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prismo

Tutta la post-verità sulla post-verità

di Enrico Gullo

D'accordo, bufale e balle imperversano ovunque: ma quale nucleo di verità nascondono? E a questo punto, non sarà il caso di cominciare a prenderle sul serio?

postverit heroOh, ma la sapete quella del Prete Gianni? Ve la racconto velocemente. Tra il 1143 e il 1146 il vescovo Ottone di Frisinga scrisse una Chronica nella quale – tra un pistolotto sulla Babele terrena e qualche borbottio sulla condizione umana – tenta di tracciare una storia dell’umanità che include la narrazione della storia a lui contemporanea. Tra le notizie fornite dalla Chronica c’è questa curiosa storiella, di cui Ottone viene a conoscenza a Viterbo tramite intrallazzi papali: racconta che esiste un Principe e Prete cristiano, tale Prete Gianni (o Preteianni o Presbyter Johannes), che vive da qualche parte di là dal Mediterraneo – forse in Africa o in Asia – e che, pur essendo nestoriano, desidera avvicinare se stesso e il suo popolo alla Cattolica Dottrina di Santa Romana Chiesa, anche in virtù della sua inimicizia coi limitrofi domini musulmani. Neanche a dirlo, è pure ricco da far schifo e il suo regno è pieno di meraviglie. Fin qui tutto bene, sembra. A parte il dettaglio che il fatterello è una colossale balla, certo. E che viene raccontato in una delle più influenti cronache medievali.

Il risultato è che una bufala di proporzioni bibliche (è il caso di dirlo) conosce una larghissima fortuna nel corso del basso Medioevo: lettere false, tentativi di corrispondenza da parte dei sovrani occidentali, mercanti che identificano il Prete Gianni in tale o talaltro sovrano incrociato lungo la via della seta… Sarà forse Gengis Khan? Oppure un suo avversario?

Un discendente dei Magi? Il re dell’Etiopia? Tutti lo cercano, nessuno lo trova; ma il Prete Gianni continua a esistere sulla carta di documenti diplomatici, cronache, poemi cavallereschi.

Più o meno all’altezza delle esplorazioni geografiche della prima età moderna, la leggenda inizia a svanire. Sopravvive nelle opere “letterarie”, e infine si estingue. Nel frattempo però, un’enorme stronzata condivisa da vescovi, prelati, principi, regnanti e mercanti, è stata narrata e ripetuta per tre o quattro secoli.

A che serve ricordarsi della storiella del Prete Gianni? Una stronzata risalente a secoli fa resta pur sempre una stronzata, d’accordo; ma è utile ricordarsi, in questi giorni in cui si fa un gran parlare di “post-verità” (persino per bocca del presidente del consiglio uscente), che non è da ieri che ci raccontiamo balle, e nemmeno dall’altro ieri. Insomma: di cazzate ne diciamo in abbondanza da sempre, e forse può essere più utile cercare di capire quali sono le caratteristiche e le specificità delle balle che ci raccontiamo oggi.

Per fortuna ci ha già pensato con chiarezza Flavio Pintarelli, che ha precisato che la “post-verità” non è semplicemente una menzogna, ma un’interpretazione manipolatoria e soggettiva dei fatti, che vengono così scavalcati in favore di una ricostruzione emotiva. Il che naturalmente non basta a definire la specificità storica della “post-verità”. Tralasciando il riferimento al postmodernismo e al neofondamentalismo come radici culturali di questa nuova società “post-vera” e anche (per forza di cose) “post-fattuale”, ci sono due fenomeni – tutti e due legati alla rivoluzione informatica – che aiutano a individuare la specificità dell’oggi, in opposizione all’uso strumentale del falso tipico delle epoche passate.

La prima, è la drastica riduzione delle mediazioni nella costruzione della verità; la seconda è la progressiva sostituzione dei dati ai fatti. E tenderei a insistere su questi due aspetti, che mi sembrano quelli che davvero creano una frattura rispetto ai modi con cui ci siamo rapportati negli scorsi secoli al problema di “come si produce la verità”. Soprattutto perché riguardano persone di ogni appartenenza sociale e sono un aspetto strutturante del modo in cui oggi costruiamo le nostre verità.

Una cazzata dura a morire ha comunque una forza-di-vero che ci costringe ad affrontarla.

Innanzitutto, non basta definire la condizione di “post-verità” come un semplice oltrepassamento dei fatti a favore di un modo tutto emotivo di affrontare la realtà; anche perché una descrizione di questo tipo è applicabile senza problemi a un gran numero di cazzate raccontate tra il Medioevo e la prima Età Moderna. Ci sarebbe semmai un’altra cosa da sottolineare: ed è il fatto che una cazzata dura a morire ha comunque una forza-di-vero che ci costringe ad affrontarla.

