realtà della propria narrazione nel massacro di sei milioni di ebrei. Riconoscendosi consapevolmente finte, e diventando progressivamente meno ingenue, le narrazioni si fanno più complesse. Non potendo disconfermare del tutto il modello della fine, pena la perdita del senso, e non potendo aderirvi in toto, pena lo scadere nel mito, le narrazioni riflettono il carattere di crisi costante, di fine immanente invece che imminente, attraverso la peripezia (Kermode usa in inglese l’originale greco peripateia), che già in Aristotele era una deviazione dal retto corso degli eventi, una dilazione della fine. Così ad esempio gli anti-romanzi di Robbe-Grillet non negano la fiction di per sé – la rendono solo incredibilmente complessa.

Kermode usa Bohr per per dire che nella complessità delle narrazioni contemporanee coesistono aspetti opposti. Uno è quello tra realtà e finzione. Un altro, parallelo, è quello tra due immagini del tempo, chronos e kairos.

La terza conseguenza coinvolge niente meno che il principio di complementarità di Niels Bohr. Senza entrare nelle sottigliezze della meccanica quantistica, riassumerò in questo modo tutta la vicenda: un giorno del 1927 il fisico Niels Bohr decide che il dualismo onda-particella può essere risolto considerando i due aspetti corpuscolare e ondulatorio come complementari, e cioè, partendo dal principio di indeterminazione di Heisenberg, che i due fenomeni non possono essere osservati contemporaneamente perché il tipo di esperimento determina il comportamento delle particelle osservate. In altre parole moto ondulatorio e corpuscolare, dice lo stesso Heisenberg, “hanno la stessa validità”, ma se vedi uno non vedi l’altro, e viceversa.

Kermode, che qui fa un salto dalla sua cattedra di Cambridge del 1967 e dalle sue future beghe sull’insegnamento del post-strutturalismo e vola fino al 2150 o giù di lì, usa Bohr per per dire che nella complessità delle narrazioni contemporanee coesistono aspetti opposti. Uno, l’abbiamo già visto, è quello tra realtà e finzione. Un altro, parallelo, è quello tra due immagini del tempo, chronos (il tempo oggettivo, storico, lineare) e kairos (il tempo dotato di significato). Questi aspetti incidono l’uno sull’altro in maniere non scontate: ad esempio quando una narrazione viene disconfermata dalla realtà, una nuova finzione che include la realtà aggiornata viene creata per mantenere stabile il paradigma della fine, e dunque il senso. Un altro esempio è quello della storia secondo il Cristianesimo, il cui passato viene cambiato retrospettivamente dall’avvento di Gesù che letteralmente riscrive la storia come una macchina obliteratrice, o come un nuovo segno di matita sul palinsesto del tempo.

 

Kermode oggi

Proviamo quindi ad applicare Kermode alla letteratura e più in generale alla fiction contemporanea. Andiamo per punti.

– La sfiducia contemporanea nelle narrazioni è ancora contemporanea oggi. Anticipando di dodici anni Lyotard, che per primo avrebbe parlato di “crisi delle grandi narrazioni che fondano il sapere” (La condizione postmoderna, 1979) Kermode ripete diverse volte che il nostro è un tempo che tende allo scetticismo rispetto alle narrazioni della fine. Quello che vuol dire nel suo contesto è che la modernità non crede più che la fine dei tempi sia imminente, ma ricordiamoci che nella struttura dicotomica kermodiana l’opposto di narrazione è la realtà. Pensiamo alla retorica dei movimenti che si dichiarano stufi dei racconti della politica, al boom del memoir degli anni 2000, al mito della trasparenza, a David Shields ecc.

– Le narrazioni disconfermate dalla realtà si rimodellano per includere la nuova realtà. Negli anni ’90 andava di moda una storia della fine secondo la quale “la Storia era finita”. L’aveva scritta un americano di origini giapponesi molto ottimista ed è stata disconfermata quando l’11 settembre 2001 è successo quello che è successo. Poco dopo è nata una nuova storia, secondo la quale il postmodernismo era finito e la realtà era tornata a far parte del discorso naturale. Naturalmente anche questa era una storia.

