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Ecologia politica di André Gorz. Note su un discorso insostenibile

di Simone Benazzo

Marx 0Il filosofo francese André Gorz (1923-2007) è stato tra i principali animatori della teoria della ecologia politica a partire dai primi anni Sessanta. Vedere come nasce e come si sviluppa questa teoria nella sua riflessione cinquantennale permette di rintracciarne alcuni elementi costitutivi che sono oggi, forse più di ieri, estremamente attuali. Forse più di ieri, perché alcuni elementi della peregrinazione filosofica di André Gorz, in primis il precoce distacco dall’impianto socialista e la lucida denuncia di qualsiasi soluzione tecnocratica come ecofascismo, danno al suo approccio e ad alcune delle sue conclusioni quella coloritura visionaria che consentirebbe agevolmente al lettore italiano (spesso digiuno) di scambiarlo per un autore della Generazione Y. L’annichilimento dell’ecosistema è in Gorz un problema secondario a quello dell’annichilimento del soggetto. Secondario non nel significato di meno urgente, bensì in senso cronologico e soprattutto causale. L’oppressione primigenia è quella del soggetto, a cui quella della biosfera è inestricabilmente legata.

 

Capitalismo, socialismo, ecologia

Il Leitmotiv dell’eclettico pensiero di André Gorz, necessario per cogliere tutte le evoluzioni concettuali seguenti, è quello che ne è sempre rimasto il fine ultimo: l’emancipazione del soggetto, la sua sottrazione all’eteroregolazione operata dagli automatismi sociali. Il soggetto è, per Gorz, oppresso dalla società e dalle aspettative che essa su di lui coltiva: «chi agisce non è ‘io’, ma è la logica automatizzata delle disposizioni sociali che agisce attraverso di me e, in quanto Altro, mi fa concorrere alla produzione e riproduzione della megamacchina sociale»[i]. Questa megamacchina sociale è nel momento attuale il capitalismo, che, ben lungi dall’essere un mero sistema economico, è difatti un sistema sociale, nel suo determinare i valori sociali di riferimento, e politico, nella riduzione che attiva del soggetto a mero lavoratore o consumatore. Nelle parole di Gorz: «che noi si sia dominati dal lavoro è un’evidenza da centosettanta anni. Ma non lo è il fatto che siamo dominati nei nostri bisogni e desideri, nei nostri pensieri e nell’immagine che abbiamo di noi stessi»[ii]. Nucleo valoriale del capitalismo, la centralità del lavoro, principalmente ma non solo salariato, nella definizione – e auto-definizione – dell’individuo, lo connota come un meccanismo oppressivo.

Nel suo dubitare della sacralità del lavoro, inteso come impiego di salariati a tempo pieno, si consuma, anche il progressivo distacco di Gorz dal pensiero socialista, con il quale aveva lungamente interloquito. Se inizialmente aveva, infatti, abbracciato gli strumenti analitici marxiani, pur nella mediazione esistenzialista di Jean-Paul Sartre, la biografia intellettuale di Gorz può anche essere globalmente interpretata come un graduale affrancamento dal pensiero marxista classico, confermato dalla sua turbolenta relazione con le varie riviste vicine alla sinistra francese (Les Temps Modernes, Le Nouvel Observateur e, dal 1973, Le Sauvage) che ospitano i suoi interventi. La prospettiva gorziana arriverà a cogliere sempre meno le differenze tra sistema socialista e sistema capitalista, specialmente a partire dal Maggio Francese. Già le sue prime opere evidenziano i limiti della prospettiva socialista, proponendo l’ecologia politica come una sua possibile evoluzione: in Ecologié et liberté (1977) il filosofo francese si limitava, infatti, ancora a scrivere che «il socialismo non vale più del capitalismo, se non cambia strumenti»[iii] e a stigmatizzare l’evidenza che «gli economisti, classici o marxisti, hanno rigettato come ‘regressivi’ o ‘reazionari’ i problemi riguardante il lungo termine: quelle del pianeta e della biosfera»[iv]. Ma in Addio al Proletariato (1980)[v] il distacco diviene più profondo: qui Gorz denuncia un limite quasi epistemologico della sinistra tradizionale, sostenendo che «lo scopo ultimo, la natura e l’organizzazione del sistema produttivo non possono essere compresi e sfidati dall’interno di ogni singolo sotto-gruppo o ruolo lavorativo. Possono essere compresi e sfidati solo quando i lavoratori, invece di identificarsi con il loro ruolo lavorativo, ne prendono le distanze e lo pongono in prospettiva»[vi].

