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Cosa si racconta di ritorno dall'Eritrea

Marilena Dolce intervista Fulvio Grimaldi

EritreaLive Asmara la piazza delle corriere e i portici del marcato 768x511A Milano, la presentazione del film “Eritrea, una stella nella notte dell’Africa” è l’occasione per intervistare l’autore, Fulvio Grimaldi, ritornato dal viaggio in Eritrea dello scorso anno.

Una conversazione per ripercorrere con lui la storia dell’Eritrea, dalla guerriglia degli anni Settanta all’attuale ostracismo internazionale.

Una storia che l’Italia ha accantonato archiviando, insieme all’esperienza coloniale, la ricchezza della terra e l’orgoglio della gente eritrea. Oggi la battaglia e l’impegno dell’Eritrea è per lo sviluppo e la crescita del paese, ma anche di questo in Italia si sa poco. E il film di Grimaldi ce lo racconta.

* * * *

“L’Africa è una preda irrinunciabile” per il neocolonialismo, così  dici nel film. L’Eritrea, sottraendosi a questa morsa nel 1991, con l’indipendenza, ne sta ancora pagando il prezzo?

Sì l’Eritrea sta pagando un pesante prezzo per essersi sottratta alla nuova colonizzazione che sta toccando e coinvolgendo la quasi totalità dei paesi africani dove sono presenti, salvo pochissime eccezioni, presidi, basi americane o altre forme di collaborazione, addestramento dei militare locali  o della polizia. Un apparato per un nuovo colonialismo, per lo sfruttamento dell’Africa, continente ricchissimo di risorse.

L’Eritrea si è sottratta al colonialismo con la sua incredibile lotta lunga trent’anni. Non le viene perdonato di resistere a qualsiasi tipo di condizionamento, finanziario, commerciale, culturale, militare. Questo il motivo per cui è aggredita, subendo una demonizzazione di cui tutti siamo consapevoli, una valanga di menzogne, bugie e diffamazioni che si abbattono sul paese e sul suo governo, accompagnando e giustificando le sanzioni che gli sono state imposte.

 

Nel 1971 vai in Eritrea per raccontare, come dici, “una guerra dimenticata” che si combatteva già da 10 anni. Tornando in Eritrea l’anno scorso, quante delle speranze di allora hai visto realizzate?

Nel 1971, nella mia prima visita, ho camminato con i guerriglieri attraverso l’Eritrea, dribblando le bombe e le imboscate etiopiche. Allora avevo la consapevolezza che ci fosse un popolo che appoggiava la sua guerriglia, un popolo in lotta per la sua libertà.

Un’idea maggiore dei contenuti e della prospettiva che si voleva creare per questo paese l’ho avuta però nel 1977-‘78, quando sono tornato. Allora esisteva già, nelle zone liberate dalla guerriglia, l’idea di Stato. C’erano scuole, la sanità, le organizzazioni di massa e delle donne. Si prefigurava uno Stato a fortissima partecipazione popolare, a democrazia diretta.

L’Eritrea che oggi ho ritrovato credo sia l’espressione, in grande misura riuscita, di quelle premesse, di quelle prospettive, di quell’impegno, anche se le condizioni difficilissime che le sono state create intorno, le guerre continue, le aggressioni, le sanzioni, l’ostracismo internazionale, le rendono il compito molto difficile.

Negli anni dopo l’indipendenza, fino al 2000, fino al nuovo attacco etiopico (ndr 1998-2000, guerra Eritrea-Etiopia) e poi alle sanzioni (ndr Risoluzione Onu 1907 del 2009), l’Eritrea ha fatto progressi enormi, rapidi, poi rallentati dal fatto che la comunità internazionale, come si autodefinisce, le sta rendendo la vita difficile, impedendole gli scambi, le relazioni con altri paesi. L’impegno, però, e la direzione presa allora è stata in gran parte mantenuta.

 

Tra le promesse mantenute ci sono scuole e sanità? Hai visto come vivono le persone, c’è gente che muore di fame per le strade?

Gente che muore di fame per strada l’ho vista in Somalia e, soprattutto, in Etiopia, dove la situazione è drammatica rispetto alle ricchezze di cui dispone il paese, ricchezze rapinate dalle multinazionali. Là c’è un’incredibile povertà. Una povertà che in Eritrea non si vede, come non si vede ciò che è solito nei paesi del sud del mondo, cioè una diseguaglianza abissale tra ricchissimi e poverissimi, situazione indotta dal modello economico e sociale occidentale.

