Emanuele Leonardi, “Lavoro, natura, valore”
di Alessandro Visalli
Questo libro di Emanuele Leonardi[1], il cui sottotitolo è “Andrè Gorz tra marxismo e decrescita”, individua dei temi sui quali è necessario prendere posizione per collocare correttamente il discorso ambientale. Nella sua intenzione compie il difficilissimo tentativo di mettere in comunicazione l’area culturale, frastagliata e non omogenea ma certamente anti-marxista, della “decrescita”[2] con gli esiti dell’evoluzione dell’operaismo[3], con riferimento alla versione trontiana. Lo snodo è il progressismo, esplicito o implicito, e quindi l’atteggiamento verso lo sviluppo tecnologico e la società industriale. Ciò che rende pensabile il ponte, malgrado la grande distanza delle rive, è la valorizzazione, nel post-marxismo del recente operaismo, del ‘cognitivismo’, dei ‘commons’, nella migrazione progressiva dal concetto originario di “operaio massa”[4], a quello di “operaio sociale”[5], ed infine, nella versione negriana di “moltitudine”.
Leggere un libro, l’autore mi perdonerà, significa sempre ri-collocarlo entro il proprio universo di discorso, e dunque io lo collocherò esattamente al punto in cui termina, prematuramente, l’ultimo post sul fenomeno mediatico e sociale di Greta Thunberg[6]. E, magari, al punto di intersezione con questo post di Andrea Zhok, con il quale sono in accordo. Bisogna prendere le distanze “dall’ecobuonismo” liberale, in ogni e qualsiasi travestimento (di cui alcune versioni della “decrescita”, interpreti dello spirito borghese, sono espressione) ed inquadrare il superamento della crisi ambientale come parte, importante, dello sforzo di mettere in questione radicalmente quella che Leonardi chiama “logica del valore”, ovvero lo “spirito del capitalismo”. Nel post “Greta Thunberg”, lo squilibrio essenziale che ha consentito agli spiriti animali del capitalismo, in primo luogo incarnati nelle grandi imprese monopoliste finanziarie e non, di superare la crisi di accumulazione degli anni settanta, prolungandola e facendola pagare alle classi lavoratrici di tutto il mondo, è stato descritto, seguendone l’esteriorità, come sfruttamento di ‘periferie interconnesse’[7] nel sistema mondo.
Quindi come interconnessione subalterna di aree di ‘sottoconsumo’[8] e di ‘sovrapproduzione’[9]. Questi problemi sistemici si risolvono per via di mercato, tramite un lento adeguamento delle condizioni di produzione e degli stili di vita (quindi dei prezzi), fino a che i flussi andranno a terminare, essendo venuto meno il differenziale: è la soluzione liberale, ad esempio proposta nel recente lavoro di Branko Milanovic “Ingiustizia globale”. Oppure attraverso l’intervento pubblico, ovvero superando la “logica capitalistica” (di mercato), atteso il suo fallimento, con una “logica territorialista” (politica). Come sostenuto nel post su Greta, la “green economy”, con i suoi investimenti in qualche modo ‘forzati’ (o emergenziali), e l’attrazione di capitali su operazioni diffuse di manutenzione territoriale (ovvero di “economia circolare”[10]).
La “soluzione” liberale prevede di estendere il ‘sottoconsumo’ e la ‘sovrapproduzione’ gemelle, fino a che il primo determini le condizioni di eliminazione delle differenze salariali e di vita, incontrandosi per così dire “a mezza strada” con i paesi emergenti. In questa prospettiva il capitale continuerà a mediare tra i differenziali, traendo valore da questi. Il prezzo lo pagheranno le classi medie inferiori delle aree semiperiferiche (in occidente), ed il beneficio lo avranno le classi superiori, in posizione di sfruttare interconnessione e disponibilità di capitale[11]. Casomai la loro coscienza dolorosa sarà calmata con qualche dose di “acquisto solidale”, “bio-qualcosa”, cioè con quello che Zhok chiama “ecobuonismo”.
L’altra soluzione, promossa da una parte delle élite preoccupate per i venti di guerra e l’emergente instabilità politica, è di forzare il capitalismo, riavviando non una forma di “keynesismo militare” (in avvio comunque[12]) ma di “keynesismo ambientale”, spinto dalla dichiarazione di un’emergenza e dalla costruzione su questa di un’egemonia.