In effetti, raccontare la storiella del Prete Gianni come ho fatto prima non rende giustizia fino in fondo alla cura e alla passione con la quale i ceti dominanti occidentali se la sono ripetuta per così tanto tempo: accumulando dettagli, disputando sulla vera collocazione del suo regno, favoleggiando le sue ricchezze, tentando di entrare in contatto col prete-sovrano delle semisconosciute terre orientali… Sarà anche una proiezione fantasmatica, un desiderio condensato in leggenda, ma l’idea che un regnante cristiano si trovasse in mezzo o al di là del mondo musulmano, che avesse contatti con l’imperatore di Bisanzio e che volesse aderire alla dottrina cattolica, permea e struttura profondamente alcuni secoli della storia d’Occidente, specie tra le classi dominanti.

Capiamoci, questo non vuol dire né che bisogna credere a tutte le cazzate che sentiamo ripetere ogni giorno, né che tutte le stronzate abbiano la stessa… ehm, gradazione. Anche perché non è detto che le stiamo misurando col metro argomentativo giusto. Per dire, prendiamo la leggendaria teoria del flogisto sull’infiammabilità dei materiali elaborata nel XVII secolo: possiamo leggerla in base alla legge di conservazione della massa che poi l’avrebbe resa obsoleta. Oppure possiamo semplicemente fare i conti col fatto che quella teoria nacque in un momento di intensa sperimentazione in cui la chimica non esisteva ancora, in cui svariati concetti su cui poggia non erano stati inventati o chiariti, e in cui il metodo stesso di acquisizione e classificazione dei dati non era ancora del tutto definito.

I ceti e le classi sociali colte e istruite producono esagerazioni, bugie, mezze verità e verità 'emotive' esattamente come le producono i ceti meno istruiti.

Ecco, la teoria del flogisto funzionava e spiegava almeno una parte dei fenomeni osservati. Anche la leggenda del Prete Gianni funzionava, a modo suo: va bene, l’ho rappresentata come una macchietta, ma la storiella non era poi così infondata. E anche a guardarla dal punto di vista degli scopi, le ragioni storiche e politiche che sorreggevano i tentativi di prendere contatti col fantomatico Prete Gianni erano delle più serie.

Ora, se ho fatto queste due incursioni nel passato pur avendo cercato di distinguere le condizioni attuali del regime di post-verità, è perché da questi esempi si possono tenere ferme due indicazioni di metodo, e proprio nella direzione di limitare l’uso della nozione di post-verità. La prima, è che possono esistere delle gradazioni di verità che si stabiliscono in base a una serie abbastanza lunga di criteri: dal contesto storico in cui viene pronunciata una certa affermazione, al set argomentativo utilizzato, al tipo di destinazione che ha l’affermazione, e via dicendo. La seconda è che i ceti e le classi sociali colte e istruite producono esagerazioni, bugie, mezze verità e verità “emotive” esattamente come le producono i ceti meno istruiti.

Succedeva all’epoca e succede anche oggi. Il punto è che l’attuale espressione “post-verità” si riferisce a un regime di produzione della verità e delle informazioni che è collocato su un altro livello, più strutturale, rispetto all’identificazione della qualità delle cazzate che ci raccontiamo. E queste indicazioni ci vengono in aiuto anche nel caso in cui volessimo provare a muoverci all’interno del regime di post-verità senza venirne sopraffatti.

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Creature post-vere.

Subito dopo il referendum costituzionale del 4 dicembre, Raffaele Alberto Ventura ha provato a parlare di era del sospetto cercando di calare il concetto di post-verità sulle dinamiche della campagna referendaria. Nell’articolo, gli esempi di post-verità che fornisce sono tutti tratti dalla campagna per il No: e va bene, la storia delle matite copiative faceva ridere, specialmente se il tizio che ha riportato agli onori della memeification la questione si chiama Piero Pelù. Dopodiché, per prendere sul serio fino in fondo l’idea che la campagna referendaria si sia trasformata in una sorta di psicosi di massa (giusto per tenere i toni pacati…), bisognerebbe dare un’occhiata a come si è svolta anche tutta la campagna del Sì: dal video della signora che incita al cambiamento ai troll pakati dal piddì!1!!1, che per una volta esistevano davvero e sfornavano “buongiornissimi” e “kaffè” per convincere gli ultracinquantenni impazziti dei social network a votare Sì. E questo solo per limitarci alle forme in cui si è manifestata la “psicosi di massa” dalle parti del Sì.

Andando poi ai contenuti a favore del Sì, c’è solo l’imbarazzo della scelta: tra l’ipotesi di riforme costituzionali bloccate per i successivi quindici o vent’anni, passando per l’accusa alle sinistre di “votare coi fascisti”, il superamento del bicameralismo come necessità impellente per una democrazia matura, fino ad arrivare, molto più banalmente, al quesito referendario stesso che chiedeva agli elettori se volessero ridurre il numero dei parlamentari.

Se poi volessimo allargarci alle analisi successive al voto, troveremmo rispettabili psicanalisti che delirano intorno all’idea che il 60% del paese sia preda di una furia da stadio, o persino roboanti teorie dell’inganno universale ai danni dei cittadini (complotto!). Per farla breve: il modo in cui questi temi e argomenti del Sì hanno circolato nell’internèt corrispondono sia ai modi in cui sono circolate le “post-verità” del No, sia ai criteri che in questo momento stiamo prendendo per buoni per le definizioni più generali di post-verità e post-fattualità.

