Print
Hits: 1883
Print Friendly, PDF & Email

pandora

La Cina dopo la crisi globale: il “New Normal” di Xi Jinping

di Lorenzo Termine

Cina ott 4 640x315Secondo i dati[1] del Fondo Monetario Internazionale (FMI), la Repubblica Popolare Cinese (RPC) nel 2017 ha fatto registrare un PIL di quasi 11,94 trilioni di dollari, con un tasso di crescita del 6,8 %. Per capire meglio i dati basti pensare che gli Stati Uniti, primo paese al mondo per Prodotto Interno, hanno raggiunto nello stesso anno 19,36 trilioni di dollari ma con un tasso di crescita di 2,2 punti percentuali. Secondo molti analisti, il differenziale di tassi di crescita farà sì che nel prossimo decennio la Cina potrebbe diventare la prima potenza economica al mondo superando gli USA. La crescita media tra il 1980 e il 2016 del PIL cinese ammonterebbe al 9,64 %, con un picco storico del 15,2 % (1984) e un minimo storico del 3,9 % (1990). Se si guarda invece al PIL secondo la parità di potere di acquisto (PPA), la Cina avrebbe già superato gli Stati Uniti con un valore di 23,12 trilioni di dollari (2017). Per quanto riguarda l’Indice di Sviluppo Umano (ISU)[2] sviluppato originariamente da ul Haq e Sen, Pechino è passata da un valore di 0,43 nel 1980 ad un valore di 0,728 nel 2015, una delle variazioni più marcate verificatesi nel mondo durante questo intervallo.

In questo quarantennio di crescita intensiva (1978-2018), la Cina ha adottato un modello di crescita basato principalmente sull’esportazione di prodotti maturi (cioè prodotti a basso contenuto innovativo, frutto di tecnologie mature e dunque legati a processi produttivi situati a un basso livello della catena del valore), sull’alta produttività fattoriale e sulla bassa remunerazione del lavoro.

Come dimostra Zhu[3], scomponendo il tasso di crescita del PIL pro capite in crescita del tasso di occupazione, del rapporto capitale-prodotto, del capitale umano medio e della produttività totale dei fattori (TFP), e applicando tale fattorizzazione alla storia economica della RPC, si osserverebbe come la variazione della produttività, aumentata del 3,16% annuo tra il 1978 e il 2007, sia il vero motore della crescita. Nel periodo pre-1978, la variazione della TFP incideva in misura quasi identica ma negativamente (-3%), frenando la crescita essendo la politica industriale in quel periodo sostanzialmente una politica di accumulazione, preferendo il governo mantenere un tasso di investimenti altissimo e impiegare tutta la forza lavoro possibile[4].

Un’altra testimonianza della trasformazione radicale del sistema economico cinese è la divisione delle quote del prodotto nazionale: nel 1978, infatti, il 28% della crescita del PIL dipendeva dalla produttività del settore agricolo, il 27 % da quella del settore non agricolo privato e il 45 % dal settore non agricolo statale. Nel 2007 la composizione sembra essersi rovesciata con il 10 % per la produttività del settore agricolo, il 70 % per quella del settore non agricolo privato e il 20 % per quella del settore non agricolo statale[5].

Una trasformazione radicale del sistema economico cinese sostenuta da tassi di crescita sempre oltre o vicini alla doppia cifra. Oggi la situazione è cambiata: la Cina cresce ma a ritmi sempre più lenti. Questo si inquadrerebbe alla perfezione nelle previsioni “pessimiste” di alcuni economisti, tra cui vale la pena citare Haltmaier[6] e Jiang[7], che utilizzando il modello di crescita di Robert Solow hanno previsto un rallentamento (se non una stagnazione) dell’economia cinese nel prossimo futuro. Al di là del dibattito tra gli economisti, negli ultimi anni anche la leadership del Partito Comunista Cinese (PCC) ha espresso preoccupazioni in merito alla solidità del sistema economico nazionale e ha annunciato un cambio di rotta rispetto al passato. Già con la leadership di Hu Jintao era emersa la necessità di cambiare modello di crescita e sviluppo per promuovere la cosiddetta “società armoniosa” (héxié shèhuì) ed eliminare le disuguaglianze economiche e sociali.

 

La Cina e la crisi globale

Quando la crisi finanziaria globale è scoppiata, l’allora bassa finanziarizzazione dell’economia, testimoniata da un rapporto tra il valore delle azioni scambiate e il PIL del 42% nel 2006 (quello USA era del 220%), ha fatto sì che Pechino non sperimentasse alcun crollo. Similmente, come risultato del suo ridotto rapporto tra debito pubblico e PIL (25,4% nel 2006 mentre quello italiano era del 102,6% e quello statunitense del 63,6%), Pechino non ha conosciuto il rischio di default corso invece da alcuni paesi europei.