La posta di questo investimento “territorialista” è il controllo del mondo, ovvero l’attrazione ed impiego dei capitali mobili[13] che lo rendono instabile, e il loro impiego per guadagnare un superiore livello di efficienza (nel consumo di materia ed energia, ad esempio).
Ma, senza trascurare la logica di potenza incorporata in questa distrazione (ovvero il conflitto con altri mezzi, che va criticato e denunciato) come giustamente, sottolinea Zhok nel post prima citato è pure vero che: “Una volta presa distanza dall’ecobuonismo liberale, il tema ecologico presenta, per chi sia in grado di farsene carico con la dovuta radicalità, un’occasione unica per criticare il modello capitalista in forme di attualità e universalità oggi non facilmente raggiungibili per altra via. Nelle forme del degrado ecologico, la natura autodistruttiva di quella ‘sovranità dell’economico’ che risponde al nome di ‘capitalismo’ diviene intuitivamente manifesta”.
Questa sarà la traccia che seguiremo nella lettura.
Andare, però, oltre il “keynesismo ambientale” per porre la questione dell’uomo e della vita, come avevamo concluso, significa in primo luogo togliere le molte pietre che rendono sterile il campo.
Leonardi, che scrive nel 2017, parte a tal fine da una critica dell’Accordo di Parigi, quel COP 21 (radicalmente insufficiente a dire di tutti), che è al centro dell’attenzione mediatica di Greta. Ovvero muove dalla critica della ‘green economy’ in quanto del tutto coerente con la logica di mercatizzazione della natura, anzi continua ad essa, e della finanziarizzazione e reificazione del mondo. Si tratta della centralità di quel che chiama “il carbon trading dogma”[14]; l’idea che basti dare un prezzo al danno alla natura e questo sarà immediatamente riassorbito dal mercato; ci sarà, cioè, chi si vorrà guadagnare questo prezzo. Un poco come nello schema di risoluzione delle ineguaglianze di Milanovic: il mercato che ha creato il problema è anche la sua soluzione.
Per raggiungere il punto dal quale si può criticare questa logica[15], e dunque anche la parte insufficiente della posizione di Greta, bisogna però compiere un certo percorso ed averne l’ambizione. Secondo la proposta di Leonardi, dipendente da un’impostazione “post-operaista” (temperata), si tratta di comprendere intanto la differenza tra ‘lavoro entropico’ e ‘lavoro informazione’; quindi affermare la centralità di quest’ultimo nel modo di produzione contemporaneo (nel quale, ovviamente, il primo continua ad abbondare, ma è respinto ai margini sistemici[16]); criticare la logica del valore e conservare l’ambizione di superarla attraverso una società conviviale libera dal produttivismo che recupera le attenzioni, a metà tra marxismo e decrescita, di Andrè Gorz e Ivan Illich, ecc..
Leonardi è un erede della tradizione analitica dell’operaismo, la stessa tradizione dalla quale parte, allontanandosene, un autore coraggioso, ambizioso e altamente sfidante come Carlo Formenti ma prende una direzione diversa, rispetto al franco anti-progressismo e anti-modernismo di questo[17]; certo anche lui mette sotto il fuoco la necessità, inderogabile, di “superare gli elementi produttivistici del socialismo” (marxiano), perché la crisi della natura, ovvero della riproduzione[18] non è affatto esterna alla società ed alla politica, “ne è semmai il sintomo estremo, inaggirabile, l’ingiunzione cui non ci si può sottrarre, procrastinandolo” (p.38).
Un poco come le altre questioni settoriali ed identitarie[19], la questione ambientale, insomma, “non è autosufficiente”, ma va ancorata ad una critica generale del modo di produzione e riproduzione. La chiave che cerca l’autore è di trovare il modo di ridurre la pressione sulla biosfera grazie alla proliferazione delle attività di cura e quelle di produzione di conoscenza e società. Ovvero, come del resto sostiene appunto anche Formenti, l’idea è di sviluppare un discorso che la faccia finita con l’immaginario dello sviluppo (sia anche “sostenibile”) e sia capace di “tirare il freno”. Sotto certi profili assomiglia all’idea che aveva Keynes nella sua conferenza del 1930, “Prospettive per i nostri nipoti”, quando per effetto di una moltiplicazione di otto volte della ricchezza disponibile (siamo quasi giunti) immaginava che i “bisogni relativi” (quelli di distinguersi, che sono inesauribili in quanto ordinano la società), potessero essere riconsiderati oltre l’accumulazione verso il “vivere bene, piacevolmente e con saggezza”, riducendo l’orario di lavoro socialmente necessario a tre ore al giorno, mentre il desiderio di mero accumulo di valore andrà incontro allo stigma sociale che merita[20]. Con le sue parole: “rivaluteremo di nuovo i fini sui mezzi e preferiremo il bene all’utile. Renderemo onore a chi saprà insegnarci a cogliere l’ora e il giorno con virtù, alla gente meravigliosa capace di trarre un piacere diretto dalle cose, i gigli del campo che non seminano e non filano” (Citazione di Keynes da Matteo 6, 24-34).
