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La crisi dell’UE e le memorie divise dell’Europa

Leonardo Paggi, Geoff Eley, Wolfgang Streeck

14565059801 1024x562 1457688600Pubblichiamo la traduzione di alcuni estratti da un’intervista di Carlo Spagnolo (Università di Bari) con Geoff ELEY, Università del Michigan (G.E.), Leonardo PAGGI, Università di Modena (L.P.), e Wolfgang STREECK, Max-Planck-Institut für Gesellschaftsforschung, Colonia (W.S.), già pubblicati in lingua inglese sul Blog di Sergio Cesaratto (Università di Siena) [e su Sinistrainrete]. L’intervista sarà prossimamente pubblicata integralmente su “Le memorie divise dell’Europa dal 1945”, volume monografico della rivista “Ricerche Storiche”, n. 2/2017. Questo eccezionale documento è un dialogo illuminante sulle cause dell’attuale crisi europea, e sui possibili scenari che si prospettano per l’Unione, i paesi membri, ed i popoli europei.

* * * *

1. Fin dai suoi inizi, l’integrazione europea ha incontrato resistenze e attraversato fasi di stasi e di involuzione, ma la crisi odierna presenta caratteristiche inedite e ben più gravi. A partire dalla bocciatura del trattato costituzionale in Francia e Olanda nel 2005 abbiamo assistito alla crescita di movimenti “populisti” nazionali contrari all’immigrazione e alla deregolamentazione del mercato del lavoro, ad una rinascita del nazionalismo in diversi paesi ed al voto a favore della Brexit del 23 giugno (2016). Questa crisi di rigetto è forse legata alla quasi innaturale e incredibilmente rapida espansione delle dimensioni e delle competenze dell’UE dopo il Trattato di Maastricht del 1991-92? È questo il prezzo da pagare per le eccessive ambizioni dell’UE o per il “deficit democratico” sul quale è stata costruita?

(W. S.) Oggigiorno è ormai quasi scontato rispondere affermativamente ad entrambe le domande: ambizioni eccessive e deficit democratico allo stesso tempo. Certamente l’integrazione ha superato i limiti oltre i quali inizia ad avere ripercussioni sulla vita quotidiana, in particolare dal momento che i paesi membri sono divenuti quanto più eterogenei. Il “nazionalismo”, come lo definisci tu, è sempre esistito, tranne in Germania e, probabilmente, in Italia – due paesi i cui cittadini sono stati per lungo tempo disposti a scambiare la loro identità nazionale con una europea. Altrove è rimasto circoscritto all’interno dei confini nazionali, che erano ancora rilevanti. Tutto questo è cambiato con il simultaneo allargamento ed approfondimento dell’Unione. Inoltre, per quanto riguarda il nazionalismo, si ricordi che il Mercato Interno e l’unione monetaria, e in particolare le “operazioni di salvataggio” di governi e banche, contrappongono i paesi membri l’uno contro l’altro, facendoli competere a livello economico e scontrarsi sia sul tema dell’austerità che della “solidarietà”.

(G. E.) Entrambe le spiegazioni sono rilevanti, a mio parere. Ovviamente, è importante ricordare che l’identificazione popolare con l’”Europa” è sempre stata significativamente variabile tra regioni diverse, a seconda dei periodi, ed in ciascuna delle numerose divisioni sociali interne, da paese a paese – a seconda se l’”Europa” sia intesa come l’UE in sé stessa, il “progetto europeo” in qualche accezione politicamente coerente, un insieme di ideali generalmente diffusi ma comunque significativi, una sorta di eurocentrismo definito in senso negativo, o l’effetto cumulativo di un’elaborata serie di convenienze e riconoscimenti pratici (ossia il processo di “crescita comune” nel tempo tramite incontri collettivi, circuiti di comunicazione, scambi nel settore dell’istruzione, interconnessione professionale ed amministrativa, mercati del lavoro integrati, movimenti pan-europei delle persone sempre più frequenti,  apparati normativi europei ramificati e, da ultimo ma non meno importante, il calcio). Nella prima fase (1957-anni Settanta) il Mercato Comune si è basato su un ostinato pragmatismo economico e geopolitico (una sorta di internazionalismo imbastardito), sviluppato lungo l’asse principale Francia-Germania Ovest e fermentato da elementi di intellettualismo europeista in grado di esercitare un’influenza sproporzionata. Fu solo durante gli anni Ottanta che l’”Europa” acquisì un’attualità pratica genuinamente popolare, con le conseguenze “oggettive” di processi integrativi cumulativi, la coalizione tra meccanismi istituzionali e legislativi, e l’emergenza di un progetto europeo più coerente. In tal senso, l’Atto Unico Europeo e Maastricht consolidarono una presenza europea la cui penetrazione verso il basso nelle rispettive società europee divenne incredibilmente efficace. Nel contempo, importanti processi di mutamenti destabilizzanti hanno continuato a minare tale potenziale. Due di questi sono quelli espressi nella sua domanda. Per prima cosa, l’inarrestabile campagna di espansione ha reso ingovernabile la coesione ed efficienza politica della stessa UE, sia come edificio istituzionale di negoziazione politica che come modello identitario popolare. Secondariamente, il carattere irrimediabilmente anti-democratico dell’assetto istituzionale dell’Unione (banalmente riassunto nel concetto di “deficit democratico”), che pure era evidente fin dagli inizi, è adesso esacerbato al punto da diventare una disfunzione cronica. Aggiungerei inoltre che, in terzo luogo, nonostante negli anni Ottanta vi siano stati segnali promettenti in direzione di politiche operative di miglioramento collettivo e promozione di servizi pubblici a livello europeo (l’”Europa sociale”), ogni parvenza di impegno social-democratico o persino social-liberale per politiche redistributive è stato da tempo sacrificato all’interesse del progetto economico neoliberista prevalente. Quarto, dopo il 2008, la rigida adesione a politiche di austerità ha clamorosamente contraddetto ogni eventuale residuo retorico di un progetto comune europeo. Per finire, l’incapacità politica dell’UE a fronte del perpetuarsi della crisi dei rifugiati non ha soltanto posto gli stati membri e le popolazioni sotto specifiche e sempre più intollerabili pressioni, ma ha anche continuamente evidenziato l’inefficienza politica dell’UE.