Eppure, nel 2008, l’economia cinese ha vacillato registrando una crescita del 9,5%, significativamente inferiore rispetto a quella del 14,2% del 2007 (il tasso più alto dal 1992 e arrivato dopo un quinquennio di incremento costante). Due vincoli principali sembravano compromettere la tenuta dell’economia della Repubblica Popolare: l’eccessiva dipendenza dalle esportazioni e, quindi, dalle altre economie e il basso livello di consumi interni.

La tesi di questo articolo è che la combinazione di questi due fattori abbia spinto la leadership cinese ad imprimere una svolta alla propria politica economica, culminata con l’elaborazione del “New Normal” e l’approvazione del tredicesimo piano quinquennale (2016-2020) nel 2015. La comprensione di queste due dinamiche può chiarire una parte degli obiettivi della politica economica cinese post-2008.

 

La dinamica dei consumi

Il trentennio di crescita precedente al 2008 aveva fatto aumentare il PIL cinese con una media di circa 10 punti annui. La crescita produttiva non è stata però accompagnata da una crescita proporzionale dei consumi tanto che la dinamica di consumi ridotti può essere considerata una costante della storia economica cinese almeno dal 1978 in poi. Seguendo un modello di crescita intensiva in cui la priorità era data agli investimenti e all’accumulazione di capitale, la RPC aveva sperimentato un tasso di risparmio incredibilmente più alto rispetto alle altre economie. Come dimostrano chiaramente i dati, più aumentava la ricchezza del paese, più i cittadini risparmiavano. Tra il 2000 e il 2008, il tasso di risparmio in Cina è aumentato di 15 punti facendo toccare il livello più alto degli ultimi 30 anni.

Alcune teorie sono state elaborate per spiegare questa particolarità e in questa sede se ne menzioneranno tre: la teoria precauzionale, la teoria delle “distorsioni del mercato” e un adattamento della teoria del “ciclo vitale”. La prima cerca di spiegare la peculiare dinamica cinese alla luce della poca sicurezza sociale garantita dalla RPC ai consumatori che indurrebbe a risparmi più alti per far fronte ad eventuali shock, la seconda invece si rifà ad una combinazione specifica di tassi di interesse alti e moneta deprezzata mentre la terza, proposta da Bonham e Wiemer[8], riprende l’ipotesi del “ciclo vitale” di Modigliani, sostenendo che in Cina ad un aumento considerevole del PIL segua per ragioni demografiche un aumento del tasso di risparmio, come risultato della politica familiare condotta da Pechino nell’ultimo trentennio che avrebbe ridotto le coorti più giovani, stocasticamente associate a tassi di risparmio più bassi. Qualsiasi spiegazione si dia a questo fenomeno, è importante capire che ha avuto un ruolo.

Già nel 2008, la leadership economica cinese approvava un massiccio piano per stimolare i consumi interni e ridurre i risparmi. Dal 2010 (e ancora più drasticamente dal 2014) il tasso di risparmio ha iniziato a calare, attestandosi secondo le stime del FMI al 44,5% nel 2018 e riducendosi in 10 anni di quasi 8 punti percentuali.

 

La dinamica delle esportazioni

La crisi finanziaria del 2007 e la crisi dei debiti sovrani hanno incrinato la solidità del modello export-led cinese. Nel 2009, il crollo dell’export cinese di beni e servizi è verticale: -11,3 %. Il ruolo delle esportazioni nel prodotto nazionale è andato progressivamente diminuendo, passando da circa il 37,2 % del 2006 al 24,3 % del 2009 e annullando completamente gli incrementi del quinquennio 2002-2006.

Come dimostrato da Lu Bai et al.[9], il deterioramento delle posizioni economiche e finanziarie dei primi 10 paesi destinatari dell’export cinese è la principale causa del declino delle esportazioni cinesi e, in seconda battuta, del rallentamento del tasso di crescita. Parallelamente, alcuni fattori secondari determinavano lo stesso risultato, per esempio l’innalzamento dei costi del lavoro in seguito alle riforme di Hu Jintao aveva aumentato i prezzi di molte delle merci esportate e l’effetto positivo sull’export cinese dell’ingresso nell’Organizzazione Mondiale del Commercio era andato stabilizzandosi[10]

A partire dal 2009, il peso delle esportazioni nel PIL cinese è andato sempre diminuendo (fatta eccezione per un irrilevante iniziale incremento) fino al 2016[11] in cui contavano per il 19,6%, il dato più basso degli ultimi 20 anni. Il combinato disposto di questo declino e della dinamica dei consumi rischiava di generare una massiccia crisi da sovrapproduzione.

 

Il New Normal

Il concetto di “New Normal” (xin changtai), erede di quello di “società armoniosa” di Hu Jintao, è stato introdotto da Xi Jinping in un discorso del 2014 nella provincia di Henan[12] e poi confermato da un secondo discorso al forum dell’Asia-Pacific Economic Cooperation (APEC). Le linee guida di questo nuovo orientamento sono inserite all’interno della più vasta cornice del c.d. “Sogno Cinese”, cioè il consolidamento interno e internazionale della RPC, e dei “Due Cento”, i due obiettivi in vista delle ricorrenze che la Cina festeggia nel 2021 e nel 2049.