Un testo, commovente nella sua ingenuità (o nella sua inattualità) che ne ricorda un altro del 1875:
“in una fase più elevata della società …, dopo che è scomparsa la subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto fra lavoro intellettuale e fisico; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora l’angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!” (Karl Marx, Critica del Programma di Gotha, 1875)
Leonardi riconosce, in un primo solco sul terreno da arare, che qualche pietra può anche essere utile, e che quindi tra “ricchezza”[21], che caratterizza l’espansione della dotazione di beni, materiali ma soprattutto immateriali, e il “valore”[22], che è l’espansione quantificabile e soggetta allo scambio di mercato c’è un qualche reciproco rafforzamento. Ovvero che nel crescere del ‘valore’ si dà anche una certa crescita di ‘ricchezza’[23], e che in questo effetto secondario riposa “l’elemento migliorativo del capitale”. La via di uscita, anche per lui come per Marx e Keynes, è quindi “verso l’alto”, attraverso la produzione di ricchezza, non attraverso il pauperismo. Ma questo elemento migliorativo non è dovuto ad una logica immanente del capitale (o meglio della interazione tra capitali), bensì, in linea con uno dei nuclei paradigmatici dell’operaismo, “emerge come esito delle lotte dei subalterni per una distribuzione meno unidirezionale del valore da essi stessi prodotto”.
C’è dunque una sorta di “lato progressivo” del capitale, ma in qualche modo malgrado esso. Per cui fino agli anni settanta si sarebbe verificata una sovrapposizione, parziale ma significativa, tra valore e ricchezza, ma la crisi energetica sarebbe intervenuta a rompere la convergenza. Certo, dentro un evento ce ne sono sempre altri (e lo shock petrolifero è successivo alla rottura dello schema d’ordine di Bretton Woods e al rovesciamento che questo comporta sui molti piani geopolitico, economico, e socio-politico), ma la tesi, ripresa da Illich[24] è che in quella circostanza si è superata definitivamente la soglia di controproduttività. e l’ulteriore intensificazione della produzione da allora comincia a creare scarsità (in due forme: ineguaglianza, ovvero ‘scarsità relativa’, e deterioramento ambientale, ovvero ‘scarsità assoluta’). E’ questa una tesi che potrebbe essere scritta in altra forma, e soprattutto che dal 1974 ad oggi guadagna una diversa e maggiore comprensione, in relazione almeno a due fattori: in primo luogo l’esperienza della mondializzazione, ascendente e quindi, in questi anni, discendente, fornisce una comprensione maggiore della prima scarsità; in secondo, l’evoluzione delle tecnologie ambientali fornisce un, sia pure parziale, disaccoppiamento (insieme all’automazione ed alle forme di produzione post-fordiste che nel 1974 non erano visibili) tra produzione e consumo di ambiente naturale. Leonardi, non senza qualche ragione, è molto scettico su quest’ultimo punto soprattutto, credo, perché si presta ad essere diretto dal capitale.
Su questo complesso crinale nasce l’interesse di Emanuele Leonardi per un pensatore importante ed atipico, anche trasversale[25] come Andre Gorz. Si tratta di allargare lo sguardo: da una parte sono focalizzate le “lotte al punto di produzione” (per democratizzare i luoghi e le distribuzioni), e dall’altro le “lotte al punto di riproduzione” (della natura e dell’umano, ovvero i movimenti come l’ambientalismo, il femminismo, etc.). Per la prospettiva gorziana la questione ambientale non è quindi autosufficiente, non è esterna ad economia, società e politica, e include una crisi del produttivismo occidentale, in un necessario progetto globale di trasformazione della società e di rottura della logica del capitale[26].