(L. P.) Le ragioni della crisi sono molto più profonde e sono da ricondursi al progetto di governance economica adottato al momento della creazione della moneta unica. Trovo sempre particolarmente illuminante rileggere il modo in cui Guido Carli, all’indomani della firma del Trattato di Maastricht (alla quale aveva partecipato in quanto ministro del Tesoro del governo italiano nel febbraio 1992) commentava nei suoi appunti personali il significato e le conseguenze di quella scelta:

l’Unione Europea implica la concezione dello ‘Stato Minimo’, l’abbandono dell’economia mista, l’abbandono della pianificazione economica, la ridefinizione delle modalità di ricomposizione della spesa, una redistribuzione delle responsabilità che restringa i poteri delle assemblee parlamentari a favore dei governi, l’autonomia impositiva per gli enti locali, il ripudio del principio della gratuità diffusa (con la conseguente riforma della sanità e del sistema previdenziale), l’abolizione della scala mobile, la drastica riduzione delle aree di privilegio, la mobilità dei fattori produttivi, la riduzione della presenza dello Stato nel sistema del credito e dell’industria, l’abbandono di comportamenti inflazionistici non soltanto da parte dei lavoratori, ma anche dei produttori di servizi, l’abolizione delle normative che stabiliscono prezzi amministrati e tariffe. In una parola: un nuovo patto tra lo Stato e i cittadini a favore di questi ultimi.

Siamo dinanzi a un quadro brutale ma estremamente nitido che riassume in poche righe il significato e la direzione di marcia di un processo politico che sta per investire l’Europa nel suo insieme: drastica riduzione dei poteri dello Stato sia in termini di politica economica che di politica industriale, smantellamento della mano pubblica e dei poteri di orientamento del mercato ad essa connessi, manomissione del sistema assistenziale e pensionistico,  riduzione dei poteri di contrattazione del sindacato, trasferimento dei poteri dal parlamento all’esecutivo.  A distanza di un quarto di secolo siamo in grado di apprezzare i risultati di un sistema di scelte che hanno eroso sistematicamente e quasi scientemente le basi economiche e sociali su cui si è ricostruita la democrazia in Europa dopo il 1945.

 

(…)

 

6. La “fine della storia”, di cui scriveva Fukuyama nel 1992, sembra oggi più applicabile all’Europa che agli Stati Uniti, nel senso che la frase non si riferisce solo ad una crisi che incide sull’idea di progresso, ma anche alla fiducia che l’UE offra una stabile soluzione ai conflitti politici. Lo si può vedere, ad esempio, nella trasformazione della politica in amministrazione, e nelle illusioni sull’eliminazione della guerra e sulla fine dei conflitti ideologici. Perché la politica oggi sembra avere così poca necessità della storia e così tanto bisogno di memorie?

Ci troviamo in un periodo di trasformazione del politico che tende a separare la politica dall’economia e dalla storia, oppure il dibattito emergente sulla memoria è solo un sintomo di invecchiamento demografico, una febbre intellettuale che si estende anche alle scienze sociali?

