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Cosa va a fare l’Italia in Niger?

di Redazione

Gentiloni ha annunciato alla vigilia del Natale, in sordina ed in mezzo alla distrazione dei regali natalizi, l'intervento in Niger. Ma la reazione politica al momento non è stata incisiva e si perde nella solita retorica dell'intervento umanitario per stabilizzare il paese. Ma la verità è un'altra

francesi nigerL’annuncio dell’intervento italiano in Niger, fatto da Gentiloni su una portaerei, ha colto di sorpresa solo gli osservatori più distratti. La scorsa estate, nel periodo del giro di vite Minniti sugli sbarchi dalla Libia, il governo del Niger era già stato accolto a palazzo Chigi. Motivo ufficiale: una serie di discussioni, e di richieste di finanziamento da parte del paese africano, legate alla questione del contenimento dei flussi migratori. Minniti infatti, all’epoca (e non solo), sosteneva che le frontiere della Ue coincidessero con la Libia e che, proprio per quello, rafforzare la vigilanza in Niger avrebbe significato un alleggerimento dei problemi alla frontiera libica.

Naturalmente l’ovvietà di un Niger devastato dalle crisi idriche (si veda qui) e quindi produttore di immigrazione di massa in fuga verso l’Europa, è ufficialmente negata. Perchè per evitare tragedie nel Sahel, legate alla fuga dai territori, basterebbe intervenire sulle crisi idriche, favorendo le naturali economie locali, e non immaginare di creare fortezze da fantascienza. Se però andiamo a vedere la vastità della crisi idrica che tocca il Niger vediamo che non comprende il solo paese in questione.

Ma anche tutta la zona del Sahel, la grande fascia subsahariana che va da ovest (Mauritania) a est (Eritrea), ne è coinvolta. E spesso le zone toccate dalla crisi idrica coincidono con quelle di quella che viene genericamente chiamata guerriglia islamica. E’ il caso, appunto del Niger e del Mali, oggetto di intervento francese a inizio 2013.  Entrambi i paesi sono sotto, diciamo, protezione francese. Il che significa che Parigi interviene, quando la crisi economica e politica precipita, per “stabilizzare” economia e situazione politica del paese e far valere gli interessi francesi. La novità è che, stavolta, anche l’Italia interviene su quel terreno, storicamente francese di intervento nell’Africa subsahariana. Vuoi perché la Francia ha bisogno di alleati sul campo, per una operazione militare complessa, vuoi perchè, dopo una serie di frizioni economiche tra i due paesi l’estate scorsa, gli interessi in Europa e in Libia potrebbero, se l’Italia sa sfruttare l’occasione, farsi convergenti.

L’Italia annuncia l’intervento dopo che, in molta stampa francofona africana, la situazione nel Niger è stata definita come vicina a un significativo punto di rottura. I motivi ufficiali dell’intervento sono due e c’è anche un terzo da non trascurare. Il primo è quello di contenere significativamente la guerriglia islamista nel Niger, e vedremo quale sarà il ruolo dei 400-450 italiani inviati in quel paese, il secondo è quello di respingere le migrazioni, lì causate dalla crisi dell’acqua, con il solito trucchetto retorico della lotta ai trafficanti di uomini (quelli, come in Libia, che non si sono trasformati in “manager” per campo di concentramento per migranti). Poi c’è il terzo, tenuto in discrezione: il Niger ha appena ottenuto un finanziamento, dalla conferenza parigina di donatori, della bella somma di 23 miliardi di dollari. Un pacchetto di aiuti, come si dice in gergo, allo “sviluppo e alla sicurezza”, delle dimensioni che Renzi si sognerebbe la notte, i cui appalti sono destinati a imprese europee. Di sicuro vedremo quindi imprese italiane su quel campo. Per non parlare della fornitura di armi necessaria alla “stabilizzazione”. Certo, c’è da chiedersi quanto le infrastrutture progettate in quel paese risolvano o aggravino la grande crisi idrica, e quella sociale correlata. Ma è una domanda fuori portata per le forze politiche italiane che devono ancora vedere come capitalizzare elettoralmente -ovvero minimizzando o sparando propaganda contro qualcuno- tutta questa vicenda.