Lo studio muove, come detto, da una rivendicata prospettiva ‘operaista’, e specificamente utilizza del bagaglio metodologico trontiano il concetto di “composizione di classe” e l’ipotesi che non sia lo sviluppo capitalistico a determinare, come reazione, le lotte operaie; ma, viceversa siano queste a determinare, come reazione, lo sviluppo del capitale[27]. Ne deriva l’ipotesi centrale nel post-operaismo che il lavoro (salariato) addetto alla produzione, e quindi connesso all’operaio massa industriale, abbia un carattere entropico, mentre il lavoro cognitivo sviluppi almeno potenzialmente un carattere neghentropico “simultaneamente espresso e occultato in dispositivi quali la green economy e il carbon trading dogma” (p.47). Si tratta del portato ultimo, o della trasposizione, della ipotesi che il “capitalismo immateriale”, ovvero abbastanza banalmente il processo di terziarizzazione della struttura economica occidentale, avviata negli anni settanta, in uno con lo smontaggio del fordismo e la ritirata del welfare, in particolare dal momento della esplosione della “New Economy” (un fenomeno di assorbimento di capitali in eccesso) a cavallo del passaggio di millennio e della occupazione commerciale della rete, di pochi anni successiva, sia tanto più portatore di ‘valore’ quanto più è leggero in termini materiali e denso di informazione e conoscenza. Questa influente e fortunata tesi, portata dai propagandisti del neoliberismo, insieme alla “Società a costo marginale zero”, propagandata da ultimo da Rifkin, farebbe venire meno l’idea di scarsità, e promuoverebbe per sua natura la collaborazione. Con questa utopia digitale, fragorosamente contraddetta dai fatti solo dopo pochissimi anni, passa l’idea che il lavoro (immateriale) sarebbe in grado di generare cooperazione sociale ed autonomia dal comando capitalistico, e passa quella che in conseguenza i prodotti assumono forma di commons[28]. Dunque oggi il “general intellect”, non è tanto nel sistema totale delle macchine, e quindi nel “lavoro morto”, come si può leggere nel “frammento”, ma nella cooperazione sociale spontanea e nella produzione di “sapere vivo”, che ne deriva.
Per sviluppare questa tesi, del carattere neghentropico del ‘lavoro cognitivo’, sulla quale torneremo, vengono ripresi elementi della critica marxiana, in particolare il carattere progressivo della logica del valore e l’influenza civilizzatrice del capitale nei “Grundisse” e da Jason W. Moore, un sociologo che fu allievo di Giovanni Arrighi, è riletta la critica del dualismo cartesiano ed il concetto di “natura sociale astratta”[29]. Questa trasformazione, di cui il meccanismo del “Carbon trading” è espressione e simbolo, è in realtà per Leonardi in continuità con il ‘ciclo di espansione dissipativo’ del fordismo-keynesismo, probabilmente in quanto adattamento e continuità della ‘tecnomacchina’ e quindi dell’espansione del dominio del “lavoro morto”.
Ovvero, in una prima fase (‘fordista’) il ciclo, preordinato alla valorizzazione del capitale nel quale le lotte operaie erano state incorporate e in qualche modo funzionalizzate (quindi il dispositivo entropico della produzione e del consumo), si è legato al compromesso del welfare le cui condizioni di tenuta erano la crescita sostenuta[30], e la particolare subordinazione ed organizzazione del welfare. In una seconda la risposta all’esaurimento delle condizioni di valorizzazione del capitale, al termine della ‘doppia crisi’ (1968-73) degli anni settanta, cui partecipa anche la denuncia dei “limiti dello sviluppo”, interviene attraverso una “politica di classe dall’alto” che ripropone su scala mondiale quei rapporti di produzione, e dissolve (o meglio traspone) quell’operaio-massa, che non riesce più a domesticare efficacemente in occidente. La mondializzazione è effetto di questa mossa[31].
La società salariale, entrata in crisi, esce, insomma, “a marcia indietro” e la valorizzazione capitalistica ottiene di svincolarsi sempre più dal tempo di lavoro come propria unità di misura.
In un certo senso era anche la tesi sostenuta nella parte ricostruttiva di “Greta Thunberg: la posta egemonica e lo scontro per il mondo”.
Come scrive Leonardi, quindi:
“Con la retorica della green economy la crisi ecologica diventa pensabile anche come terreno di sviluppo capitalistico e non soltanto come punto di blocco, puro costo, effetto collaterale indesiderato ma necessario. Le cause di questo passaggio vanno ricercate in fenomeni quali la cognitivizzazione del lavoro e la finanziarizzazione dell’economia -alla cui base sta il divenire produttivo della sfera di riproduzione sociale- i quali a loro volta derivano dalla maturazione della composizione di classe nel corso degli anni settanta e ottanta” (p.101).