(G. E.) In linea generale sono molto d’accordo con il pensiero espresso in questa domanda. Ma allora, lungi dal confermare un’eventuale separazione della politica e dell’economia dalla storia, gli appelli politici decisamente efficaci della destra populista non finiscono piuttosto con il dimostrare il contrario? L’idea che “ci troviamo in un periodo di trasformazione della sfera politica” è certamente affascinante, ma necessita di ulteriori declinazioni.

(L. P.) In una notevole analogia con gli eventi dell’inizio del XX secolo, quando la teoria dell’imperialismo fu elaborata grazie al contributo di analisti politici di diverso orientamento (Hobson, Hilferding, Lenin, ecc.), i protagonisti della globalizzazione sono ancora una volta i grandi Leviatani, gli stati nazionali ricchi non solo di risorse economiche, ma anche di storia e identità. È questo il vero motivo della competizione tra Stati Uniti e Cina, per non parlare della rinata influenza geopolitica della Russia post-Sovietica, che da tante parti si vorrebbe esorcizzare attribuendone le colpe al “cattivo” Putin; e la straordinaria crescita dell’economia indiana non è forse dovuta anche alla massiccia struttura statale ereditata dal colonialismo britannico? Anche i periodi più positivi delle economie sudamericane coincidono sempre con un rafforzamento dello stato con l’emergere di una forte leadership populista. Nella crisi mediorientale, infine, la crescente influenza di stati forti di tradizione antica, come l’Iran e la Turchia, si contrappone alla permanente frammentazione politica del popolo arabo, che non è riuscito ad andare oltre il Califfato.

Tanto più singolare risulta dunque il contrasto tra un tale assetto globale e un’Unione Europea definita da un sistema insensato e auto-distruttivo di “moneta senza stato” (pare che questa frase sia stata coniata dal nostro Tommaso Padoa-Schioppa!), che viene in ogni caso tenuto insieme dalla supremazia e arroganza della Germania. Per abbandonare il cosmopolitismo gerarchico di Maastricht e tornare ad una prospettiva realmente federale sarà necessario sbarazzarsi di un’intera cultura, una cultura di subalternità che ha consegnato il destino di un continente al capitale finanziario, con il rischio di cancellare un’intera civiltà. Ecco la ragione principale della grande crisi identitaria che attualmente affligge la nostra Europa.

(W. S.) Trovo questa domanda talmente complessa da poter soltanto fornire una serie di aspetti, più o meno scollegati tra loro, di quella che potrebbe alla fine risultare una risposta sufficientemente esauriente. Esiste nell’Europa contemporanea un bisogno di memoria distinta dalla storia? Chiaramente c’è bisogno di storie selettive fittizie, o memorie, che travestano una politica economica post-democratica, consumistica, neoliberista e hayekiana, da modello accettabile di società. Ci saranno abbastanza persone disposte a crederci così da renderle generalmente accettate e riconosciute? Centinaia di migliaia di esperti in pubbliche relazioni ci stanno lavorando e si industriano a vendere i diritti LBGTIQ, le frontiere aperte e le comunità artificiali di Facebook e Twitter come pietre miliari della storia. Che la politica diventasse amministrazione era infatti un ideale storico (marxista) di progresso – che nell’Europa di oggi si è materializzato nell’incubo di una tecnocrazia al riparo dalla politica, in modo da proteggere l’elettorato dalla tentazione del “populismo”. Riuscirà la gente a riconoscere che si tratta di un imbroglio, a capire quale tragedia discende dall’accettare quest’ideale come oro colato? Anche la presunta sparizione della guerra viene presentata come un progresso, ma principalmente in termini di fine dell’obbligo per i giovani di servire nell’esercito del proprio paese, il che riduce ulteriormente gli obblighi tradizionalmente associati ai diritti di cittadinanza (diritti che nel frattempo sono divenuti beni di consumo, in un contesto generale in cui il progresso è ridotto e concepito esclusivamente in termini di incremento delle libertà individuali). La guerra è stata da tempo delegata agli Stati Uniti e a Forze Speciali altamente specializzate, mantenute da tutti i paesi dell’Europa occidentale ma operanti in assoluta segretezza, cosicché nessuno nota niente – e in assenza della leva obbligatoria tradizionale, a nessuno interessa granché. Lo stesso vale per le gli armamenti tecnologici moderni, come i droni. Al momento, ovviamente, la storia in quanto guerra ritorna in forme nuove, con Stati al collasso nella periferia del capitalismo, flussi di rifugiati che esportano la loro miseria verso le aree prospere dell’Europa, ed il fondamentalismo religioso a portare violenza nelle sue città.