– Le narrazioni, come diceva Nietzsche, vincono sempre. Nel suo celebrato documentario HyperNormalisation, il regista britannico Adam Curtis sostiene che negli ultimi quarant’anni politica, finanza e utopisti tecnologici hanno collaborato a costruire un mondo falso e semplificato per ritirarsi dal confronto con il mondo vero, sempre più complesso e difficile da governare. Nella sua trattazione del tema, per altri versi esemplare e traboccante di spunti eccellenti, Curtis affronta la storia degli ultimi quarant’anni fornendone un modello semplificato e dunque entro certi limiti falso. L’antitesi di una fiction non può essere altro che una fiction.

– L’alternativa è agghiacciante, ma dobbiamo farci i conti. Tra i nuovi filosofi realisti ce ne sono alcuni, in effetti molti, che pensano che la filosofia dovrebbe smettere di essere antropocentrica e dovrebbe cominciare a includere nel proprio discorso le entità non-umane. Questo è l’unico vero modo di essere realisti in filosofia, almeno stando alle dicotomie di Kermode, in alternativa radicale alla fiction. In altre parole significa osservare la vita umana dal punto di vista della vostra lampada da scrivania, il che come abbiamo visto comporta dei problemi. Dato che siamo entrati in un’epoca postumana, dove alla conoscenza partecipano macchine e soggetti animali e vegetali, il punto di vista della vostra lampada da scrivania è diventato improvvisamente piuttosto importante.

– Il principio di complementarità aiuta a capire un po’ di cose. Se dobbiamo metterci a fare un discorso serio sul rapporto tra realtà e finzione nella narrativa contemporanea, autofiction, premi Nobel dati a Svetlana Alexievich eccetera, prima o poi finiamo sempre per rimanere intrappolati nella solita opposizione: si tratta di realtà letteraria o di letteratura realistica – ovvero, quello che sto leggendo è reale? E fino a che punto? Bohr è una buona via d’uscita da questo cul de sac, e potrebbe essere espresso con la metafora di Ben Lerner di un mondo a venire che è molto simile a quello in cui viviamo ma anche diverso.

– Uno dei vantaggi del presente è che possiamo sempre obliterare il passato. Grazie a internet e alla banda larga tutti possiamo fare come Gesù con il passato e cioè riconfigurarlo in base a un atto di volontà alla luce dei futuri sviluppi. La complessità delle narrazioni contemporanee in effetti consiste proprio nel fatto che si snodano in un campo aperto, largo quanto il mondo, che è quello delle connessioni della rete. Se leggiamo la storia da un punto qualsiasi della rete abbiamo abbastanza informazione disponibile per giustificare una linea narrativa che faccia di quel punto, proprio di quello e non un altro, l’arrivo di un qualche tipo di percorso.

– Nell’epoca in cui l’esperienza è tutto, chronos e kairos coincidono. Questo Kermode non lo dice esplicitamente, ma mi sembra una conseguenza deducibile piuttosto facilmente dalle premesse in campo. Ci sono pochi dubbi che questa sia un’epoca di empiristi radicali, di persone per cui l’esperienza sensibile è l’orizzonte ultimo. Non stupisce molto: se sei convinto che la fine dei tempi sta per arrivare e che la realtà vera è quella che si trova al di là del Giudizio, allora non darai molta importanza al girovita di tua moglie o alla qualità del tuo safari in Kenya. L’uomo di oggi è l’opposto della descrizione che Carrère faceva di Philip Dick quando diceva che a lui “non interessava il piacere, solo il senso”. Oggi ogni momento è un momento topico, uno snodo di senso, una manifestazione di kairos.

Potrei andare avanti ancora a lungo, ma credo che il senso del discorso a questo punto sia chiaro. Possiamo quindi tirare le fila dell’argomentazione.

 

Kermode e il Nuovo Canone Letterario

Proprio sulle pagine di Prismo, non molto tempo fa, Vanni Santoni sollevava un discorso molto importante (se le cose della letteratura sono importanti) chiedendosi quali autori, o scritture, possono rappresentare oggi una sorta di canone letterario. La mia generazione è cresciuta leggendo Carver. A venti, venticinque o trent’anni anni abbiamo lasciato Carver per avvicinarci a un autore che aveva preso il carverismo, l’aveva ribaltato come un calzino, l’aveva ibridato con Borges e ne aveva fatto una cosa nuova e affascinante: Roberto Bolaño. Nello stesso periodo c’è stato l’11 settembre, la fame di realtà, l’esplosione del memoir, la creative non fiction. C’è stato un momento d’oro delle serie televisive, che sono diventate la forma narrativa più diffusa tra un certo tipo di pubblico, e dei reality show (in una seconda vita talent show), che sono diventati la forma narrativa più diffusa tra un altro tipo di pubblico.