È quel che identifica come un nuovo nesso lavoro-natura, basato “sullo sfruttamento di nuove tipologie di lavoro, non necessariamente salariato - lavoro cognitivo e/o riproduttivo [della natura], lavoro risucchiato nei vortici finanziari”. Un lavoro di cui è espressione specifica la ‘green economy’; che però, sembra di capire, per sviluppare realmente il proprio potenziale, e garantire la riproduzione della natura, deve necessariamente andare oltre la logica della valorizzazione. Ovvero deve andare oltre il capitalismo, sostituendo la logica della “ricchezza” a quella del “valore” (la prima storicamente limitata, la seconda strutturalmente illimitata) e quindi “ridurre il metabolismo sociale”, oggi spinto da un astratto motore del tutto indifferente ai tempi e le forme metaboliche della riproduzione, che sono, al contrario, sempre concrete.
L’idea è, in un certo senso, di “ribadire in senso ambientalista il nucleo teorico dell’operaismo”, come si vede un disegno ambizioso.
“Affrontare il tema di una nuova, possibile articolazione del nesso lavoro-natura-valore, al di là di ogni determinismo. Tale articolazione va dunque pensata (e agita) sia tenendo presenti le dinamiche tendenziali dello sviluppo capitalistico che ne stanno alla base, sia non perdendo di vista il terreno di potenziale emancipazione da essa dischiuso. Il fatto che tale potenziale sia oggi mistificato dalle retoriche della green economy non deve oscurare il fatto che la condizione operaia contemporanea – disseminata – trova in esso l’opportunità di esprimersi sulla composizione qualitativa della produzione al di là della logica del valore. Insomma, l’operaio diffuso che ancora abita i territori produttivi – segnati dai processi di moltiplicazione del lavoro – deve poter prendere parola riguardo al cosa, come e dove produrre, non sulla base della minaccia catastrofista ma su quella del diritto inalienabile alla costruzione di un futuro desiderabile (anche dal punto di vista ambientale).
Ciò significa che nel divorzio crescente tra logica del valore e logica delle ricchezze trovano spazio contemporaneamente l’approfondimento dello sfruttamento deregolamentato e le pratiche (da costruire e consolidare politicamente) di nuove liberazioni del e dal lavoro. Nessuna necessità, dunque, solo scenari la cui effettiva realizzazione sarà l’esito della lotta di classe nel XXI secolo – lotta di cui la crisi ecologica è parte integrante” (p.107).
Qui si collega alla classica, per la tradizione operaista, lettura del “frammento delle macchine” e della conoscenza come forza produttiva, l’intellettualità diffusa e la “produzione di conoscenze a mezzo di conoscenze”. Ma anche alla cattura, la messa a valore, del non lavoro e della cooperazione sociale, fino a l’intera esistenza. Ipotesi generose, che sono sottoposte alla critica di Formenti, che sottolinea la capacità del nuovo sistema, della “accumulazione flessibile”, di “sovradeterminare non solo l’organizzazione, ma la stessa antropologia del lavoro”[32].
Certo la famosa ipotesi di Gorz, che l’economia della conoscenza, proprio in quanto tale, ovvero fondata su un bene non scarso, che anzi tanto più si estende e riproduce, quanto più abbondante e gratuito, sia per sua natura portatrice di un’incompatibilità con la mercificazione e quindi mini la stabilità del capitalismo e della valorizzazione, era ottimista e Leonardi lo sa. Oggi essa non può essere riproposta, davanti allo spettacolo dell’economia delle piattaforme[33] e le altre forme di taylorismo digitale[34], spietato quanto non mai. Ma, pur riconoscendo ciò, per Leonardi non bisogna gettare il bambino con l’acqua sporca; la tensione rimane, solo, essa non si dispiega per vie interne, necessarie e naturali, bensì solo rischiando lotte contingenti.
Lotte che devono coinvolgere anche la ‘green economy’, nel momento in cui questa si sforza di connettere capitalismo e natura attraverso la tradizionale mossa di dargli un prezzo, quindi di trasformare la natura stessa in merce astratta e de-politicizzare la decisione pubblica attraverso un meccanismo automatico (p.144).