L’assenza diffusa di coscienza storica e gli sforzi spesso riusciti di colmare i vuoti con “memorie” immaginarie – ad esempio, il fatto che la pace in Europa sarebbe dovuta all’Unione Europea – potrebbero essere causati da un fenomeno forse senza precedenti, ossia da cambiamenti rivoluzionari che si susseguono in modo lento, ma graduale, senza forti sbalzi, da almeno due generazioni politiche, senza che se ne riesca a intravedere la fine. Se la dimensione storica di quella che viene chiamata una rivoluzione neoliberale è solo raramente evidenziata, e può esserlo solo con grande sforzo, ciò si potrebbe spiegare con il fatto che essa si è evoluta nell’arco di così tanto tempo, senza drammatiche rotture o interruzioni. Dunque ciascuna generazione vede solo una piccola parte dell’imponente processo di crisi e mutamento in corso dagli anni ‘70, e dunque può percepire soltanto differenze minime o nulle tra l’inizio e la fine del periodo storico in osservazione. Poiché la reale dinamica storica dei nostri tempi si può riconoscere solo a distanza, essa non è visibile da tutti coloro che non possono o non sono disposti a prendere le distanze dalla loro vita quotidiana. Per questo è così urgente che oggi le scienze sociali abbandonino i loro vezzi accademico-sistemici e ritornino a un approccio che riconosca adeguatamente la natura storica del mondo sociale.

 

7. Con la riunificazione della Germania e l’apertura dell’Europa dell’Est, la narrazione prevalente si è concentrata sul superamento della Guerra Fredda e sull’idea che la Vergangenheitsbewältigung (superamento del passato) fosse ormai completa; ogni capitolo oscuro nella storia nazionale, a cominciare dalla Germania, doveva essere portato alla luce, e illuminare l’Olocausto come base di una cultura comune dei diritti umani. Come rilevava Walser nel 1998, la Monumentalisierung der Schande (Monumentalizzazione della vergogna) sembra quasi chiamata a garantire la moralità della odierna politica.

Sembra che quel progetto, che forse non è mai stato perseguito con coerenza, stia naufragando: paradossalmente, la costruzione di una inclusive memory, perseguita con la diffusione di giornate della memoria  intitolate alle vittime dei “totalitarismi”, non ha prodotto una “memoria europea” quanto memorie di gruppi o nazioni che rivendicano lo status di vittima e contestano radicalmente le “verità ufficiali” precedenti. Per contro, le storiografie post-nazionali si rifugiano in un “patriottismo moderato” – non privo di autocompiacimento – che mira ad una “normalizzazione” del passato nazionale.  È possibile una “memoria europea”, e quali caratteristiche dovrebbe avere per salvaguardare la democrazia dal ritorno di identità escludenti e conflittuali?

(G. E.) Anche stavolta condivido pienamente il pensiero espresso in questa domanda. Il “linguaggio del trauma” ha acquisito una posizione di dominanza talmente pervasiva che una ferita traumatica di ingiustizie passate è oggi la motivazione più forte per avanzare efficacemente richieste politiche, anzi, quanto più tragica la propria storia tanto meglio – schiavitù, spoliazioni coloniali, espulsioni, genocidi, qualsiasi tipo di discriminazione, sofferenza collettiva o violazione di diritti. Il ricorso ad un linguaggio della memoria identitaria traumatizzata non solo si sostituisce al richiamo a più tradizionali ideali universali, ma spettacolarizza anche la sofferenza e l’ingiustizia, cosicché qualsiasi esperienza drammatica di eccezionale violenza viene implicitamente privilegiata quale motivo principale per legittimare e rafforzare richieste politiche che divengono ora necessarie. Nel contempo, gli altri motivi principali dell’azione democratica – ad esempio, gli ideali positivi di auto-realizzazione ed emancipazione sociale o la banale sofferenza per povertà e sfruttamento quotidiani, divengono molto meno convincenti. In tal senso, una politica della “memoria” tende a condizionare più che ad aiutare. Il lavoro sulla memoria – l’elaborazione di un passato difficile e compromesso – dal 1945 è sempre stato fondamentale per la ricostruzione della cultura politica democratica in Europa, e in modo particolarmente straordinario in Germania (dove è alla base del processo di Vergangenheitsbewältigung fin dagli anni Sessanta). Inoltre, come continuano a mostrare gli attuali avvenimenti in Germania, ciò rimane necessariamente in evoluzione, le motivazioni continuano a complicarsi e risistemarsi, talvolta in modi pericolosi e inaspettati. Ma quel lavoro politico sulla memoria era sempre guidato da visioni utopiche di una società migliore, orientate al futuro ed inevitabilmente contestate, sia che si trattasse del 1968, della metà degli anni Ottanta o dell’indomani dell’unificazione. Senza una visione equivalente di un futuro democratico che sia desiderabile, concepito con generosità, e realisticamente fattibile – dolorosamente assente al centro dell’attuale discorso politico all’interno dell’UE – non è possibile avere una “memoria europea” che sia degna di questo nome.