Qualunque proposta di soluzione del problema della post-verità in termini di new realism rischia di essere insufficiente di fronte a una situazione di fact-checking orizzontale perpetuo, di sfiducia nelle istituzioni preposte al vaglio delle informazioni, e di preminenza del dato sul fatto.

In effetti, se torniamo all’articolo di Ventura sopracitato, scopriamo che risponde esso stesso alle dinamiche di produzione e circolazione della post-verità: il tono intercetta perfettamente un certo clima emotivo che si era determinato dalle parti del Sì, e lo fa principalmente attraverso artifici retorici come quello di usare il concetto di post-verità ai danni di una sola parte politica, oppure accomunando le teorie politiche del pensiero radicale al complottismo, fornendo una versione caricaturale della questione della governamentalità neoliberale, e ovviamente non spiegando in quale strano modo la svolta “decisionista” del Sì avrebbe risolto la crisi di fiducia che proprio Ventura individua (giustamente) come nodo cruciale della questione della post-verità.

Ora, Flavio Pintarelli suggeriva che qualunque proposta di soluzione del problema della post-verità in termini di new realism rischia di essere insufficiente di fronte a una situazione di fact-checking orizzontale perpetuo, di sfiducia nelle istituzioni preposte al vaglio delle informazioni, e di preminenza del dato sul fatto; ecco, forse è a partire da questa diagnosi che si può ipotizzare se non qualche soluzione, qualche ipotesi di lavoro.

In sintesi: diamo per buona la teoria per cui viviamo in una società post-fattuale che produce post-verità attraverso una crisi interpretativa dei “dati”, che non possono essere ricomposti in “fatti” per via di una crisi dei criteri di selezione delle verità determinata dalla mutazione delle infrastrutture e dei meccanismi di produzione delle informazioni, che spingono verso una maggiore incomunicabilità tra le filter bubbles e impediscono di stabilire criteri condivisi. Sul piano politico, questo si traduce in una mozione di sfiducia verso le fonti di informazione otto-novecentesche che ostacola la ricreazione di un senso comune, agevolata da un lato dalla chiusura (anche emotiva ed empatica) sempre maggiore degli strumenti e delle fonti della divulgazione, dall’altro dall’espansione dello spazio politico del complottismo. Insomma, ancora una volta mi sembra che il problema sia cercare una strada che non stia né con Umberto Eco né con Gianroberto Casaleggio. Cosa si può fare?

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Post-verità ovunque (grazie Matteo De Giuli).

Per ricostruire quei rapporti di “fiducia epistemologico-politica” sarebbe il caso, intanto, di prendere un po’ più sul serio le cazzate (o le post-verità) che ci raccontiamo, e non solo nel senso di tenere conto che ommioddio ci sono gli analfabeti funzionali e laggente non sa che il presidente del consiglio in Italia non viene eletto dal popolo ma nominato dal presidente della Repubblica.

Proviamo per esempio a seguire l’ipotesi di Ventura sulla segreta connessione tra complottismo e teoria della governamentalità neoliberale, ma rovesciandola. Anziché rilevare l’inconsistenza di quell’opzione teorica, potremmo provare a ricostruire la consistenza almeno superficiale del discorso complottista che le assomiglia. Quello che intendo dire è: proviamo a sospendere il giudizio (lo so, è difficile) sull’impianto argomentativo costruito su sionisti, oscuri finanzieri internazionali (probabilmente rettiliani) e signoraggio bancario; ecco, risulta davvero così bislacca l’idea che esista un dominio della finanza internazionale che si tiene in piedi attraverso un controllo sui governi, esercitato tramite istituzioni sovranazionali, che varano riforme socialmente escludenti? Cioè: una volta chiarita la funzione di una specifica balla, non sarebbe il caso di riscattare quel “nucleo di verità” che contiene per riattivarne le connessioni con altre aree del discorso pubblico?

Leggere certe balle, stronzate, affermazioni problematiche come se queste non avessero alcuna connessione con la realtà, rischia di essere non solo insufficiente, ma anche dannoso: proprio perché impedisce di ricostruire un piano di comunicazione condiviso a partire dal quale si possono ricostruire rapporti di fiducia; anziché leggerne soltanto le componenti di Ur-Fascismo, bisognerebbe capire come funzionano e sottolinearne il rapporto (anche di semplificazione) con altre letture della realtà.

Per farlo però, prima di tutto dobbiamo toglierci dalla testa di essere esclusi dalla produzione di stronzate (ops, “post-verità”) e comprendere che il lavoro da fare è lungo e complesso. Fare i conti, quindi, con una componente che forse non è stata ancora sottolineata abbastanza nel dibattito sulla post-verità: che la post-truth è anche una instant truth, da costruire in tempi brevi e altrettanto rapidamente fruibile e condivisibile, cosa che impedisce ulteriormente la condensazione di criteri condivisi. Tiriamo un sospirone e lavoriamo con calma.


Enrico Gullo
Nasce a Palermo nel 1990, studia storia dell'arte a Pisa e come tutti i comunisti dei centri sociali è fuori corso. Da grande non vuole fare niente, che già vivere gli fa fatica.  

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