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manifesto

 AZZARDI CLIMATICI

Quel rischio a misura di un pianeta precario

ambienteMa il clima e l'economia sono realtà in cui opera l'incognita dei rapporti sociali. La sua irruzione nell'agire collettivo restituisce la pregnanza politica tanto del degrado ambientale che della gestione del bilancio pubblico Un percorso di lettura che mette a confronto i modelli di previsione dei mutamenti climatici e dell'andamento dei conti pubblici. Entrambi possono essere usati per elaborare condizioni di equilibrio nel breve, ma non nel lungo periodo

Luigi Cavallaro

«Facciamo un lavoro precario in un pianeta a rischio oppure il pianeta è precario perché il lavoro è a rischio?». Il dilemma lucidamente (e genialmente) sintetizzato in una vignetta di Pat Carra, pubblicata su questo giornale il 10 novembre scorso, non sembra aver suscitato particolare attenzione, almeno a giudicare dagli interventi che da allora in poi si sono succeduti su queste pagine in merito alla «questione ambientale». Eppure, è un dilemma centrale: dalla sua risoluzione, infatti, dipende la nostra possibilità di porre finalmente la questione ambientale come problema politico e sbarazzarci di quell'attitudine neoluddista di cui l'hanno ricoperto frotte di profeti di sventura, ai quali va una responsabilità non secondaria nel perdurare di una situazione che vede l'ambiente ridotto al rango di «questione tematica» o di «problema trasversale», come notava su queste stesse pagine Roberto Marchesini l'11 marzo scorso.

Proviamo allora a prendere sul serio il dilemma di Pat Carra, e chiediamoci anzitutto: cosa significa «rischio»? In senso tecnico, il rischio è la probabilità che un dato evento, che comporta danni per persone, animali o cose, si verifichi in un tempo definito. Poiché la sua misura si ottiene moltiplicando la probabilità dell'evento considerato per l'entità del danno che esso produce, ogni discussione intorno ad un qualunque rischio presuppone che si disponga di un modello teorico in grado di spiegare, sulla base di certe assunzioni ed ipotesi, il comportamento del sistema fisico e/o sociale di cui quell'evento è, propriamente parlando, «elemento». Diversamente, non potremmo mai «predire», ad esempio, che entro il 2100 il livello del mare crescerà da 18 a 59 centimetri e le temperature si innalzeranno fino a 4 gradi oltre le medie attuali, come affermato dal Rapporto 2007 dell'Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc). Né che eventi del genere potrebbero generare perdite economiche comprese fra lo 0,1 e lo 0,5 per cento del Pil, come pronosticato dall'Istituto per lo sviluppo economico di Kiel. 

 


Le equazioni dell'equilibrio termico


Di solito, i modelli teorici sono espressi in forma di strutture algebriche. Il loro compito è quello di descrivere in modo semplificato certi gruppi di fenomeni attraverso un insieme di relazioni quantitative fra variabili esogene e variabili endogene, e in ultima analisi di aiutare il ricercatore a trovare le quantità ignote tramite le loro correlazioni funzionali con le variabili note.

Assai spesso, poi, i modelli sono costruiti intorno a problemi di equilibrio. Per ciò che riguarda il clima, ad esempio, il problema si presenta in questa forma: dato che, a livello globale, l'energia solare assorbita dalla Terra dev'essere uguale a quella emessa (altrimenti avremmo un surriscaldamento) e dato che le regioni comprese fra l'Equatore e i Tropici assorbono energia solare in eccesso rispetto a quella che emettono (il contrario accade per le regioni fuori dai Tropici), in che modo la circolazione atmosferica e quella oceanica conducono, globalmente e localmente, allo stabilirsi dell'equilibrio termico?

È interessante osservare che in modo non dissimile, da Walras in poi, gli economisti neoclassici impostano il problema dell'equilibrio economico generale. Nel sistema economico, essi dicono, esiste una pluralità di soggetti, che scelgono di offrire i beni e i servizi di cui dispongono e di domandare quelli che desiderano sulla scorta di «preferenze» date e in vista dell'ottenimento di una posizione individuale di «massimo». Posto che si può scegliere tra mezzi e fini intrinsecamente differenti solo supponendo che gli uni e gli altri vengano resi confrontabili attraverso il prezzo che si forma sul mercato, e dato che ogni prezzo è, ad un tempo, il parametro sulla cui base ciascun soggetto economico effettua le proprie scelte e la risultante delle scelte da ciascuno effettuate, in che modo - concludono gli economisti - si stabilisce un equilibrio tale che la posizione di ciascuno non possa essere migliorata senza al tempo stesso peggiorare quella di qualcun altro?