Insomma, ad essere cinici con 150 milioni annui, e qualche cerimonia militare, l’Italia si dovrebbe garantire un po’ di appalti, per una cifra magari 20 o 30 volte superiore, per le proprie imprese dal settore infrastrutture a quello della fornitura . Dal punto di vista strategico-militare, quello dei rapporti con la Francia e del contenimento dell’immigrazione, i problemi sembrano esserci. Come testimonia un analista, sicuramente di destra ma intellettualmente lucido: Gianandrea Gaiani di Analisi Difesa.

Dal punto di vista di Gaiani, nonostante lo sforzo italiano (per noi degno di miglior causa), non è nè garantito l’affrancamento dalla subalternità militare a Parigi, già evidenziatosi con la crisi libica del 2011, nè il processo di razionalizzazione dei flussi migratori. Pare garantito, aggiungiamo noi, il canale degli appalti in Niger dopo la conferenza dei donatori e, forse, quello è lo scopo che ha messo d’accordo tutti nel governo. Ora si tratta di capire quale sarà l’iter istituzionale della missione. Anche se, da tempo, l’invio di truppe, specie con le nuove leggi in materia, segue sempre meno la strada della discussione in parlamento. E le forze politiche?

Dando per naturale l’assenza di qualsiasi visione strategica sull’Africa, continente la cui sinergia tra miseria e boom demografico è ottima candidata ad essere un futuro problema per l’Europa, il Pd è un partito delle aziende militari e dei grandi appalti, il centrodestra pure mentre per il movimento 5 stelle, portatore di una visione geopolitica a intermittenza, il Niger sarà occasione di scontro elettorale solo se trasformabile in uno spot di qualsiasi natura. Scontata l’opposizione di Potere al Popolo, resta il partito del presidente del senato Grasso. Il quale, recentemente, in un seminario Nato, sulla geopolitica, a Roma ha dichiarato che “bisogna garantire futuro in territori instabili”. Il sospetto è che la stabilità, in queste retoriche, passi sempre dalla punta di qualche baionetta. Legata a qualche appalto. Umanitario, ci mancherebbe.

 

Ma in Niger ci sono gli scafisti o c’è l’uranio?

Dopo i succosi 23 miliardi di appalti oggi è la volta dell'uranio. Mentre la stampa italiana parla di scafisti

Il bello del nostro paese, si sa, è il più creativo e ardito sprezzo del ridicolo. In riferimento alla progettata spedizione in Niger, Il Messaggero ha titolato, in prima pagina, parlando di missione contro gli scafisti. Ora, basterebbe dare un’occhiata, anche pigra, alla cartina geografica per notare come, oltre a non avere alcun sbocco al mare, il Niger dista dalle prime spiagge dell’oceano nell’ordine, minimo, del migliaio di chilometri. Un po’ lontano affinché i nativi, che abitano la vasta fascia subsahariana dell’Africa, possano addestrarsi regolamente all’arte dello scafismo. Allo stesso tempo pensare che esistano organizzazioni di “scafisti”, per usare questo linguaggio giornalistico fuori dal tempo e dallo spazio, così ramificate da comandare in Niger è non avere chiarissimo come funziona il mondo oltre i confini tra Piazza di Spagna e il Quirinale (nel cui mezzo, in via del Tritone, c’è la sede del Messaggero a Roma). I rapporti tra clan, e all’interno di essi, infatti, nella lunghissima catena di relazioni ogni tipo che passa tra la Libia e il Niger, sono estremamente complessi, mobili e instabili. Immaginare una spectre scafista che va dalle coste della Libia al Niger, e che comanda il tutto come una piovra fa con i suoi tentacoli, è materia buona per le trasmissioni di Formigli. Dove magari un qualche sodale di Grasso ammette sì che in Niger vi è un emergenza sicurezza che va coniugata, ci mancherebbe altro, con la solidarietà.