Erigendo in tutto il paese e bacini per la raccolta dell’acqua piovana, l’Eritrea, diversamente dagli altri paesi dell’area, riesce anche a far fronte alle siccità ricorrenti, risparmiando alla popolazione le carestie che decimano altri popoli.   

In Eritrea hai la sensazione che esista una via di mezzo, episodi limitati di povertà urbana, sempre meno che in Occidente, e una sostanziale uguaglianza, senza agi ma neppure miseria.  

 

Hai intervistato il primario dell’Orotta, il Policlinico di Asmara, dr Habteab Mehari e il Ministro della Sanità, Amina Nurhusien, che cosa pensi della sanità eritrea?

L’Eritrea è tra i rarissimi paesi nel sud del mondo, e l’unico tra i paesi africani dopo il crollo della Libia, a garantire ai suoi cittadini l’assistenza sanitaria praticamente gratuita e l’istruzione, a partire dall’asilo fino all’università, spesso con perfezionamenti e master all’estero, sempre completamente gratuiti. Presidi sanitari, prima scarsi e tutti distrutti dalla guerra, sono presenti ovunque, a portata dei villaggi più sperduti.

Quindi, se si parla di diritti umani, vessillo che l’Occidente sventola per giustificare critiche e aggressioni, io penso che il diritto umano alla salute, all’istruzione, all’educazione, al proprio perfezionamento, alla alfabetizzazione, il diritto umano alla casa e alla dignità, siano diritti umani che in Eritrea vengono effettivamente rispettati e coltivati.

 

Nelle interviste che hai fatto a molti giovani che vivono in Eritrea, uno di loro dice che “difendere il paese è un dovere,” un altro che stanno combattendo per un futuro migliore, allora è Ginevra che non ha creduto a testimonianze come queste, portate a migliaia dall’Eritrea davanti al Palazzo delle Nazioni Unite lo scorso giugno? Come mai secondo te?

Il Palazzo delle Nazioni Unite, la sua organizzazione e i suoi vari e successivi segretari generali sono, alla luce del percorso storico degli ultimi decenni, portavoce degli interessi degli Stati Uniti.

Non c’è nessuna affidabilità. Gli atteggiamenti assunti dalle Nazioni Unite riguardo alle guerre nettamente di aggressione (Iraq, Balcani, Libia, Somalia, Yemen, Afghanistan), ne squalificano la credibilità.

Credo che chiunque vada in Eritrea, si muova nel Paese, si ponga a contatto con la popolazione, veda come vive, si muove, si esprime, possa smentire quanto ha detto quella Commissione d’Inchiesta (ndr, Rapporto COI, Commission of Inquiry, 2016).

Quando il ragazzo che hai citato dice “difendere il paese è un dovere”, tocca un tasto molto sfruttato da chi ha interesse a dare dell’Eritrea un’immagine negativa.

È il discorso di un presunto servizio militare eterno al quale non si sfugge se non alla fine della propria vita. Questa è un’enorme invenzione. Innanzitutto si confonde chi fa il mestiere di militare, come da noi, con chi fa la leva che ha un periodo determinato e preciso d’impegno militare, per lo più non superiore a 6 o 12 mesi. Poi diventa servizio nazionale civile.

In questo caso si è impegnati a dare un contributo alla società nei termini che si addicono alle proprie capacità, preferenze, e competenze. Per esempio aiutare una comunità nelle opere di bonifica, lavorare in una biblioteca, assistere disabili e altre attività simili. Tantissimi di questi giovani, se dovessero fare il militare per l’eternità, come potrebbero andare ad Amsterdam o a Londra per fare un master, cosa che invece succede a molti studenti eritrei?

 

Tu hai conosciuto i guerriglieri, la generazione dei padri dei ragazzi nati nel 1992, dopo l’indipendenza. Che rapporto c’è, secondo te, tra loro che hanno combattuto e sofferto e i figli, più sani e scolarizzati, che però sognano una vita come pensano si viva in Occidente, disposti per questo a compiere viaggi pericolosissimi?

La storia dell’immigrazione dei giovani è in gran parte esagerata e manipolata, come riscontrato dai mediatori. Basti pensare che molti di loro non sono neanche eritrei ma etiopi o altro. Si fanno passare per eritrei grazie alla somiglianza etnica. Questo perché agli eritrei è garantito automaticamente il diritto d’asilo.

Un po’ come si era fatto per far scappare i cubani, garantendogli asilo politico negli Stati Uniti. Il risultato era avere una forza anticubana che riceveva in cambio la cittadinanza americana. Un trucco infame per svuotare il paese dalle sue energie migliori, quelle giovanili e per avere un mercenariato cui far dire cose contro il paese. Così sta avvenendo per l’Eritrea.