Si noti che l'analogia fra i modelli climatici e quelli economici non si ferma qui. Un'altra caratteristica comune è il loro impiego per fini di previsioni a lungo termine. Nei modelli di circolazione generale, ad esempio, le equazioni che regolano la temperatura e i movimenti dell'atmosfera terrestre sono risolte mediante l'ausilio di potenti reti di computer, le quali vengono «inizializzati» attraverso il caricamento dei dati relativi alla misura delle variabili conosciute (vento, temperatura, umidità, pressione superficiale) e, tramite i complessi algoritmi che vi sono implementati, sono capaci di fornire previsioni anche a mesi o anni di distanza - fino al 2050 o al 2100, appunto.


Le variabili che tengono banco


Gli economisti non sono da meno. In un libretto da poco edito dal Mulino, un pool di economisti diretti dal compianto Riccardo Faini ha formulato, su incarico dei segretari dell'Unione, accuratissime previsioni sull'evoluzione dei nostri conti pubblici di qui al 2050. La procedura è la stessa: il modello teorico che descrive - o si suppone che descriva - le relazioni tra le variabili ritenute rilevanti (deficit, debito, tassi d'interesse, Pil) viene «inizializzato» con i dati della Ragioneria generale dello Stato «sull'incidenza delle spese legate al processo di invecchiamento» e otteniamo - spiegano gli autori - «l'evoluzione del saldo primario negli anni successivi fino al 2050», s'intende «assumendo a tal fine che tutte le altre voci - entrate totali, spese non legate all'invecchiamento - non si modifichino in proporzione al Pil rispetto al loro valore iniziale».

Il risultato della simulazione (il rapporto debito/Pil attestato al 120%, perfino nel caso che i tassi d'interesse dovessero aumentare di appena un punto percentuale rispetto ai valori attuali) è stato ritenuto talmente attendibile da ispirare non solo il governo Prodi nel varo della manovra restrittiva consegnata alla Finanziaria 2007, ma anche il Governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, nella sua recente sortita alla riunione del Fondo monetario internazionale sull'ammontare «pericolosamente elevato» del nostro debito. Esattamente come le previsioni dell'Ipcc, i cui tetri pronostici sull'evoluzione del clima nei prossimi cento anni hanno tenuto banco nelle prime pagine dei giornali le scorse settimane.

Così stando le cose, non c'è da meravigliarsi che una critica severa (quanto infondata) all'appello per la stabilizzazione del debito pubblico, promosso l'estate scorsa dagli economisti della Rive Gauche, sia apparsa su questo giornale per opera di tre illustri esponenti del movimento ambientalista: chi parla lo stesso linguaggio (teorico) è destinato prima o poi a incontrarsi e a riconoscersi.

Per fortuna, le cose non sono così semplici. Guido Visconti, che essendo uno dei nostri maggiori climatologi di queste cose ne capisce, si è chiesto ad esempio perché mai, se oggi la scienza non è in grado di spiegare le variazioni climatiche che sono avvenute in passato, dovremmo essere diventati improvvisamente capaci di annunciare previsioni di qui a un secolo. Una domanda del genere, per parte nostra, gireremmo volentieri agli economisti allarmati per i «conti a rischio» (e ai politici che gli corrono dietro). Intendiamoci, non è che abbiamo qualcosa contro il concetto di «previsione»: una scienza non può non essere predittiva. Il fatto è che c'è una differenza essenziale fra la previsione di specifici stati del sistema climatico (o del sistema economico) e la previsione di tipo statistico che individua la probabilità che si verifichi un particolare stato climatico (o del sistema economico).

Un conto, dunque, è una previsione che concerne eventi che possono verificarsi su scale temporali ravvicinate o «medie»: un fenomeno aperiodico come El Niño, per esempio, si riesce ormai a prevedere con l'anticipo di una stagione, esattamente come i movimenti della nostra bilancia dei pagamenti di qui a sei mesi. Un altro conto sono le previsioni su scale temporali lunghe, come anni o decenni: di fatto, sono praticamente impossibili. Anch'esse, come le prime, dipendono infatti dalla conoscenza delle condizioni iniziali, ma se ne differenziano perché gli errori ascrivibili alla necessaria approssimazione delle misurazioni iniziali non sono ovviamente suscettibili di correzione. Ciò implica che l'errore iniziale verrà via via «sviluppato» dall'algoritmo fino a quando il sistema perderà «memoria» delle condizioni iniziali e, di conseguenza, la previsione del suo stato futuro risulterà totalmente insensata.