Si diceva della necessità di ‘ridurre il metabolismo sociale’: è seguendo questa idea che viene ripreso il dibattito, difficile, tra marxismo e decrescita. La proposta scaturisce dalla discussione di questa (p.163), dal fantasma del socialismo reale, e della riduzione di Marx al paradosso produttivista (p.167), e dalla “via catalana alla decrescita”: limiti, cura, depense.
Fermiamoci dunque un attimo: la “decrescita” è un vasto movimento anti-sistemico che prende forma negli anni settanta, con radici nella controcultura beat, ma ha una relazione diretta con la mobilitazione sessantottina. Il primo utilizzo del termine si deve ad Andre Gorz in un dibattito nel 1972, con riferimento al Report del Club di Roma. Si può dividere in cinque correnti: la bio-economia di Nicholas Georgescu-Roegen; la critica alla tecnica di Jacques Ellul; la critica allo sviluppo di radice culturalista di Ivan Illich; l’ecologia politica di Andre Gorz; il terzomondismo di Francois Partant. Si tratta di linee di ricerca e tensione, con l’eccezione di Gorz, piuttosto esterne ed indifferenti al contesto di critica marxista.
Questa linea di critica si è occupata di riproduzione, come il femminismo, ma, come ricorda Riccardo Bellofiore citato da Leonardi, tutti questi movimenti “rifiutano di riconoscere il proprio coinvolgimento nella valorizzazione – in altri termini, la propria implicazione con il ‘nuovo’ nesso lavoro-natura-valore” (p.164); quello dell’economia della conoscenza nella divisione del lavoro centro-periferia incorporata nel ‘sistema mondo’ di cui abbiamo parlato all’avvio. Il rapporto tra lavoro ed ecologia (ma anche, direi, quello lavoro e femminismo, o lavoro e identità di genere estesa) va quindi indagato dentro la composizione di classe e nella dialettica tra lavoro entropico e neghentropico.
La ‘decrescita’ si ripresenta, dopo l’eclissi seguita alla crisi energetica, a seguito del movimento altermondista tra Seattle 1999 e Genova 2001. Il suo limite è aver ricondotto, in modo liquidatorio, l’intera tradizione socialista e marxiana al “paradosso produttivita”. Ne sorgono posizioni, come alcune di Serge Latouche, francamente non seguibili[35], e che Leonardi, infatti, non segue.
La sua ipotesi di lavoro è, al contrario, di recuperare il rapporto tra le istanze della ‘decrescita’ e il nesso valore-lavoro e quindi la tradizione marxista.
Questo sforzo viene compiuto, dopo il 2008, dalla cosiddetta “via catalana”, di cui è espressione “Ecologia dei poveri”, di Joan Martinez Alier, che distingue un “ecologismo dei ricchi”, quello dei parchi nazionali, dei giardini di corte, del sano e bello, e quella “dei poveri”, che chiede insieme giustizia sociale ed ambientale, lottando non per ricreazione e contemplazione, quanto per le basi materiali di sostentamento, condizioni naturali della propria riproduzione. Di qui l’attenzione al “limite”, ovvero auto-limitazioni collettive, con una certa tendenza a recuperare la tradizione del regionalismo (ovvero della autosufficienza per piccole unità territoriali e sociali)[36]; “cura”, ovvero la centralità dei lavori di riproduzione; “depense”, la riduzione del surplus e il suo utilizzo comunitario anziché per l’accumulazione.
Una posizione simile, mi pare, ha una carica utopistica di grandissimo momento ed è contemporaneamente altamente problematica, quanto a senso proprio, nelle condizioni del ‘sistema mondo’ attuale, e, se ha ragione Andre Gunder Frank nelle sue ultime riflessioni, consustanziale allo stesso sviluppo umano. Io credo che Frank non avesse ragione, e propendo più per la visione di Arrighi, ma comunque retrocedere, fisicamente e strutturalmente, a livelli di complessità sociale e tecnica tali da potersi coordinare senza tecnostrutture politiche (a scala di municipi, o di grandi aree urbane, connettendosi magari con il movimento delle ‘città ribelli’ ed il ‘neo-municipalismo’) è irrealistico e indesiderabile. Rileggendo “Limite”, di Latouche, certo un autore lontano dal marxismo, si vede una versione particolarmente netta di questa non-soluzione: Il limite significa, infatti, riterritorializzare; transitare nelle bioregioni nelle quali non ci siano scambi esterni significativi (né di merci né di uomini) se non nella forma di una diplomazia rispettosa. Aree limitate nelle quali, solo, può funzionare la democrazia che -per l’autore francese- richiede necessariamente piccole dimensioni ed elevata omogeneità. Una concezione sostanzialistica della comunità contro la quale, ad esempio, non cessano di opporsi autori influenti come Habermas e Bauman (per citarne solo due). La riterritorializzazione della vita è proposta invece come una necessità ed una posizione prudente. Anziché “lanciarsi nel tuffo vertiginoso e arrischiato dell’ignoto” (L. p. 26).