Pragmaticamente, la conseguenza è oggi che i sindacati potrebbero risultare utili soltanto qualora riconoscessero e proteggessero «i bisogni, le aspirazioni e gli interessi che i lavoratori maturano come persone, cittadini, abitanti, genitori, consumatori, etc., al di là del posto di lavoro»[vii]. È Capitalisme, socialisme, écologié (1991) che celebra la sua definitiva abiura al socialismo, megamacchina sociale che Gorz non rimpiange, ritenendo che abbia fallito proprio nella sua incapacità di ristabilire una nuova relazione tra individui e tra individuo ed ambiente. Se il socialismo ha errato nel reiterare l’oppressione del soggetto, esaurendo presto il suo potenziale di manumissio dell’individuo, è perché non ha generato un cambio di mentalità, da concretizzarsi nell’abbandono del mito del progresso materiale e della dinamica produttivismo/consumismo. La finalità di oppressione, tuttavia, è rimasta intatta nel capitalismo. Secondo Gorz, anche dopo il crollo dell’antagonista socialista, quindi con l’ottenimento dell’egemonia planetaria da parte del sistema capitalista, pensare di salvare l’ecosistema mantenendo in vita tale megamacchina è comunque impossibile: deleterio nel breve periodo, poiché l’oppressione del soggetto continuerebbe e ne risulterebbe anzi enfatizzata, e insostenibile nel lungo periodo, poiché, non modificandone gli elementi intrinseci (lo sfruttamento di persone e ambiente), ma tentando semplicemente di addolcirli e contenerli, verrebbero riproposti gli stessi problemi, soltanto dilazionati nel tempo. Il capitalismo, per Gorz, non può avere altro esito se non l’emergenza dei limiti fisici della biosfera: «l’uscita dal capitalismo dunque avrà luogo in un modo o nellaltro, sarà civilizzata o barbara. La questione riguarda soltanto la forma che questa uscita prenderà e la cadenza secondo la quale essa andrà a realizzarsi»[viii]. Per comprendere appieno il contenuto, il significato e la sua portata innovativa, uno sguardo integrale alla produzione di Gorz vede l’autore francese definire l’ecologia politica con due movimenti concettuali, una pars destruens ed un pars construens. Il primo movimento la individua per negazione, per alterità, per distanza, ovvero definisce cosa non è l’ecologia politica; il secondo, più connesso con la pratica, la tratteggia per affermazione, per riempimento, descrivendo cosa può essere l’ecologia politica.

 

Pars destruens

Cosa distingue l’ecologia politica e gli approcci affini con cui si contamina, come la decrescita di Serge Latouche e la società conviviale di Ivan Ilich[ix], dagli altri approcci ecologisti, più o meno radicali, in primis il dogma odiernamente egemone della sostenibilità? Cosa implica, in sostanza, la sua qualificazione come politica? Questa qualificazione deriva dall’assunzione di due posizioni (consapevolmente) ideologiche: la prima è il rifiuto di qualsiasi approccio tecnico, nel senso di una pretesa di apoliticità o di neutralità; da questa discende la seconda, che consiste, riportando l’ecologia all’interno della sfera politica, nella possibilità di azione per il corpo politico riguardo alla definizione ed ai contenuti di cosa può essere l’ecologia. Il capitalismo è un sistema politico, non tecnico, e lo rimane anche dopo il 1989. Politiche e non tecniche saranno, quindi, anche le sue modificazioni o sostituzioni, qualunque esse siano: «è necessario evitare che l’approccio politico sia presentato come il risultato che si impone con una ‘necessità assoluta’ alla luce dell’‘analisi scientifica’ e che si riproponga sotto nuove vesti il genere di dogmatismo scientista ed antipolitico che ha preteso di innalzare al rango di necessità scientificamente dimostrate pratiche e concezioni politiche il cui carattere specificatamente politico veniva per ciò stesso negato»[x].

