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Sudan: gli sviluppi interni

 Alberto Grossetti

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Dopo la firma nel 2005 del Comprehensive Peace Agreement (CPA) che ha messo fine ad una guerra civile durata 22 anni, il paese sta difficilmente affrontando le sfide della ricostruzione e della pacificazione nazionale. L’implementazione dell’accordo è caratterizzata da rallentamenti ed incomprensioni che potrebbero causare un ulteriore irrigidimento dei già precari rapporti tra Khartoum e Juba creando tensioni destabilizzanti. Il governo di El Bashir è inoltre sotto stretta sorveglianza dalla comunità internazionale per la sua condotta in Darfur: durante le negoziazioni di ottobre in Libia il presidente dovrà assumersi impegni e responsabilità precise per riacquistare credibilità internazionale, anche per rafforzare la sua leadership interna, in vista delle elezioni del 2009.


Il perdurare delle tensioni

A 2 anni dalla firma del CPA, il controverso rapporto tra nord e sud del paese è ancora continuo motivo di preoccupazione.Era preventivabile che la firma di un accordo di pace non sarebbe stata sufficiente a curare le profonde ferite derivanti da 22 di guerra civile, e che le sfide maggiori avrebbero riguardato il periodo post-bellico. Le relazioni tra Khartoum e Juba sono gelide, con il Sudan People's Liberation Movement (SPLM) che accusa il presidente El Bashir e il National Congress Party (NCP) di ostacolare volontariamente la realizzazione delle disposizioni del CPA e di prendere decisioni politiche chiave di interesse nazionale unilateralmente, mettendo in discussione il principio “comprensivo” di condivisione del potere stabilito dall’accordo.

Tra i motivi di frattura a cui il CPA doveva mettere rimedio vi è la gestione del petrolio e l’utilizzo dei suoi proventi. Il settore estrattivo ha avuto uno sviluppo molto rapido negli ultimi anni, passando dai 1.500 barili di produzione giornaliera nel 1999 ai 500.000 odierni, che potrebbero aumentare sensibilmente in futuro e si prevede che le entrate petrolifere quest’anno raggiungeranno i 4 miliardi di dollari, portando ad una crescita del PIL superiore al 10%.

Come riporta l’International Monetary Found (IMF), alla crescita economica non si è accompagnato un sensibile miglioramento delle condizioni di vita della popolazione. Il SPLM lamenta un uso ancora poco trasparente dei proventi petroliferi (Juba ha diritto al 50% delle entrate derivanti dal petrolio estratto dal suo territorio) che ha arricchito e dato potere all’élite politico-economica del nord a scapito di tutti i cittadini sudanesi. Il governo Khartoum è ritenuto inoltre responsabile della stipulazione di accordi (di concessione, sfruttamento o esplorazione dei giacimenti) con compagnie multinazionali non favorevoli alla popolazione indigena, che in molti casi ha perso il possesso delle proprie terre senza ottenere alcun risarcimento ed è rimasta esclusa dalle possibilità occupazionali che gli investimenti esteri avrebbero dovuto assicurare.

Il CPA stabiliva inoltre la creazione di due eserciti separati per nord e sud, unità comuni per le principali città e aree petrolifere e il ritiro delle rispettive forze armate nel proprio territorio entro il 9 luglio 2007. Come testimoniato anche da ufficiali ONU, le Sudanese Armed Forces (SAF) continuano a rimanere illegalmente al sud con un contingente di circa 16.000 soldati soprattutto in Abyei, zona contesa e ricca di petrolio che col referendum del 2011 potrà scegliere se appartenere al sud o al nord. Il Sudan People's Liberation Army (SPLA), braccio armato del SPLM, si è ritirato come da accordo, e le SAF vengono di conseguenza considerate “forze d’occupazione” e testimonianza del disinteresse di Khartoum riguardo l’implementazione del CPA e quindi della pacificazione nazionale.

 

L’autoritarismo di El Bashir e i diritti umani

Un altro motivo di scontro si è avuto recentemente con la decisione di Khartoum di espellere l’ambasciatore dell’Unione Europea (UE) Kent Degerfelt, l'incaricato d'affari canadese Nuala Lawlor e il responsabile delle operazioni di CARE International in Sudan Paul Barker, tutti accusati di essersi intromessi in affari interni di competenza governativa. La preoccupazione è che il proseguire in tale condotta potrebbe moltiplicare le richieste di sanzioni, danneggiare i già tesi rapporti diplomatici con la comunità internazionale e quindi compromettere le negoziazioni di ottobre in Libia. Il SPLM si è detto indignato per la condotta unilaterale del NCP che ha agito senza consultare nemmeno in modo informale i rappresentanti del sud, anch’essi al governo.

Tale espulsione rappresenta in modo inequivocabile l’atteggiamento intransigente che El Bashir sta utilizzando contro chiunque critica o non condivide il suo operato: in agosto il governo ha disposto senza rilasciare motivazioni ufficiali la confisca di 15.000 copie del settimanale Al-Midan legato al Partito Comunista che sta all’opposizione mentre il Ministero della Giustizia ha vietato ai media nazionali di parlare del tentativo di golpe operato da alcuni ex militari e politici dell’opposizione, e richiesto l’arresto del presidene di Amnesty International, accusato di diffondere falsità e di influenzare il normale corso della giustizia. L’organizzazione ha imputato al governo l’utilizzo sistematico durante le indagini di pratiche illegali quali torture, violenze e intimidazioni.