(W. S.) La Germania Ovest fu riorganizzata come paese democratico-capitalista negli anni Cinquanta e Sessanta, quando l’Olocausto non era ancora altrettanto presente nella memoria pubblica di quanto lo sia oggi. Anche qui la NATO e l’americanizzazione della vita sociale hanno giocato un ruolo molto più significativo della storia e della memoria. Oggi la Shoa ed in generale i crimini nazisti hanno largo spazio nella coscienza della Germania scolarizzata, o della Germania della cultura in generale: non è possibile, in quanto tedeschi, aderire ad un tipo di patriottismo sciovinista. Al contrario, c’è la consapevolezza, o la costante possibilità che venga ribadito, che un intero popolo, persino uno che che si vanti di essere stato l’avanguardia della civiltà, può essere portato, o può portare sé stesso, a ricadere nella peggiore barbarie. E tuttavia, la conoscenza della storia non può essere insegnata facilmente alla generazione Twitter, nemmeno in Germania, e per i giovani che stanno crescendo oggi, la prima metà del XX secolo è un’epoca remota quanto il Medio Evo. Per di più, la memoria collettiva, persino quella tedesca, non è politicamente molto istruttiva. Ad esempio, il genocidio commesso dalla Germania contro il popolo ebraico non dice quanti immigrati la Germania odierna dovrebbe accogliere annualmente, o da quali paesi – né tantomeno che tipo di istituzioni sovranazionali europee la Germania dovrebbe contribuire a costruire e sostenere. Non prevede neanche precise istruzioni sulla politica della Germania verso Israele: è più appropriato per la Germania sostenere qualsiasi azione del governo israeliano per difendere l’esistenza dello Stato di Israele, oppure sarebbe meglio impegnarsi rigorosamente per i diritti umani e il diritto internazionale, anche se ciò significherebbe schierarsi con i palestinesi di Gaza nella loro lotta contro l’attuale governo israeliano? Particolarismo o universalismo?

Per quanto riguarda il “patriottismo”, il suo significato cambia da paese a paese e tra individui, e si evolve nel tempo. Basta guardare come la squadra italiana di calcio canta l’inno nazionale prima di una partita, e confrontarla con il modo in cui lo cantano i tedeschi, se pure lo fanno. Da un lato, come sanno bene i sociologi, gli uomini si identificano come membri di un gruppo e sviluppano fedeltà ai gruppi con i quali si identificano. I tedeschi non sono sostanzialmente diversi sotto questo aspetto, per quanto il loro attaccamento al loro paese tende ad essere temperato dalla memoria del Nazismo e del genocidio, come prima evidenziato. Ma può durare? Certamente è diverso per il gran numero di immigrati che si stanno attualmente insediando in Germania. I tedeschi di origine turca, palestinese o eritrea non sembrano molto propensi a considerarsi partecipi di qualsiasi tipo di responsabilità storica per l’Olocausto. Ed è anche vero che, rispetto alla generazione che li ha preceduti, i giovani tedeschi di oggi quando si trovano all’estero sono meno inclini a tacere quando vengono accusati personalmente per il passato nazista tedesco. In poche parole, ritengo che un legittimo sistema europeo di pace e cooperazione non può essere costruito su memorie storiche, né sull’accettazione da parte della Germania della sua responsabilità per il peggior crimine contro l’umanità del XX secolo, se non di sempre. E ritengo anche che una “memoria europea” che abbracci l’intera esperienza storica dalla Norvegia alla Sicilia e dall’Irlanda alla Romania non sia altro che una chimera.

(L. P.) Fino agli anni Settanta, la coscienza storica europea si è caratterizzata per una somma di memorie nazionali che in qualche misura hanno ignorato, nelle loro separazione, il declassamento geopolitico che alla fine della seconda guerra mondiale ha colpito il continente nel suo insieme. Sono memorie divise, e anzi spesso contrapposte, ma tutte egualmente anti-tedesche. E ancora, memorie segnate da fenomeni di omissione e insieme di autoesaltazione. La memoria inglese celebra la dura sconfitta inflitta alla Germania nazista, ma dimentica la fine dell’Impero. La memoria francese mette tra parentesi Vichy per esaltare la continuità ininterrotta della tradizione repubblicana. La memoria italiana dilata oltre misura il consenso acquisito dalla Resistenza per sostenere un programma di rinnovamento democratico e di modernizzazione del paese che si scontra con tenaci residui feudali. Non si può tuttavia trascurare che proprio in ragione della loro parzialità (ma quando mai una memoria è stata riproduzione fedele  del leopardiano ’”arido vero”?), queste memorie sono contrassegnate da una inequivocabile volontà democratica e antifascista, quella stessa che viene scritta (ad eccezione della Germania) nelle costituzioni postbelliche che predicano non solo la libertà e l’eguaglianza, ma anche l’esistenza di condizioni e strumenti concreti per la loro attuazione.