Certo, la parola scafisti vende come titolo e la parola Niger illumina la mente di Minniti, che immagina una sorta di Vallo Africano ai confini della Libia, ma non è per questi temi che, in realtà, ci si mobilita nell’area subsahariana di quel continente. Anche perché contribuire a “regolare” i flussi migratori di un paese, il Niger, che ha una estensione geografica quattro volte superiore all’Italia con l’invio di 450 soldati, e nei momenti di picco, appare un’impresa più bizzarra che impossibile. Oltretutto queste missioni sono costose, non a caso la Francia ha chiesto partecipazione all’Italia, e quindi appare chiaro che le truppe italiane non sono lì, salvo magari l’arresto di qualche figura ritenuta di spicco in un qualche traffico, per dare la caccia agli scafisti in un paese molto lontanto da qualsiasi sbocco a mare.

Il punto è che in Niger, oltre ai 23 miliardi di dollari in aiuti da noi segnalati che andranno trasformati in appalti, c’è qualcosa che vale, come sempre, una spedizione militare. Qualcosa di serio, come quel tipico prodotto da green economy che è l’uranio. Ora, nessuno scopre oggi l’importanza del Niger nella produzione d’uranio. Tanto che nel 2002, nella fretta di accreditare prove sulla costruzione di centrali nucleari irakene grazie all’uranio del paese africano, congiuntamente i servizi del governo italiano e di quello americano costruirono vere e proprie fake news in materia in uno scandalo detto Nigergate.

In poche parole, si scrive Niger e si legge uranio. Stiamo parlando del quinto produttore di uranio al mondo ma con una popolazione, di venti milioni di persone, stimata tra le dieci più povere del pianeta. E in Niger vi è anche Arlit, una delle capitali mondiali della produzione di uranio impoverito. Proprio il pericolosissimo materiale per usi civili, di diverso tipo, e militari che provocò la morte dei soldati italiani al ritorno dalle missioni coloniali in Kosovo, Afganistan e Jugoslavia (340 morti, 4000 malati, una strage silenziata al massimo dai media, con D’Alema e Mattarella, all’epoca ministro della difesa, che in materia negarono l’impossibile). Ma in Niger se si scrive uranio si legge Areva, una multinazione francese a proprietà pubblica, con un proprio distinto grattacielo al quartiere parigino della Défénse. Il campo si fa quindi più chiaro: lo sfuttamento e l’export dell’uranio del Niger, i cui proventi non vanno certo ad una popolazione ben al di sotto del livello di povertà, è in mano francese. Lasciamo agli storici dello sviluppo la categoria da usare in questo caso ma a noi questa dimensione post-coloniale sembra del tutto coloniale.

Come ricorda questo articolo, l’export di uranio del Niger, oltre a non fruttare niente per il popolo di quel paese e inquinarne pesantemente le acque, fornisce energia per il 50 per cento della popolazione francese. E’ evidente quindi che lo sviluppo drammaticamente ineguale in Niger è un affare interno della Francia. Ma anche esterno, perchè nella fornitura di energia atomica in Ue, che è circa un terzo di quella complessiva, l’uranio permette alla Francia di essere la principale produttrice di energia del continente, con una quota del 17,1% sulla produzione totale Ue e davanti a Germania (15,3%) e Regno Unito (calo ma al 13,9%).  Si capisce quindi che gli scafisti di un paese senza sbocco al mare c’entrano poco, se non come fake news alla matriciana, e che l’uranio c’entra molto di più in questo intervento italiano, a supporto della Francia, nell’Africa subsahariana. Certo, visto che l’Italia, come ogni paese Ue, non è autosufficiente sul piano energetico, l’aiuto ai cugini forti francesi potrebbe prevedere anche delle facilitazioni nell’acquisto di questa preziosa merce.

Veniano però alle questioni che sembrano imporre ai francesi una seria ristrutturazione economico-politica dell’area e che vanno oltretutto oltre la forte, almeno stimata come tale, presenza nell’area della guerriglia islamista di vario tipo. Così si capisce a cosa gli italiani vanno a supporto.