Il successivo piano quinquennale[13] (2016-2020) ha ufficializzato tale orientamento, evidenziandone gli obiettivi principali: un tasso di crescita sensibilmente più basso del passato (6,5 % annuo) che permettesse di implementare le riforme, una crescita quality-oriented (cioè sostenibile e tecnologicamente avanzata) e una riduzione degli investimenti pubblici che hanno generato tra il 2008 e il 2009 una crisi da sovrapproduzione e un aumento del debito. Parallelamente, ridurre il peso delle esportazioni nel PIL, affinché la crescita non dipendesse dalla domanda estera rivelatasi volatile e aumentare i consumi interni per risolvere il decennale problema del saving glut[14], l’eccesso forzato dei risparmi e la poca propensione al consumo. Correlatamente, garantire l’ottenimento per il 45 % della popolazione urbana dell’hukou, il permesso di registrazione che garantisce l’accesso ai servizi pubblici per chi lavora in distretti diversi da quello di nascita.

Legato ad una crescita qualitativa, vi è anche il progetto “Made in China 2025” che promuove “il superamento di un modello industriale basato su prodotti a basso costo, per iniziare a competere con le economie avanzate nella realizzazione di prodotti altamente tecnologici”[15], connesso a sua volta al progetto “Internet Plus”, teso ad aumentare l’utilizzo della rete nella popolazione.

Connesso alla dinamica delle esportazioni è il lancio dell’iniziativa “Belt and Road” (c.d. “Nuove Vie della Seta”). Il piano è costituito da due direttrici, una terrestre ed una marittima, ed è stato “ribattezzato da alcuni il Marshall Plan cinese per la volontà di creare mercati favorevoli all’esportazione di prodotti cinesi”[16] ed evitare la crisi da sovrapproduzione.

L’inserimento, avvenuto dopo il XIX Congresso del Partito (ottobre 2017), del “pensiero di Xi Jinping sul Socialismo con caratteristiche cinesi per una Nuova Era”[17]nello Statuto del Partito Comunista Cinese testimonia il peso e l’influenza accordati dalla classe politica cinese alla teorizzazione del Segretario del Partito e fa pensare, insieme alla crescente importanza di Liu He, considerato un fedelissimo di Xi[18], che il “New Normal” continuerà ad essere l’obiettivo principale anche per il prossimo piano quinquennale da approvare nel 2019.


Note
[1] Tutti i dati nell’articolo sono tratti da World Bank, International Monetary Fund e National Bureau of Statistics of China e sono stati confrontati tra loro.
[2] Si veda UNDP, 2016 Human Development Report, 2016.
[3] Si veda Zhu X., Understanding China’s Growth: Past, Present, and Future, Journal of Economic Perspectives, 26, 2012, 103-124.
[4] Si veda Rawski T.G, Chinese Industrial Reform: Accomplishments, Prospects, and Implications, The American Economic Review, 84-2, 1994, 271-275.
[5] Si veda Zhu, 2012.
[6] Si veda Haltmaier J., Challenges for the Future of Chinese Economic Growth, International Finance Discussion Papers, 1072, 2013.
[7] Si veda Jiang J., How Rich Will China Become? A simple calculation based on South Korea and Japan’s experience, Economic Policy Papers, 20/05/2015.
[8] Si veda Bonham C. & Wiemer C., Chinese saving dynamics: the impact of GDP growth and the dependent share, Oxford Economic Papers, 65, 2013, 173-196.
[9] Si veda Bai, L., Kim, H., & Stephan, A, Effects of global financial crisis on Chinese export: A gravity model study, 2012.
[10] Si veda Singh, A, et al, China’s Economy in Transition : From External to Internal Rebalancing, International Monetary Fund, 2013.
[11] Ultimi dati disponibili.
[12] https://www.bloomberg.com/news/articles/2014-05-11/xi-says-china-must-adapt-to-new-normal-of-slower-growth
[13] Disponibile a http://en.ndrc.gov.cn/newsrelease/201612/P020161207645765233498.pdf
[14] Si veda Yang D. T., Aggregate Savings and External Imbalances in China, Journal of Economic Perspectives, 26, 2012, 125-46.
[15] Si veda Centro Studi Per L’impresa Della Fondazione Italia Cina, La Cina nel 2016: Scenari e prospettive per le Imprese, Fondazione Italia Cina, 2016, p.98.
[16] Ibidem, p. 74.
[17] Si veda Communist Party of China, Constitution of the CPC, http://www.china.org.cn/20171105-001.pdf
[18] Si veda https://www.geopolitica.info/who-is-who-liu-he/
Web Analytics