Cultura dell’antifascismo, stato sociale e politiche keynesiane sono i tre tratti distintivi dell’equilibrio ideologico e politico degli stati nazione europei prima che la grande bufera della cultura liberista imponga con ladi forza il nuovo orizzonte della globalizzazione, con politiche economiche aggiogate al pareggio di bilancio, e una crescente limitazione delle sovranità nazionali imposta dai capitali finanziari in libera uscita. Si origina in questo nuovo contesto  ufficializzato da Maastricht il progetto Ue di una memoria europea, che abbandonando il richiamo tradizionale, e in qualche modo d’obbligo, alla seconda guerra mondiale, assume l’Olocausto come tema comune che si soprammette alla molteplicità e la diversità dei contesti nazionali. Si tratta di un’operazione burocratica che ha lo stesso carattere astratto e impositivo di tutta la  legislazione della governance europea. Prende forma una memoria/dispositivo, sganciata da qualsiasi esperienza storica reale, che si impone attraverso la proliferazione di leggi (nel 2009 arriva anche l’obbligo della memoria del patto Molotov-Ribbentrop), con le relative sanzioni per i trasgressori.

Del resto la memoria dell’Olocausto, isolata dal contesto della seconda guerra mondiale in cui si poduce, diventa  simbolo di un Male assoluto, oblitera Stalingrado e il ruolo svolto dall’Unione sovietica nella determinazione della sconfitta del nazismo, per approdare alla piena affermazione di una teoria dei due totalitarismi che soprattutto in Europa orientale finisce con l’alimentare la ripresa di memorie apertamente fasciste.

 

8. La gestione del debito della Grecia e dei PIGS, il problema dell’Ucraina, l’emergenza dei profughi, il rapporto con la Turchia, mostrano un’assenza di elaborazione politica comune, e quindi accrescono il peso dei singoli stati e soprattutto della Germania. Quest’ultima si sforza di mediare ed è anche disposta a pagare qualche prezzo ma non sembra in grado di elaborare una visione politica adeguata  alle diversità e allo spessore storico dei conflitti tra gli stati membri. A cosa si deve ricondurre il disinteresse delle classi  dirigenti ad una politica di crescita comune dell’UE? Pesa forse nella cultura della Germania o di altri paesia cultura del paese più importante, la Germania, troppo influenzata da una sorta di autoreferenzialità seguita per gli uni ai successi della riunificazione e dell’allargamento e per gli altri alla nostalgia della guerra fredda? È possibile che la carenza di visione abbia a che fare con la complessiva perdita di cultura storica delle classi dirigenti europee e della loro capacità di pensare il conflitto?

(L. P.) La crisi del 2008 ha fatto piena chiarezza sulla posizione di comando che la Germania ha realizzato per vie di fatto  nella Europa di Maastricht. Dietro il paravento del governo impersonale delle regole si è prodotta un’aperta politicizzazione di tutti i rapporti interstatuali. Le crisi che scuotono la Grecia nel 2010 e poi ancora nel 2015 testimoniano in modo plateale l’esistenza di una struttura rigidamente oligarchica dotata di un ferreo potere di controllo non solo sul terreno della politica economica, ma anche su quello degli equilibri politici. In Italia il governo Monti del novembre 2011 è stato caratterizzato da una forte limitazione del potere di controllo del bilancio pubblico da parte del presidente del consiglio che si perpetua poi con i governi successivi.

A partire da questo dato di fatto ha preso corpo la rappresentazione, a mio parere fuorviante, della Germania come “egemone riluttante” su cui è tornato più volte Jugen Habermas, e di cui si è fatto interprete anche in Italia un rispettabile studioso di cose tedesche come Gian Enrico Rusconi.

L’economia tedesca è oggi strutturalmente incapace di svolgere quella funzione di locomotiva che si continua ad ipotizzare in astratto.   La storia dello sviluppo capitalistico ha già esibito compiutamente i tratti di un modello di egemonia sovranazionale con il  ruolo di traino che il mercato interno Usa ha svolto fino alla metà degli anni Settanta  per l’intero sistema occidentale. Il modello tedesco, di contro, basato sull’aumento esponenziale delle esportazioni e il conseguente contenimento della domanda interna non solo non offre alcuna possibilità di espansione al resto dei paesi europei, ma chiede anzi loro di perseguire lo stesso obbiettivo della crescita della competitività con l’abbassamento dei salari e lo smantellamento dei sistemi previdenziali e pensionistici. Queste “riforme interne” hanno provocato quelle massicce perdite di potere di acquisto che ostacolano oggi pregiudizialmente  qualsiasi tentativo di rilancio delle economie europee. La parola d’ordine di questo modello economico è: crescita senza eguaglianza. Nel suo libro Buying Time: The Delayed Crisis of Democratic Capitalism, Wolfgang Streeck ha sottolineato opportunamente il significato delle “riforme interne” imposte dalla Germania e le enormi perdite in potere d’acquisto da esse provocato, che oggi rischia di vanificare qualsiasi tentativo di resuscitare le economie europee.