Assumendo come data, in quanto inscritta nella genetica dei suoi presupposti antropologici, la fine del capitalismo, di cui la declinazione di consumo sfrenato di risorse limitate non è che l’ultimo ed irreversibile stadio, Gorz preconizza già gli scenari futuri, delineando le alternative possibili. Tra queste possibili opzioni, la più probabile è quella che Gorz definisce espertocrazia, un disegno politico di cui individua i prodromi già negli anni Sessanta: un regime di tecnocrati che, come un equipe di chirurghi, dovrebbe intervenire a tenere in vita il sistema capitalista, qualora il raggiungimento conclamato dei limiti fisici dello sviluppo obbligherebbe ad un tardivo, e probabilmente ormai inefficace, accordo generalizzato sul suo stato di coma, seguita da una propagazione geometrica di azioni coercitive. Ma, secondo Gorz, può essere soltanto un palliativo, una rimedio tampone utile a procrastinare lo scontro finale con l’esaurimento delle risorse naturali. Questa consapevolezza che un approccio scientista, positivista e tecnocratico non possa fungere da soluzione realistica è un fil rouge del pensiero gorziano, frequentemente definito utopistico, che, specialmente a partire dalla pionieristica pubblicazione del Club di Roma The limits to Growth del 1972, si confronta con la diffusione del mantra dell’imperativo ecologico, stimolata anche dalla comparsa dei partiti verdi sullo scenario politico europeo. L’ecologia politica si pone come un’“etica della liberazione”; un obiettivo che l’imperativo ecologico non può porsi, poiché non altera né sovverte le cause primarie del problema: «l’ecologia non ha tutta la sua carica critica ed etica se le devastazioni della Terra, la distruzione della basi naturali della vita non sono comprese come le conseguenze di un modo di produzione, se non si comprende che questo modo di produzione esige la massimizzazione dei rendimenti e ricorre a delle tecniche che violano gli equilibri biologici. Ritengo dunque che la critica delle tecniche nelle quali si incarna il dominio sugli uomini e sulla natura sia una delle dimensioni essenziali di un’etica della liberazione»[xi].