Allora vi chiedo, facciamo un gioco: elenchiamo i romanzi più influenti degli ultimi anni (dalla nostra prospettiva italo-centrica, ovviamente). Una lista piuttosto condivisa comprenderebbe sicuramente (anche se non sarebbe probabilmente limitata a) 2666 di Roberto Bolaño (2004), Gomorra di Roberto Saviano (2006), Il contagio di Walter Siti (2008), 1Q84 di Murakami Haruki (2009), Il tempo è un  bastardo di Jennier Egan (2010), L’amica geniale di Elena Ferrante (2011), Limonov di Emmanuel Carrère (2011), La mia lotta di Karl Ove Knausgård (2011), Nel tempo a venire di Ben Lerner (2014), Il cardellino di Donna Tartt (2015). Altri romanzi importanti che mi vengono in mente sono Cloud Atlas di David Mitchell (2004), La strada di Cormac McCarthy (2006), Il senso di una fine di Julian Barnes (2011 e sì, il titolo è tratto da Kermode). Autori che avevano vissuto un momento di fama nel passato sono tornati in voga, come Joan Didion o W.G. Sebald.

Cosa accomuna questi romanzi? Per anni la tentazione è stata quella di dire, sulla scorta di David Shields, che il nuovo canone letterario andava ricercato nel progressivo mescolamento di realtà e fiction, una teoria interessante che non teneva per niente conto dei Murakami, Egan, Tartt, Mitchell e (per non limitare il discorso solo alla sfera letteraria) i vari Lost e progenie, o gli Inception e dei Pacific Rim, cioè di narrazioni che altrove ho chiamato hyperfiction – narrazioni al cubo, che estremizzano la forma narrativa fino a portarla a un punto di rottura. Il nuovo realismo e l’autofiction sono concetti interessanti, ma non sono passepartout applicabili indiscriminatamente. Proviamo invece ad applicare Kermode a questi romanzi.

Quello che chiamiamo realtà, dice Kermode, è “il senso di un mondo irriducibile alle trame umane e al desiderio umano di ordine”, “l’immaginazione umana dell’inumano”. Non è questo il mondo delineato dalle filosofie del postumanesimo?

Abbiamo visto che con l’11 settembre 2001 una narrazione della fine molto in voga negli anni ’90 (“la Storia è finita e d’ora in poi regnerà la pax americana”) è stata disconfermata ed è stata sostituita da una nuova narrazione della fine (“è cominciato il declino dell’Occidente”). Abbiamo anche visto che per Kermode da quando abbiamo smesso di credere nell’imminenza del giudizio universale il nostro concetto di fine si è tramutato in quello di crisi perpetua, di transizione senza fine.

In ogni narrazione della fine, dice Kermode, ci sono promotori di un “accademico scetticismo” che mettono in discussione il valore delle narrazioni e pongono l’accento sulla realtà. Quale realtà? Quella della vostra lampada da scrivania, ad esempio, per cui la vostra vita è lo spazio asignificante compreso tra un punto casuale X e un altro punto casuale Y. Kermode direbbe che viene messa in atto un’opera di bilanciamento tra la narrazione, a cui non possiamo credere completamente pena il trasformarla in un mito, e la realtà, a cui non possiamo credere completamente pena la perdita di senso. Questo “accademico scetticismo” nel tempo della crisi perenne del XXI secolo è ben rappresentato dai filosofi del nuovo realismo e dagli esponenti del postumanesimo con le loro “grandi finitudini” e il loro “niente sguinzagliato”.