Per ciò che riguarda il clima, la ragione di fondo è data dal carattere «caotico» dell'atmosfera: se così non fosse, il comportamento meteorologico di ciascun anno sarebbe identico a quello degli anni precedenti e perfino gli uragani seguirebbero sempre lo stesso cammino. Ma un problema analogo affligge le speculazioni sull'«insostenibilità» del nostro debito pubblico. Già Keynes aveva avvertito che non possiamo avere alcuna idea sensata di quale possa essere la «probabilità» di una guerra o del prezzo del rame o del tasso d'interesse di qui a vent'anni: «Noi semplicemente non sappiamo». Per di più, avendo completamente dimenticato la lezione keynesiana circa le relazioni fra il disavanzo pubblico e la crescita economica, la credibilità delle previsioni dei nostri supposti «esperti» circa lo stato dei nostri conti pubblici non è dissimile da quella di quei «sensitivi» che dai teleschermi pronosticano l'estrazione dei numeri del lotto. Come spiegare altrimenti il fatto che, nel bel mezzo dell'allarme sui «conti a rischio», ci siamo improvvisamente trovati a disporre di un cospicuo «tesoretto»?


Un futuro da pianificare


Il vero è che, come ha spiegato Keynes, quanto più in avanti proiettiamo il nostro sguardo, tanto più il concetto di «rischio» lascia il posto a quello di «incertezza». Dire che un evento è incerto significa appunto dire che non possiamo calcolare alcuna misura plausibile della probabilità che esso si verifichi o meno nel periodo considerato, non foss'altro perché nemmeno i fisici possono più scommettere sull'«invarianza» delle relazioni espresse nei modelli con cui operano, figuriamoci i climatologi o gli economisti.

D'altra parte, sostenere la difficoltà (o l'impossibilità) della previsione a lungo termine non significa in alcun modo rassegnarsi a «lasciar fare», si tratti di Gaia o del sistema economico. Keynes diceva che solo agendo come collettività possiamo sopperire alla nostra ignoranza come individui e il nostro Bruno de Finetti suggeriva che l'unico modo per ridurre l'incertezza consistesse nell'adozione di un punto di vista «lungimirante», in cui un ruolo essenziale doveva avere l'adozione di «un insieme di misure per la sicurezza sociale»: «si tratta di scegliere il futuro programmandolo, non di lasciarlo sviluppare secondo supposte leggi dinamiche che rinunciamo a dominare».

È questo, crediamo, l'unico modo per sciogliere in modo politicamente proficuo il dilemma posto da Pat Carra nella sua straordinaria vignetta. I cambiamenti sociali sono di gran lunga più importanti dei cambiamenti climatici: secondo alcune stime, se anche non dovessero aver luogo gli sconvolgimenti meteorologici preannunciati di qui al 2100, basterebbero i semplici cambiamenti sociali (in termini di espansione e concentrazione e demografica in territori «vulnerabili») a elevare i costi dei fenomeni «estremi» del tempo da 60 a 100 volte rispetto al loro valore odierno. Piuttosto che preoccuparci del «rischio ambientale», che non si può calcolare, dovremmo perciò preoccuparci della nostra «vulnerabilità sociale», di cui la precarietà del lavoro è la manifestazione indubbiamente più «estrema». E sotto questo profilo, ha certo ragione Visconti a suggerire che bisognerebbe dare «meno soldi alla modellistica del clima e molti di più alla pianificazione».


L' incerta sostenibilità


Ma i «conti a rischio»? È possibile «pianificare» con un debito pubblico al 100 per cento del Pil? Sì. Come ha spiegato Keynes, il debito pubblico non è nient'altro che una speciale forma di «moneta», grazie alla quale la collettività è posta in condizione di influire politicamente sulla misura e soprattutto sulla composizione del reddito nazionale, invece che limitarsi a prelevare e ridistribuire il reddito prodotto dalle imprese. Ne segue che non solo è teoricamente errato porre il problema della «sostenibilità» del debito senza al contempo valutare gli effetti positivi che il debito stesso ha sul prodotto nazionale, ma soprattutto che la stabilizzazione del debito in rapporto al Pil è l'unica misura possibile se vogliamo stabilizzare l'ampiezza del ruolo economico dei pubblici poteri in rapporto al reddito sociale complessivo.

A quanti poi dovessero ancora obiettare che stabilizzare il debito non serve, ché il problema ambientale (come ogni problema concernente la composizione del prodotto sociale) non è un problema di domanda ma d'offerta, replicheremmo con le sagge parole di Federico Caffè: «Senza lo strumento logico della domanda globale e della sua manovra, come potremmo affrontare i problemi selettivi dell'offerta che (nella sfera dei fenomeni demografici, della produttività, delle fonti energetiche, dell'alimentazione) si manifestano nel mondo contemporaneo?».

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