È chiaro che quando uno esce dal suo paese lascia alle spalle le difficoltà che le sanzioni impediscono di superare e viene a cercarsi un destino migliore. Una persona in queste condizioni, per avere l’asilo, dirà tutto quello che il suo ospite si aspetta che dica. E lo scopo è potenziare la campagna contro il paese.

 

Quindi i giovani che escono dall’Eritrea emigrano dalla povertà, come hanno sempre fatto la gran parte dei migranti, noi italiani compresi? 

Si, ma dall’Eritrea non emigrano per drammatiche condizioni economiche perché, come sa chi ha visitato il paese, non si muore di fame. Certo davanti alla prospettiva, come l’hanno sognata gli albanesi, del bengodi occidentale, ci si può anche illudere…

Vorrei aggiungere un fatto che è molto significativo. Nessuno calcola che l’emigrazione che si svolge in queste condizioni difficili, per cui si devono attraversare un paese dopo l’altro, Sudan, deserto, Libia infine Mar Mediterraneo, è fatto di tappe sottoposte a tariffe. Sommando quello che si dice costino l’attraversamento del Sudan, le mazzette ai doganieri, l’attraversamento del Sahel, il passaggio in Libia, i carcerieri libici, gli scafisti, e chissà che altro ancora, si calcola che servano dai 5.000 ai 10 mila euro. Com’è possibile, se i giovani hanno a disposizione quella somma, che debbano spostarsi, quando con quei soldi, nel loro paese, avrebbero concrete possibilità di autoaffermazione, anche imprenditoriale.

Allora viene fuori una notizia, ormai facilmente documentabile, di chi ha un interesse a incrementare attraverso finanziamenti e attraverso Ong complici, questo esodo. Fughe finanziate dall’esterno. C’è una figura che aleggia su queste entità e si chiama George Soros. È lui il referente di quasi tutte le grandi Ong che promuovono e sollecitano migrazioni e espatri, finanziandoli.

 

Passando ad altro argomento. Un lascito coloniale positivo: la fondazione di molte città tra le quali la capitale Asmara, probabile sito Unesco. Se verrà approvata la sua candidatura presentata lo scorso anno questo potrebbe essere per l’Italia il modo per rinsaldare il rapporto che Yemane Ghebreab, Political Advisor del Presidente, da te intervistato, definisce “non soddisfacente”?

Tocchi un tasto molto importante.

L’Italia, come madrina della sua più antica colonia, nella quale si sono impegnati, nel bene e nel male, decine di migliaia di italiani, ha completamente abbandonato questo suo paese, anche a proprio discapito.

Non si tratta solamente di essere benefattori della colonia, che in buona misura si è sfruttata, ma si tratta anche di approfittare delle enormi opportunità che un paese come l’Eritrea, in quelle condizioni, con quelle potenzialità, in quella posizione strategica, con quelle risorse, può offrire agli italiani.

Gli italiani lì hanno lasciato un grandissimo patrimonio che è quello urbanistico.  Le piccole industrie leggere, meccaniche, i latifondi, le aziende agricole sono state recuperate. L’elemento più importante però è stata l’esplosione urbanistica che ha fatto delle città eritree le più belle città dell’Africa, di una modernità ancora oggi all’avanguardia, stupenda, dove si sono impegnati alcuni tra i migliori architetti e urbanisti italiani.

Questo dato è un patrimonio italiano che gli eritrei sono stati bravissimi a conservare e salvaguardare. Il fatto che l’Italia abbia abbandonato questo suo retaggio, è gravissimo e stolto.

Noi ora abbiamo lanciato un appello, in vista del fatto che l’Unesco potrà proclamare Asmara patrimonio dell’umanità. Un appello rivolto ai migliori e più noti architetti e urbanisti italiani, iniziando da Renzo Piano, perché si facciano attori e motori di un intervento sul governo italiano che collabori con il governo eritreo per manutenzione, restauro e salvaguardia di questo patrimonio comune.

Chiediamo che studi di architettura e urbanistica si attivino con progetti d’intervento e restauro, che gli studi italiani siano parte nel recupero di questo nostro patrimonio comune, dell’umanità, ma soprattutto italo-eritreo. Una possibilità simbolica, molto significativa, per il rafforzamento dei legami tra Italia e Eritrea.

 

Dicevi “noi”, in che senso?