La sensibilità di Gorz verso i rischi che l’umanità corre, «se il capitalismo sarà costretto a tener conto dei costi ecologici senza che un attacco politico [lecologia politica, ndr], sferrato a tutti i livelli gli sottragga l’egemonia dell’operazione e gli opponga un progetto di società e di civiltà completamente diverso»[xii], è uno dei lasciti più contemporanei del suo pensiero. L’espertocrazia, per Gorz, esigendo di tener vivo lo spirito del capitalismo in uno stato di parossismo permanente, «non rompe fondamentalmente con l’industrialismo e la sua egemonia della ragione strumentale (..) riconosce la necessità di limitare lo sfruttamento delle risorse naturali e di sostituirgli una gestione razionale a lungo termine dell’aria, dell’acqua, dei suoli, delle foreste e degli oceani, il che implica politiche di limitazione dei rifiuti, di riciclaggio e di sviluppo di tecniche non distruttrici per l’ambiente naturale»[xiii]. Anche nel descrivere come può operare pragmaticamente questo deus ex machina tecnocratico, Gorz segnala esplicitamente la sua differenza con l’ecologia politica, sostenendo che «le politiche di ‘preservazione dell’ambiente’ non tendono affatto, dunque, a differenza dell’ecologia politica, a una pacificazione dei rapporti con la natura o alla ‘riconciliazione’ con essa; esse tendono ad amministrarla prendendo la necessità di preservarne almeno le capacità di autorigenerazione fondamentali. Da questa capacità si dedurranno le misure che si impongono nell’interesse dell’umanità intera e al rispetto delle quali gli Stati dovranno vincolare gli operatori economici e i consumatori individuali»[xiv]. Ad agire sarà dunque uno Stato Leviatano, curatore fallimentare e prodotto di una fase di solipsismo verde del capitalismo. Non si tratterà, tuttavia, di un ritorno allo statalismo, né nella versione keynesiana, né in quella socialista, poiché lo Stato, assunto semplicemente il ruolo di custode dispotico dell’ecosfera, lascerà campo libero alle imprese private, premurandosi, tramite pratiche di contenimento legislative, che rimangano entro determinate soglie di inquinamento e rintuzzando le reazioni di protesta e le rivolte popolari. Le modalità attuative dell’imperativo ecologico non prevedranno il protagonismo degli individui, né la loro consapevolezza, interamente passivizzati: «La presa in conto dei vincoli ecologici da parte degli Stati si tradurrà allora in divieti, regolamentazioni amministrative, tassazioni, sovvenzioni e sanzioni. Essa dunque avrà quale effetto il rafforzarsi dell’eteroregolazione del funzionamento della società. Questo funzionamento dovrà diventare più o meno “ecocompatibile” indipendentemente dallintenzione propria degli attori sociali»[xv].

L’eteroregolazione, l’incapacità del soggetto di influire e determinare la propria vita, che, come abbiamo visto in apertura, è il perno della riflessione gorziana in un sistema tecnocratico rimane inalterata. Già nel 1974, in uno dei suoi articoli più pregnanti, dal titolo auto-esplicativo “La loro ecologia e la nostra”, l’autore si era spinto fino a delineare la possibilità che l’espertocrazia degeneri in uno scenario autocratico, una sospensione de facto della democrazia: «Il potere centrale rafforzerà il proprio controllo sulla società: dei tecnocrati studieranno mosse ‘ottimali’ di disinquinamento e di produzione, stabiliranno regolamentazioni, amplieranno gli ambienti di “vita programmata” e il campo di attività degli apparati repressivi. La collera popolare, mediante miti compensatori, verrà deviata contro capri espiatori comodi (le minoranze etniche o razziali, i giovani…) e lo Stato fonderà il suo potere solo sulla forza dei propri apparati: burocrazia, polizia, esercito, milizie riempiranno il vuoto lasciato dal discredito della politica di partito e dalla scomparsa dei partiti politici»[xvi]. La formula trovata da Gorz per definire questo sistema, “pétainismo verde”[xvii], riassume in maniera icastica le caratteristiche liberticide e autocratiche che mostrerebbe tale sistema, reazione tecnocratica alla crisi fisica del capitalismo.

Benché con un vocabolario non identico, una delle poche voci del panorama intellettuale nonché politico italiano ad aver dimostrato una lucidità paragonabile nel condannare «le ambiguità del concetto di ‘sviluppo sostenibile’ (‘nuova formula mistificatrice’?), e, infine, l’impossibilità di qualsiasi forma di ‘Stato etico ecologico’, di ‘eco-dirigismo’, o addirittura di ‘eco-autoritarismo’»[xviii] è stata quella di Alexander Langer. In svariati testi e articoli, Langer, pur partendo da basi biografiche molto differenti e incarnando un ruolo più marcatamente politico rispetto a Gorz, ne riecheggia le riflessioni, sembrando rivendicare proprio quella dimensione politica dell’ecologia cara a Gorz, in opposizione allo scenario tecnocratico sopra esposto: «si deve dire chiaramente che simili ipotetici ‘estremi rimedi’ si situano al di fuori della politica – almeno di una politica democratica. Ogni volta che si è sperimentato lo Stato etico in alternativa a situazioni o stati anti-etici (e quindi senz’altro deplorevoli) il bilancio etico della privazione di libertà si è rivelato disastroso. E l’attesa della catastrofe catartica non richiede certo alcun sforzo di tipo politico: per politica si intende l’esatto contrario dell’accettazione di una selezione basata su disastri e prove di forza»[xix].