E tuttavia non intendo con questo demonizzare il ruolo della Germania che si avvale indiscutibilmente del consenso di una vasta “coalizione di volenterosi”. Occorre prendere atto che la linea tedesca della austerità può perpetuarsi solo nella misura in cui aggrega  in Europa una vasta area di consenso, non solo tra le clasi politiche conservatrici (che dominano incontrastate dopo il suicidio commesso dalla socialdemocrazia negli anni Novanta), ma anche tra i ceti imprenditoriali. La politica di austerità ostacola sicuramente la crescita della torta e quindi l’occasione di investimenti remunerativi. E tuttavia, nello stato di prostrazione in cui versa ovunque la rappresentanza sindacale e politica del lavoro, di questa torta è possibile appropriarsi in quote sempre crescenti. I profitti possono aumentare senza che ci si debba sobbarcare il rischio politico del conflitto redistributivo  che inevitabilmente si riaprirebbe in una situazione di crescita. La Germania è oggi il punto di riferimento di un vasto schieramento di forze europee apertamente conservatrici che sostengono equilibri economici e politici di carattere neomaltusiano.

Non è un caso che la richiesta di stanziamenti europei per finanziare gli investimenti e stimolare la crescita, fatta da Macron subito dopo la sua elezione, sia già stata rifiutata. Come al solito, l’accusa è stata di voler trasformare l’unione monetaria in un’unione di trasferimenti, contro l’interesse della Germania. La Germania si contende ancora una volta il primato in Europa sulla base di un modello gerarchico e coercitivo.

(G. E.) Ciascuno dei gravi problemi appena menzionati ha causato l’inasprimento di quei particolarismi nazionali che l’UE avrebbe storicamente dovuto trascendere, o quantomeno trovare i mezzi per mediare e contenere in maniera costruttiva. Non vi è dubbio che le rispettive crisi, anche a causa della loro convergenza e interconnessione, hanno raggiunto livelli di gravità che complessivamente consolidano la crisi generale in corso del “progetto europeo” tout court. Certo, la Germania ha talvolta fornito una guida lungimirante. Ma all’iniziativa della Merkel sulla questione dei rifugiati, sorprendentemente ardita quanto arbitraria, ha abbondantemente corrisposto l’attaccamento spietato di Schäuble alle misure di austerità richieste dalle ortodossie prevalenti. La visione tedesca della politica si potrebbe magistralmente descrivere come una “sorta di auto-referenzialità”. Ma proprio l’inflessibilità politica di Schäuble arriva a suggerire una sorta di rinnovata ambizione verso un’idea di Mitteleuropa, non manu militari ma comunque di concezione comparabile a quella dell’inizio del XX secolo, sospetto che viene tragicamente confermato dall’arroganza che ha accompagnato la crisi del debito greco. Questa crisi ha messo a nudo la sempre minore validità morale e politica di ciò che resta degli ideali “europeisti”, poiché se tali ideali conservassero un qualche significato affidabile, efficace e nettamente internazionalista, la difficile situazione greca avrebbe dovuto essere un’opportunità per avviare un dibattito più costruttivo, e uno stimolo per un intervento realmente europeo. Proprio l’estrema debolezza della Grecia all’interno dei rapporti di forza complessivi dell’UE e dell’economia globale più ampia (elemento che condivide con altri paesi PIGS) avrebbe sicuramente dovuto costituire un impellente invito ad un’azione morale-politica e a porre rimedio socio-politico in modo costruttivo, invece che all’imposizione di correzioni di disciplina fiscale. E tuttavia, non solo “i greci” sono stati umiliati e penalizzati (all’interno di un dibattito pubblico vergognosamente intriso di disprezzo e quasi di razzismo), ma per di più la loro stessa situazione di indebitamento strutturale e di dipendenza era stata originata proprio dal meccanismo fiscale dell’UE e dagli interessi capitalistici dominanti. La crisi politica sarebbe già abbastanza grave anche in assenza del quadro normativo sempre più rigido e inflessibilmente punitivo dell’UE. Ma l’effetto di quel quadro normativo effettivamente esistente nell’Unione è di massimizzare il rigore delle misure di austerità tanto sistematicamente richieste ed applicate dal governo tedesco e dai suoi alleati dell’Est e Nord Europa. All’interno di un tale contesto politico dominante, dov’è lo spazio per un’azione di cooperazione basata su principi esplicitamente internazionalisti (cioè comunitari)? Invocare ad ogni piè sospinto la storia europea ante-1945 e la fine delle divisioni della Guerra Fredda non è il modo migliore di costruire questo spazio. Si nota infatti un deplorevole fallimento politico al centro del processo decisionale nel complesso istituzionale europeo: non si riesce ad individuare nessuna prospettiva costruttiva per il futuro capace di mobilitare un entusiasmo autenticamente popolare o che contenga un richiamo che vada oltre il pragmatismo e l’egoismo economico. Al contrario, lo spazio per una militanza politica appagante a livello emotivo è stato ceduto quasi interamente alle destre populiste, e ai loro richiami sempre efficaci, per quanto pretestuosi, alla nazione e ad una presunta sovranità, a prescindere dagli aspetti xenofobi, razzisti ed islamofobi. Dopo tutto, la sempre minor presa degli argomenti esclusivamente economici, in un clima politico-economico prevalente di austerità, è diventata catastroficamente chiara col fiasco del referendum nel Regno Unito. Purtroppo, però, la leadership europea ufficiale mostra ben pochi segnali di volersi lasciare alle spalle il suo sperimentato autocompiacimento. Un eventuale rilancio del progetto europeo richiederebbe la rinuncia all’attuale ordinamento amministrativo, legislativo e tecnocratico, sempre ostinatamente ribadito.