Noi abbiamo già mandato in giro una petizione, io e mia moglie coautrice del film. La nostra è un’iniziativa italiana e che deve restare italiana, tuttavia ne è al corrente il responsabile media della comunità eritrea.   

Avete contattato le università italiane?

Abbiamo individuato per ora una ventina di indirizzi, tra cui l’architetto Cervellati e a loro ci stiamo rivolgendo per avere altri riferimenti.

Torniamo alla guerra di liberazione, quale è stato allora e quale è oggi, per come l’hai potuto vedere nel recente viaggio, il ruolo della donna in Eritrea?

Le premesse dell’attuale situazione delle donne sono, come molti altri aspetti, nate negli anni della lotta di liberazione. Questa è la particolare ricchezza di quella lotta. Non è stata soltanto militare ma ha gettato le basi per la società giusta del futuro. Qui le donne che, come in tutti i paesi del sud del mondo, e non solo del Sud, erano subalterne, con un patriarcato imperante e tradizioni nefaste nei confronti della loro integrità fisica, come le mutilazioni genitali femminili, si sono riscattate.

Io allora ho incontrato parecchie donne che combattevano a fianco dei maschi e già imponevano un trattamento assolutamente paritario. In più mantenevano un ruolo di cura e assistenza, come infermiere e insegnanti.

Tutto questo è stato uno stimolo perché dopo, nella società liberata, il loro fosse un modello per le altre, per le giovani donne, per costruire una società  di donne emancipate.

Ci sono ancora delle sacche di resistenza e loro lo sanno. Penso alle mutilazioni genitali che, nonostante una legge (ndr 2007) le abbia proibite, nelle aree più remote, in cui è più difficile penetrare nelle tradizioni, sopravvivono. Sono le donne dell’Unione delle Donne Eritree che vanno nei villaggi, per cercare di reprimere queste usanze e avviare l’emancipazione.

Non dimentichiamo poi che la componente femminile, a livello governativo, è pari a 28 per cento. 

 

La stampa nazionale, però, ignora sforzi e progressi dell’Eritrea schierandosi quasi sempre, con titoli apocalittici, contro il paese…

Noi abbiamo una stampa cui va fatta la guerra, iniziando da quelli che dettano la linea, cioè dagli Usa. I giornali non hanno quasi più editori puri, che avrebbero interesse a coltivare un’informazione corretta, ma fanno capo a interessi economici.

In Italia abbiamo il gruppo editoriale dell’Espresso che fa capo a De Benedetti, che ha interessi nelle banche, nell’industria, poi La Stampa che fa capo agli Agnelli, Il Messaggero che fa capo a Caltagirone, il più grande costruttore italiano. Sono aggregati economici che utilizzano i media per i propri interessi.

E, in questo momento, ritengono che tali interessi coincidano con quelli della grande stampa internazionale che esprime una linea, in virtù di chi la possiede, neocolonialista, di rapina, di conquista.

È un atteggiamento ottuso perché, come dicevamo prima, l’Eritrea e l’Africa in genere, avvicinata in termini di eguaglianza, di rispetto, di solidarietà, di cooperazione, offrono molte più possibilità che non gli interventi aggressivi, che poi, nel caso dell’Eritrea, sono sempre stati neutralizzati, fortunatamente.

Le menzogne e la demonizzazione sono il frutto di questa subordinazione alla stampa internazionale occidentale, una stampa imperialista che trascura il fatto che noi potremmo, nel caso dell’Eritrea, con un atteggiamento onesto, reportage indipendenti, ricavarne grandi vantaggi.

Bisogna dire un’altra cosa, purtroppo, che c’è anche un settore della chiesa che aderisce alla criminalizzazione, penso a Nigrizia, mensile cattolico molto ostile nei confronti dell’Eritrea. In questo caso si va addirittura contro la comunità cattolica in Eritrea. Una comunità che convive e prospera felice con le altre confessioni, in perfetta armonia, tanto da rappresentare un modello in un mondo dove le solite forze neocoloniali istigano le nazioni a sbranarsi tra etnie e confessioni diverse.

Perché allora i comboniani ce l’hanno con loro? Forse perché anche loro, storicamente, sono state avanguardie della colonizzazione… Tutto questo deve essere superato nel segno della collaborazione e della comprensione reciproca. E anche all’insegna del debito che il nostro paese ha nei confronti dell’Eritrea. Da cui, peraltro, oggi ha molto da imparare.

Bene. A chi vuole saperne di più, non resta che vedere il film…:

https://youtu.be/d_CRAHrdsb0

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