Anche Langer, come Gorz, ritiene che il processo di quella che lui chiama “conversione ecologica” non possa essere patrimonio di pochi illuminati decisori, ma debba necessariamente transitare per una collettivizzazione della sensibilità ecologica, riproponendo gli individui come soggetti ed evitando qualunque forzatura della loro volontà. Nella parole dell’europarlamentare trentino: «inevitabilmente ci si dovrà sottoporre alla fatica dell’intreccio assai complicato tra aspetti e misure sociali, culturali, economici, legislativi, amministrativi, scientifici ed ambientali. Non esiste il colpo grosso; l’atto liberatorio tutto d’un pezzo che possa aprire la via verso la conversione ecologica: i passi dovranno essere molti, il lavoro di persuasione da compiere enorme e paziente»[xx].

 

Pars construens

Il rapido excursus su Langer, la cui azione politica è sempre stata informata dall’idea che serva «una decisa rifondazione culturale e sociale di ciò che in una società o in una comunità si consideri desiderabile»[xxi], è un traino adatto per concludere il presente lavoro presentando la pars construens del pensiero gorziano, il tipo di società che l’ideologia[xxii] dell’ecologia politica propone. Coerentemente con quanto esposto finora, questa società prevedrebbe una riduzione dell’importanza del lavoro per il soggetto, ribaltando la prospettiva mainstream: «la carenza di posti di lavoro non è una maledizione, ma la forma perversa di una benedizione potenziale»[xxiii]. Secondo Gorz, la scomparsa di posti di lavoro, traducendosi nell’impossibilità oggettiva di perseguire il pieno impiego per tutta la popolazione occupabile, «significa che l’economia non necessita più del lavoro a pieno tempo di tutta la popolazione attiva per tutto l’anno e, di conseguenza, che una quantità senza precedenti di tempo libero è diventata potenzialmente a disposizione»[xxiv]. Ma questa «liberazione del tempo ha senso solo se ne consegue un rientro di quest’attività: la ricostituzione di reti di mutuo aiuto, di cooperazione, di scambi non monetari»[xxv]. Ritiene Gorz che questo modello sociale non sia più utopico rispetto a quelli di varia gradazione autoritaria presentati in precedenza. È soltanto meno probabile allo stato attuale delle cose. In quest’ottica si arricchisce ulteriormente il senso della declinazione politica dell’ecologia come teorizzata da Gorz: «Il problema – che è politico e non economico – è quello di mettere in grado ‘ogni individuo e l’intera società’ di beneficiare di questa liberazione del tempo e di usarla per lo sviluppo di attività che siano ‘fini a se stesse’. Ciò richiede ovviamente che tutti possano guadagnarsi da vivere lavorando e disponendo di più tempo per quelle cose che non possono essere comprate, o che assumono il loro vero valore e senso solo quando non sono fatte principalmente per denaro»[xxvi]. Evitando quelle forme estreme e nostalgiche di anarco-primitivismo che vaticinano un ritorno integrale alla terra deputato ad obnubilare il più possibile gli ultimi diecimila anni di storia umana, Gorz, suggerendo «l’organizzazione dualistica dello spazio sociale con una sfera dell’eteronomia subordinata agli scopi della sfera dell’autonomia»[xxvii], abbozza quello che potremmo definire sistema di lavoro integrato. È fondamentale evidenziare che in questo sistema viene lasciata libera scelta al soggetto, che può anche dedicarsi interamente all’attività lavorativa, garantirsi la propria eteronomia. Ma questa smette di essere una necessità, derivata da esigenze di sussistenza effettive o imprescindibilità per lo status sociale, e diventa una scelta. Un punto spiegato limpidamente da Gorz: gli individui diventano liberi di vedere nel loro lavoro socialmente determinato una necessità esterna, ben circoscritta, che occupa un posto marginale nella loro vita. Ma restano ugualmente liberi di cercare la loro realizzazione personale nel lavoro e attraverso il lavoro sociale.