1) il 2011 è stato un anno cruciale per Areva, e quindi la Francia, nel settore. Per due sostanziali motivi. Il primo si chiama Fukushima, che ha imposto non solo una crisi ma anche una seria ristrutturazione nel settore dei reattori nucleari. Certo ci sarebbe molto da dire su un paese, l’Italia, che accetta il risultato del referendum contro il nucleare a e poi va a fare avventure coloniali per garantire il nucleare nel mondo. Ma andiamo oltre: il 2011 è anche l’anno dell’uranium-gate del Niger, questione che lega Areva alla corruzione sul posto, recentemente riassunto dalla Bbc. Ma non finisce qui, poche settimane fa in seguito agli scandali del 2011 lo stesso governo francese perquisisce gli uffici di Areva. Motivo: una parte significativa dei fondi girati in quella storia si suppone sia finita a ambienti russo-libanesi. Morale: le ristrutturazioni del settore e le vicende di tangenti Areva-Nigeria erano scappate di mano dal controllo francese. Ma se fossero solo questioni interne non ci sarebbe da mandare truppe in Africa. Invece, piuttosto, passiamo all’altro punto.

2) Prima di tutto c’è da contrastare, da parte dei francesi, la presenza cinese nel luogo (si veda questo articolo di due anni fa) . E per questo, visto che in Africa i cinesi non esistono sul piano militare, non c’è niente di meglio che ristrutturare Areva dall’interno e far valere la propria presenza sul campo in termini di truppe. Con l’aiuto dell’Italia. E in questo contesto la guerriglia (come già accaduto con la sollevazione dei tuareg oltre dieci anni fa che minacciava le miniere di uranio) si è fatta sentire. Una guerriglia definita islamista che aveva già colpito siti francesi nel 2013. Si parla di una guerriglia per la quale oggi, secondo fonti africane in lingua inglese, la guerra dell’uranio in Niger sembra essere appena cominciata. Una guerra con gli Usa che forniscono i droni, mentre la Francia, e l’Italia, sono sul campo. La prima a difendere i propri interessi diretti, la seconda a supporto. Cercando di ricavare appalti, come abbiamo detto nel precedente articolo, oppure una posizione privilegiata nella produzione di energia (e magari arrestando qualche “scafista” per la gioia dell’opinione pubblica). Ma chi sono questi gruppi islamisti? Secondo il Guardian, dopo un articolo a seguito dell’uccisione di quattro soldati americani nell’area, si tratta di di gruppi esistenti, in grado di colpire, ma difficili da identificare “in una delle più remote e caotiche zone di guerra del pianeta. Ed è in questo tipo di zona che la Francia vuol rimettere ordine, commerciale e militare, e che l’Italia va a fornire supporto.

3) Insomma, il Niger è un paese chiave per Areva, quindi la Francia, nel quale vanno rimessi ordine, e garanzia dei profitti. Al resto ci penserà la retorica dei media. Con l’Italia che cerca un ruolo. In una zona di guerra che ha mostrato già le sue forti criticità. Ma c’è un ultimo punto che Areva, e con lei la Francia, cerca. Quello che riguarda la propria stabilizzazione sul mercato finanziario legato all’uranio dopo, magari aver trovato, quella geopolitica. Infatti, è notizia recente quella che vuole il mercato dei servizi finanziari legati all’uranio come sconvolto dal comportamento del Kazakistan, paese leader della produzione mondiale di urano. Infatti, secondo gli analisti del settore, il Kazakistan ha tirato un vero e proprio siluro sul mercato dei servizi finanziari all’uranio. Motivo? Annunciando il calo secco della produzione ha alimentato la creescita dell’azionario legato all’uranio: il cronico eccesso di fornitora dell’uranio teneva il prezzo di questa materia prima troppo basso per le esigenze finanziarie dei produttori e del mercato. Areva, in previsione di questa mossa aveva, poche settimane prima, tagliato produzione e personale in Niger. E’ evidente però che la stabilità sul campo nel Niger, oggi, non è paragonabile a quella del Kazakistan per cui bisogna correre ai ripari. Come Areva, come Francia e come Italia a supporto. Se ne può stare certi: le mosse legate al Niger vedranno un piano di decisione politico, su più capitali dell’occidente, e uno legato alla situazione sui mercati finanziari. Poi si potrà raccontare degli scafisti, dei progressi contro la guerriglia islamista, cosa si vuole insomma.