(W. S.) La Germania non è l’unico paese a mancare di “visione politica”. I paesi “sonnambuli” sono ovunque nell’Europa odierna, e parrebbe opportuno chiedersi se aspettarsi dai nostri leader politici una tale capacità di visione non sia chiedere troppo. Perché non esiste una politica di crescita comune europea? Invece di spiegare questa carenza in relazione alla cultura tedesca, all’unificazione tedesca o all’autoreferenzialità tedesca dopo la fine della Guerra Fredda, si dovrebbe ricordare che viviamo in un mondo dove il fatiscente capitalismo è in crisi profonda ed è ormai da tempo al di fuori di ogni controllo. Perché dare per scontato che esista, o che possa esistere, una strategia di crescita comune e unica per un gruppo di paesi fortemente eterogenei quanto a strutture sociali, culture politiche, istituzioni socio-economiche, livelli di sviluppo ecc., se solo la Germania è stata capace di inventarne una? Perché aspettarsi che proprio la Germania, fra tutti i paesi, si senta in obbligo di agire come se il capitalismo fosse già stato superato, ossia “altruisticamente”? Non credo che l’incompetenza dei nostri politici necessiti di essere spiegata con la perdita di cultura storica o con un deficit intellettuale. Entrambi potrebbero comunque essere presenti, sia la perdita che il deficit. Ma ritengo che sia molto più importante il fatto che la capacità di crescita del capitalismo contemporaneo si sta esaurendo, ed è in esaurimento già da tempo – e che la struttura istituzionale plasmata dalle élite europee per la loro casa comune, l’Unione Europea, si dimostra particolarmente inadeguata quando si tratta di trovare soluzioni comuni. Paradossalmente, anche la sinistra, generalmente molto scettica sul tema del capitalismo, quando si affronta l’argomento Europa spesso tende a credere che l’attuale disagio sia essenzialmente un problema cognitivo, quando non soltanto un problema cognitivo tedesco.

Personalmente ritengo che il tempo dei grandi stati internamente diversificati, ed ancor più dei super-stati sovranazionali, sia finito – e che il futuro sia dalla parte dei paesi piccoli, come Svezia, Danimarca, Svizzera e, possibilmente, Scozia e Catalogna, capaci di utilizzare gli strumenti della sovranità nazionale per ritagliarsi una nicchia nel mercato globale nella quale sia possibile, nel bene e nel male, prosperare. A differenza di un’Europa unita, questi sarebbero capaci di coniugare intelligenza strategica e partecipazione democratica, e di rispondere agilmente in modo flessibile ai cambiamenti dell’ambiente internazionale circostante. Perché ciò accada la Germania dovrebbe rinunciare all’Euro, e paesi come la Francia e l’Italia dovrebbero decentralizzarsi e delegare poteri alle regioni, che a loro volta dovrebbero dare più voce ai cittadini, abbandonando quelle strutture sociali pre-moderne, oligarchiche e basate sulla rendita, che ostacolano un equo benessere economico – è la rivoluzione che avremmo dovuto completare negli anni Settanta, se non fossimo stati troppo pigri, codardi o miopi per farlo.

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