Quello che chiamiamo realtà, dice Kermode, è “il senso di un mondo irriducibile alle trame umane e al desiderio umano di ordine”, “l’immaginazione umana dell’inumano”. Non è questo il mondo delineato dalle filosofie del postumanesimo? Non assomiglia al mondo post-apocalittico, ad esempio, de La strada di McCarthy? La narrazione è una proiezione umana su questa assenza di senso, e lo scetticismo non ne è immune. Gli scettici diventano narratori, e i narratori cadono nello scetticismo. Il “mondo dopo la fine del mondo” di Timothy Morton è una di queste narrazioni della fine, Walter Siti dice che “il realismo è l’impossibile”. Non c’è opera di autofiction più poetica di Nel tempo a venire di Ben Lerner – il romanzo che consacra l’autofiction tra le masse di fatto riafferma la narrazione.

Dunque il canone letterario di questi anni si delinea all’interno di una macro-narrazione che potremmo chiamare “il declino dell’Occidente”. Siccome sappiamo quando questa fiction ha avuto inizio (il tick dell’orologio, l’11 settembre 2001) ma non crediamo nell’esistenza di una fine definitiva (il tock), questo presente si configura come un momento di crisi e transizione continua: crisi/transizione culturale, politica, tecnologica ecc. In questa fiction raffinata sono presenti istanze che negano la fiction stessa. Come nell’esperimento di Bohr, realtà e narrazione si alternano incessantemente, il tempo narrativo lascia intravedere il tempo a cui è sovrapposto. Questo effetto di contrasto tra la durata della vita umana e il tempo infinito è ciò che fa funzionare le storie che si svolgono attraverso decine di anni (Tutto il nostro sangue di Sara Taylor), centinaia di anni (Aurora di Kim Stanley Robinson), migliaia di anni (Terminus radioso di Antoine Volodine).

Il tempo è un fattore determinante. Parlando di Robbe-Grillet, Kermode dice che man mano che le narrazioni si fanno complesse abbandonano la linearità delle origini e diventano frammentarie, si riempiono di peripezie, deviazioni, digressioni. La destrutturazione del tempo coincide con una destrutturazione dello spazio – e questo, credo, è ciò che accomuna davvero i romanzi che abbiamo elencato sopra molto più che il richiamo alla realtà.

Immaginiamoci chronos, il tempo asignificante, come un enorme campo aperto: non va per forza avanti, non va in nessuna direzione. È infinito, e dunque statico. Invece kairos, il tempo che conferisce senso, l’istante significativo, esiste in ragione di una narrazione – è il risultato di una linea retta sovrapposta al campo aperto. Ecco, tutti i romanzi che abbiamo elencato sopra funzionano come delle divagazioni, delle derive della scrittura per il campo aperto al quale la fiction è sovrapposta. Il loro tratto distintivo consiste in un continuo allontanarsi e ritornare a quella linea retta: la narrazione sconfina nel racconto della realtà e viceversa (Siti, Carrère, Knausgård, prodotti televisivi come The Jinx o Making a Murderer), si muove liberamente attraverso il tempo (Egan, Mitchell), evolve senza inizio né fine secondo logiche interne (Tartt, le serie tv in generale) in un regno dove tutto è possibile (Murakami, Lost, Inception), riflette essa stessa sul suo essere una divagazione lungo il corso del tempo (Lerner). Come il Bolaño di 2666 e come W.G. Sebald, il vero padre putativo di queste scritture, la narrativa contemporanea esprime il senso della fine attraverso la continua deriva lungo la rete infinita delle possibilità, la peripezia che in Kermode è il tratto distintivo delle narrazioni in un’epoca di crisi permanente: come in Kafka niente inizia e niente finisce ma c’è solo transizione perpetua verso un punto che sappiamo non arrivare mai.

Naturalmente questa lettura potrebbe essere un modo come un altro di dare senso al presente, una narrativa come un’altra sovrapposta al caos di ciò che è essenzialmente privo di senso. E forse lo è: ma, come diceva Nietzsche, dove sta scritto che la falsità di una teoria la rende meno efficace per comprendere il mondo? E come diceva Geoff Dyer, un altro degli autori canonici di questa epoca, non è forse vero che “tutto quello che chiediamo da questo tempo trascorso sulla Terra è un senso”?


Gianluca Didino
Gianluca Didino è nato nel 1985 in Piemonte. Ha vissuto otto anni a Torino e da tre vive a Londra. Suoi articoli sono stati pubblicati su IL, Studio, Nuovi Argomenti. Ha curato la rubrica VALIS sul Mucchio Selvaggio e attualmente collabora con minima&moralia e Doppiozero.  

 

 

 

 

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