C’è poi un punto realmente politico in tutta questa storia. Una tecnologia, altamente pericolosa, come il nucleare, sul quale ricordiamo l’Italia si è già espressa, è occasione di guerre coloniali come nel passato. In zone flagellate dalla fame e dall’inquinamento di ogni tipo. E si tratta di guerre coloniali che si candidano, a vergogna di un Gentiloni disposto a tutto pur di restare dove è, a devastare ulteriormente l’africa subsahariana. Infine, non si è capito l’iter parlamentare di tutta questa vicenda. Presto Mattarella, quello dell’uranio impoverito, scioglierà le camere. Ci sarà un voto? Ci sarà qualcosa? Intanto, per la stampa italiana, in Niger ci sono gli scafisti.

 

Petrolio, droni e italiani: il Niger è ai confini della realtà

Petrolio, miseria biblica, guerra dei droni: più che un paese il Niger sembra una zona ai confini della realtà dove accade di tutto, tutto assieme e in modo apocalittico. E' la nuova frontiera di un governo che, parole sue, vuol espandere l'influenza italiana in Africa. Visti i precedenti, antichi e moderni, in Somalia e in Libia c'è solo da fare gli auguri a tutti noi

“L’uranio sta trasformando il Niger da uno degli stati più poveri del mondo in un paese da boom economico”. Così recitava il New York Times nel 1972 parlando di Arlit, che sarebbe poi diventata la capitale mondiale dell’uranio impoverito. Il New York Times di allora raccontava, oltre a indicare gli interessi al potenziale investitore americano, di italiani, francesi e tedeschi che erano già sul campo per fare affari. Quasi cinque decenni dopo il Niger è ancora uno degli stati più poveri del mondo e americani, francesi, tedeschi e italiani si intrecciano, talvolta alleandosi talvolta facendosi concorrenza, per il controllo di quel paese. Nel frattempo sono stati fatti profitti da boom, finiti regolarmente fuori dal paese, e, come sappiamo, il sessanta per cento degli abitanti del Niger vive al di sotto della soglia di povertà. Potenza della crescita economica.

Certo, come ha scritto il Guardian, nel frattempo il Niger è diventato una delle zone di guerra più remote e caotiche del mondo. Una sorta di zona ai confini della realtà dove si mescolano miseria estrema ed estrema estrazione di ricchezza.

E, in questo scenario, dopo il decreto Gentiloni che a Camere chiuse istituisce la missione, dove verranno collocati i soldati italiani? 

Lasciamo la discussione sul fatto se sarà una missione combat o non combat agli amanti delle procedure da decreto e del gergo delle regole militari di ingaggio. Tanto, come sempre, deciderà il campo. Concentriamoci piuttosto su questo luogo: Agadez. Si tratta di una città, nel bel mezzo del Niger, la cui area circostante è stata indicata dallo stesso Gentiloni come snodo del “jihadismo e del traffico di esseri umani”. Sarà, anzi molto probabilmente lo è visti i numerosi report che circolano su Agadez, ma si tratta anche dello stesso territorio che è ricco di uranio. E quando Gentiloni, nello stesso discorso, qui riportato, sul jihadismo e sul “traffico di esseri umani” parla di “nuove opportunità da cogliere in Niger” è molto probabile che si tratti di quelle vecchie, descritte dall’articolo del New York Times nel 1972. Magari di opportunità in un mercato mondiale dell’uranio molto cambiato da allora, anche per l’invadenza della finanza, ma con i soliti attori. E con il popolo del Niger che resta tra i più poveri del mondo.

Non bisogna però dimenticare che il Niger, e con lui la zona di Agadez (quella dove vanno colte le opportunità secondo Gentiloni), è anche una zona ricca di petrolio. A nord di Agadez, ad esempio, nell’estrazione di petrolio ha investito Gazprom il colosso russo dello sfruttamento dell’energia.

Già, se stupisce infatti che il Niger sia il quinto esportatore al mondo di uranio (una materia prima che potrebbe ricoprire di soldi una intera nazione) e uno dei dieci paesi più poveri del mondo, ci si prepari al resto. Nel Niger si trova l’oro (tanto da scatenare una popolare corsa all’oro tipo California dei tempi eroici) e vi è una consistente produzione di petrolio. Certo non ancora al livello della vicina Nigeria, tra i maggiori produttori al mondo oggi e stimata ancora su quel piano ancora nel 2035, ma in una fase di razionalizzazione dello sfruttamento di questa materia prima. Fase che incontra, come si vede da questo grafico, una flessione proprio nel 2017.