All’inizio di settembre il presidente ha nominato - in modo altrettanto unilaterale – il Ministro per gli Affari Umanitari, Ahmed Haroun, capo del comitato per i diritti umani; secondo Human Rights Watch, Ahmed Haroun sarebbe tra i finanziatori dei Janjaweed e il principale responsabile delle atrocità commesse in Darfur tra il 2003 e il 2004. La nomina ha sollevato un coro di polemiche gettando ulteriore discredito sulla figura del presidente El Bashir.

Ufficiali ONU hanno inoltre criticato la legislazione sudanese, che darebbe poche garanzie riguardo la tutela dei diritti umani e che assicura l’immunità per quei rappresentanti di polizia e forze armate accusati di crimini. Molte organizzazioni internazionali si sono mobilitate per richiedere la persecuzione per vie legali dei responsabili dei crimini contro l’umanità commessi in Darfur (tra i principali i miliziani Janjaweed sostenuti dal governo) ma finora ben poche azioni in tal senso sono state prese da Khartoum, che continua a negare un suo coinvolgimento.

 

Le mancanze della comunità internazionale

Alcune responsabilità devono essere attribuite anche alla comunità internazionale, la cui attenzione dopo il raggiungimento dell’accordo del 2005 si è spostata sul disastro umanitario nel Darfur, trascurando le problematiche del periodo post-bellico e l’implementazione del CPA che, come già riportato, rischiano di mettere in discussione il fragile equilibrio tra nord e sud. Il governo di Juba, supportato da buona parte dell’opinione pubblica locale, ha più volte affermato che l’aumentare delle tensioni è imputabile anche alla mancata realizzazione degli impegni presi dai donatori internazionali: il Multi Donor Trust Fund (MTDF), approvato nel 2005 e amministrato dalla World Bank (WB) doveva assicurare al sud del Sudan mezzo miliardo di dollari in progetti di sviluppo e ricostruzione, ma finora ne sono stati utilizzati solo 80 milioni. La ricomposizione del tessuto sociale e un miglioramento delle condizioni di vita generali attraverso una maggiore condivisione delle ricchezze nazionali sono ritenuti obbiettivi fondamentali per bloccare la nascita di tensioni destabilizzanti, ma l’assenza di un sicuro interesse internazionale potrebbe vanificare i risultati finora ottenuti.

 

Il dramma del Darfur

Mentre l’Onu e l’Unione Africana (UA) si preparano ad inviare i 26.000 soldati della United Nations/African Union Mission In Darfur (UNAMID), tra le forze regolari governative, le milizie alleate Janjaweed e i gruppi ribelli continuano gli scontri facendo vittime tra i civili e gli operatori umanitari. Secondo il Segretario ONU Ban Ki Moon, che ha recentemente visitato il paese, la risoluzione della crisi necessita di un approccio multidimensionale che includa temi quali la desertificazione, la scarsità di risorse come l’acqua, il confronto con le rivendicazione dei ribelli oltre naturalmente alla cessazione delle violenze. La complessità del problema non deve però far passare in secondo piano le grandi e probabilmente determinanti responsabilità di Khartoum nel disastro umanitario: genocidio, pulizia etnica, sistematiche violazioni dei diritti umani e sono le accuse che la totalità della comunità internazionale, con qualche significativo distinguo di Cina e Russia (Cfr. Sudan: braccio di ferro tra Pechino e Washington), rivolge al governo di El Bashir; Secondo Amnesty International Khartoum acquista armi da Mosca e Pechino, eludendo così l’embargo ONU sulle armi.

Il 27 ottobre in Libia si terranno i colloqui di pace sotto la leadership ONU-UA che chiederanno al presidente sudanese di impegnarsi formalmente nel disarmo dei Janjaweed e nella cooperazione con la Corte Criminale Internazionale per mettere fine all’impunità e arrestare i colpevoli di crimini. Con l’eccezione del Sudanese Liberation Army (SLA), il resto dei gruppi ribelli dovrebbe partecipare alle negoziazioni tra cui lo United Front for Liberation and Development (UFLD), nuova alleanza formata da 5 fazioni che ha affermato di voler proteggere il lavoro delle organizzazioni umanitarie. Secondo alcuni rappresentanti governativi sudanesi dietro allo UFLD si cela la presenza del governo eritreo, nemico di Khartoum, che potrebbe portare ad ulteriori scontri con i Janjaweed.

 

Conclusioni

Nonostante l’accordo di pace stipulato nel 2005, la presenza di questioni irrisolte come la mancata condivisione del potere e delle ricchezze nazionali, la marginalizzazione dei gruppi minori e le responsabilità di Khartoum nel conflitto in Darfur rischiano di far nuovamente precipitare nel caos l’intero paese. Il futuro del Sudan risulta così legato all’evolversi dei rapporti tra centro e periferia e alle negoziazioni di ottobre in Libia, che chiarificheranno le reali intenzioni del presidente El Bashir.

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