In altre parole, dentro questo sistema di lavoro integrato non scompaiono, quindi, né il lavoro salariato né la possibilità di consacrazione alla carriera. Ma parallelamente – e, secondo Gorz, gradualmente di più – diventano importanti i valori sociali extra-economici: la cooperazione, la relazione, la condivisione del tempo la sostituzione di servizi a pagamento (come la cura di anziani e bambini) con attività di mutuo aiuto. Il produttivismo cessa di essere l’unica unità di misura sociale, ma si riprende quote di approvazione sociale anche l’otium, la decisione di ritagliarsi spazi – sociali ed individuali – per attività non produttive, bensì dedicate all’arricchimento intellettuale di sé come soggetto. Concludendo, in questa società della decrescita[xxviii] si consuma un’inversione valoriale: è il materialismo del presente ad essere povero, il futuro, intessuto di relazioni e condivisione può essere molto più ricco. Tecnocrazia, ecofascismo o decrescita: l’ecologia sarà sempre politica. Forse in questo consiste la lezione più fresca di André Gorz.


Note
[i] Cfr. A. Gorz, Ecologica, Jaca Book, 2009, pagina 15.
[ii] Cfr. A. Gorz, Ecologica, cit., 15-17.
[iii] Ibidem, Introduzione.
[iv] Cfr. A. Gorz, Écologie et Liberté, cit., pagina 14.
[v] Cfr. A. Gorz, Addio al proletariato. Oltre il socialismo, Edizioni Lavoro, 1982.
[vi] Ibidem, pagina 107.
[vii] Ibidem, pagina 12.
[viii] Cfr. A. Gorz, Ecologica, cit., pagina 33.
[ix] Cfr. nota 7.
[x] Cfr. Ecologica, cit., 45.
[xi] Cfr. Ecologica, cit., 18.
[xii] Cfr. A. Gorz, Ecologia e Politica, Cappelli, 1978, pagina 20.
[xiii] Cfr. A. Gorz, Ecologica, cit.
[xiv] Ibidem, pagina 47.
[xv] Cfr. A. Gorz, Ecologica, cit., pagina 47.
[xvi] Cfr. A. Gorz, Ecologia e politica, cit., pagina 20.
[xvii] Cfr. A. Gorz, Ecologica, cit., 18.
[xviii] Cfr. M. Boato, Alexander Langer. Costruttore di ponti, La Scuola, 2015, pagina 35.
[xix] Cfr. E. Rabini, cit., pagine 142-145.
[xx] Ivi.
[xxi] Cfr. E. Rabini, cit., pagine 142-145.
[xxii] “Ideologia” nel senso di “progettazione sociale” dato al termine da Ferruccio Rossi-Landi. Cfr. F. Rossi-Landi, Semiotica e ideologia, Bompiani, 1972.
[xxiii] Cfr. A Gorz, Il lavoro debole. Oltre la società salariale, Edizioni Lavoro, 1994, pagina 24.
[xxiv] Ivi.
[xxv] Ibidem, pagina 47.
[xxvi] Cfr. A Gorz, Il lavoro debole. Oltre la società salariale, cit., pagina 25.
[xxvii] Cfr. A. Gorz, Addio al proletariato, cit., pagina 107.
[xxviii] Cfr. A. Gorz, Miseria del presente. Ricchezza del possibile, Manifestolibri, 1998.
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