Tra i maggiori protagonisti del petrolio in Niger, come in Nigeria, ci sono la Shell e la Chevron con progetti rinnovati nel 2014. E se dici Shell e Chevron dici Usa e Francia. Ed entrambi i paesi sono stati presenti nel Niger con Texaco e Elf-Aquitaine. Non manca la presenza cinese, vista l’attenzione di Pechino verso il continente africano.

La caduta della produzione di petrolio, come da grafico, e l’insorgere della guerriglia islamista in Niger sono fenomeni da collegarsi, tanto che la Gulf si è fatta donatore diretto ed esplicito di fondi contro la guerriglia nel Sahel e tutto questo avviene in un contesto africano dove l’allentamento della guerriglia viene prezzato in tempo reale sul mercato del petrolio (si veda qui). E’ evidente che questo enorme conglomerato di interessi, del petrolio e aggiungersi all’ancora più grande business dell’uranio, fa parte delle “opportunità da cogliere” in Niger da parte di Gentiloni. Molto più degli “scafisti” da contenere sui quali diversi analisti sostengono che, in caso di particolare pressione occidentale possono benissimo trovare altri percorsi, c’è quindi la guerriglia. Un soggetto che incide direttamente sul prezzi del petrolio e, come abbiamo visto in Libia, anche in tempo reale.

Ma di che tipo di guerriglia stiamo parlando?

Di sicuro non l’ISIS o, meglio, la sua versione fiction alimentata dalla stessa propaganda dello stato islamico. Secondo la Reuters di effettivi inquadrabili come Isis in Niger non ci sono più di 80 persone (non in un cortile ma in un territorio vasto quattro volte l’Italia, su una popolazione di 20 milioni di individui). Piuttosto la guerriglia assume, nelle sue figure specifiche, caratteristiche di professione sostitutiva di quelle precedenti come nel caso degli allevatori di bestiame. Insomma piuttosto che lo jiahdismo professionale dei guerriglieri specializzati e apolidi, che comunque è solo una punta di questo tipo di guerriglia, in Niger, come in altre zone del Sahel, ha preso piede una guerriglia diretta espressione delle durissime condizioni di vita dei territori. E come in Nigeria, dove Boko Haram a suo tempo ha fatto registrare casi di cannibalismo nei confronti dei prigionieri, la ferocia delle condizioni di esercizio della guerriglia nel Niger è immediatamente espressione della disumana condizione sociale a cui è sottoposta la parte largamente maggioritaria della popolazione. Classicamente poi la ferocia della guerriglia è una sorta di effetto collaterale di quella esercitata nell’estrazione di profitto. E, come sempre, l’effetto collaterale, dell’estrazione di profitto passata, finisce per danneggiare i livelli di produzione presenti e minacciare quelli futuri. L’Italia, a supporto di altri paesi, interverrà in questo scenario.

E per ridurre al massimo gli effetti collateriali, ma anche come laboratorio delle prossime guerre oltre lo scenario afgano o mediorientale, gli Usa hanno stanno ingaggiando una vera e propria Drone War in Niger. Non solo perché recentemente hanno perso quattro soldati proprio in quell’area, e dopo Iraq e Afghanistan non è il caso di proseguire tanto oltre, ma sia per valorizzare i risultati ottenuti nell’uso dei droni in altre aree che per una esplicita divisione del lavoro sul campo: gli Usa fanno prevalentemente la guerra tecnologica, gli altri prevalentemente quella sul campo. La cosa va benissimo ai francesi, ai quali ha economicamente pesato la recente presenza di oltre 4000 soldati nel Sahel e possono ridurre gli effettivi. E va bene agli italiani che, sul campo, trovano un ruolo nel ritiro dei francesi e a supporto dell’intervento tecnologico.