L’ambizione di Leonardi è di connettere queste posizioni, che nella versione dell’ex economista francese si riferiscono ad una letteratura anti-illuminista ben precisa[37], con la tradizione neo-operaista e la sua tecnofilia fondata sul lavoro cognitivo e il ‘general intellect’, che sfuggirebbe alla maledizione della scarsità. Unire in qualche modo un utopismo venato di toni reazionari con un tecnottimismo piuttosto contraddetto dai fatti.
Oppure, in altri termini, la più radicale “disconnessione” dal sistema mondo (quindi la cessazione di ogni forma politica sovranazionale e probabilmente anche nazionale, o la sua ridefinizione come struttura iperleggera[38] che connette unità di natura “organica”).
Certo questo nodo non appare affrontato nel dettaglio in un testo che, in fondo, si propone solo di togliere le pietre e non di arare.
Ma l’idea di “ridurre il lavoro entropico” (ovvero quello produttivo), e per esso l’organizzazione tecnica che rende possibile l’intensità energetica, funzionale, infrastrutturale che lo rende produttivo, per favorire il “lavoro neghentropico”, ovvero “cognitivo”, è molto poco differenziata. Occorrerebbe separarsi radicalmente, più che unirsi (la questione che fa ostacolo è la competizione e per essa il potere), e quindi un radicale impiego di autorità. Ricorda, effettivamente, una lunga e importante tradizione, ben più che secolare, come abbiamo cercato di mostrare nella nota su John Friedman, tuttavia non è facile farsi una idea concreta del modello di società funzionante per sette miliardi di persone cui si pensa. Cioè non è facile farsi un’idea della generalizzazione del modello.
Il richiamo alle lotte “altermondialiste”, dei movimenti indigeno-contadini africani, asiatici e latino americani, delle teorizzazioni di Vandana Shiva, per dire, degli indignados e della presunta ‘sperimentazione municipalista napoletana’ (che a me non appare poi così sperimentale), fa un insieme instabile e complesso.
Poi, è vero, Leonardi dice che “converrà essere chiari: non si tratta di indulgere in improbabili mitologie premoderne”, ma non è chiarissimo come uscirne, almeno a me. Soprattutto quando nelle conclusioni, certo provocatoriamente, ma in modo strategico nell’ambito del discorso fatto, sostiene che, come nel XX secolo si diceva che il progresso aveva sempre ragione, anche quando sbagliava (per cui, per dire, Cortez massacrando gli indigeni e antiche civiltà comunque faceva il bene della Storia), nello stesso modo oggi bisognerebbe dire che “le lotte socio-ecologiche hanno sempre ragione, anche laddove alcune loro valutazioni dovessero rilevarsi approssimative”.
La ragione sarebbe che oggi è venuta meno la sovrapposizione, almeno parziale tra la “logica del valore” (ovvero capitalista) e quella delle “ricchezze” (cioè dell’uso socialmente appropriato), oggi “il loro crescente divorzio si pone all’osservatore come auto-evidenza” e dunque “l’intervento politico sulle forze produttive è diventato un elemento essenziale dei rapporti sociali di produzione” (p.200). Sarebbe, in altre parole, ormai l’intero modello di sviluppo che richiede treni ad alta velocità a non avere più nulla a che vedere con l’idea di benessere.
Tutto sommato, se l’esito è che occorre recuperare “la centralità della mediazione politica tra istanze originariamente incommensurabili” (p.201), anche contro le troppo semplicistiche ipotesi ‘accelerazioniste’ per far valere la “logica delle ricchezze” senza abbandonarsi ai meccanismi automatici ed al relativismo culturale, si può essere d’accordo. Se è più di questo andrebbero comprese ed accettate le premesse implicite.
Come si vede di pietre dal campo ne vanno tolte davvero molte.
Questo è un inizio.