In questo articolo di securitypraxis, blog globale di analisti della sicurezza, c’è quindi, non a caso, la notizia del dispiegamento di una vera e propria strategia americana di drone war, i cui contorni, leggi regole di ingaggio, non sono affatto chiari. Sul tema, qualche giorno dopo la notizia è tornata l’agenzia italiana Agi, parlando di futuro chiarimento tra Niger e Usa sulle regole di ingaggio e su “opportunità” e “inefficienze” di questo tipo di guerra. In poche parole, gli italiani faranno da supporto, sul campo, alla drone war americana. Obiettivi ufficiali: jihadisti e “trafficanti di uomini” poi, come appare oramai evidente, c’è soprattutto l’uranio e il petrolio da tutelare. La Drone War, la guerra condotta per mezzo dei droni, ha decuplicato il proprio numero di interventi proprio sotto Obama e ha prodotto un enorme strascico di polemiche, e di inchieste, a causa dell’alto numero di civili innocenti rimasti uccisi in questo genere di operazioni. Si tratta però di uno dei pochi atti della presidenza Obama che non sono stati messi in discussione da Trump. La logica è chiara: mettere a frutto l’esperienza afgana, irachena e yemenita nella Drone War, sperimentando nuove tecnologie, e strategie,  cercando di contribuire a risolvere una guerra difficile dall’alto. Poi le polemiche sul numero dei civili morti, sempre piuttosto alto negli scenari descritti, verranno lasciate ai giornalisti liberal americani (perché su quelli italiani non c’è da scommettere. Basta parlare di “scafisti” uccisi e sono a posto). Con i francesi sul campo e gli italiani a supporto. E anche con i tedeschi che, come dimostra questo articolo di Junge Welt, cercano un nuovo posto al sole del Niger per diversi motivi. E così anche la principale potenza europa, leader Ue e gigante della produzione di energia, cerca di posizionarsi, anche militarmente, in Niger. Una guerra tecnologica, con una pluralità di scopi, giocata sul campo, un terreno duro e difficile, dove non è pero’ ancora chiaro il rapporto tra le potenze occidentali.

Infatti la stessa Analisi difesa, che abbiamo citato nel primo articolo della serie, non trova chiara la cornice della missione poi istituita per decreto. Se una prima missione Ue in Africa, con supporto Drone War americano o altro. Non è un problema da poco perché riguarda obiettivi, catena di comando, finanziamenti, scopi e durata della missione. Intanto però il decreto di istituzione della missione, a Camere sciolte, è stato fatto. Per una missione che, secondo questa analisi, “potrebbe comportare un costo elevato in termini di mezzi impiegati e vite umane”.

Ma sono temi che, oggi, interessano poco all’opinione pubblica italiana. Indirizzata piuttosto sui temi del dolore a distanza. Tutto vero per carità, solo che scompaiono le cause del dolore sul terreno. Sono fatte di uranio, petrolio, droni, miseria e appetiti dei grandi paesi occidentali. Paesi che sono passati dal Niger prelevando fortune e lasciando la popolazione a livello record di povertà planetaria. Ma le intenzioni italiane guardano altrove: pochi morti, alzo massimo sulla propaganda fatta di Isis e scafisti per poi sedersi al tavolo degli appalti e delle concessioni dello sfruttamento delle materie prime. Le idee chiare in questa strategia, quella di sempre, non contano. Contano il basso profilo e il saper afferrare l’occasione, se capita. Come è accaduto in Iraq recentemente. Insomma, un modello di sviluppo pericolosissimo, l’uranio, uno bollito, il petrolio, una guerra feroce e tecnologica, con i droni che si candidano a fare il killer di una popolazione ridotta alla fame, e l’Italia è presente. Triste fine, tra l’altro, di Paolo Gentiloni – che da direttore de La Nuova Ecologia ha fatto la colomba ecopacifista per quasi dieci anni- che rischia di trascinare l’Italia in quell’inferno del Niger che si disloca in quella zona ai confini della realtà che si chiama guerra.

Comunque con i media che sono ufficio stampa delle missioni militari, l’opposizione o complice o senza idee, per non dire senza strategia, ci penserà la routine della vita del nostro paese a attutire ogni cosa. Silenzio e rimozione, finchè dura. E magari qualche appalto e qualche commessa prima che tutto finisca.

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