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Crisi capitalistica, questione europea

Per l’autonomia culturale e un nuovo internazionalismo del movimento operaio

di Alexander Höbel

Edgar Degas Dancers in Blue 1890 Canvas Art L13980725

1. Premessa

Qualche mese fa, come “Marxismo Oggi” online, decidemmo di avviare una discussione sulla questione europea, ma più in generale sul quadro internazionale, le dinamiche della crisi e le possibili strategie del movimento dei lavoratori per rispondere a tale quadro, in cui il rischio che il capitale trascini nella sua crisi anche i suoi antagonisti storici appare sempre più concreto.

All’apertura del dibattito, con un impegnato saggio di Emiliano Alessandroni (http://www.marxismo-oggi.it/saggi-e-contributi/saggi/275-economicismo-o-dialettica-un-approccio-marxista-alla-questione-europea), corrispose sui social network qualche scomposta e confusa polemica, condotta sulla base della logica binaria bianco/nero, amico/nemico, con un approccio insomma agli antipodi del metodo dialettico. Su tale tipo di atteggiamenti, che hanno già prodotto fin troppi danni nella storia del movimento comunista, si può solo commentare che essi sono parte del problema, ossia della difficoltà del movimento operaio di individuare una via d’uscita dalla grave situazione in cui si trova.

Per arricchire il confronto, oltre a ospitare vari interventi esterni alla redazione (Fosco Giannini, Domenico Moro), abbiamo anche ripreso contributi apparsi in altre sedi, dal saggio di Andrea Catone sui mutamenti del quadro mondiale, gli Usa di Trump, la Ue e l’Italia, a un articolo di Emiliano Brancaccio contro le “sinistre codiste”. Il dibattito, naturalmente, è appena agli inizi, ed è opportuno che esso continui a svilupparsi, nel reciproco rispetto e in modo costruttivo. E tuttavia qualche osservazione è possibile fare sin d’ora.

 

2. Una crisi di lunga durata

In primo luogo, credo che si debba fare un passo indietro dal punto di vista cronologico-storico, che può servirci a inquadrare meglio la questione anche sul piano teorico.

La crisi nella quale si trova il movimento dei lavoratori europeo inizia – questo è un dato su cui quasi tutti convengono – non col trattato di Maastricht o con la nascita dell’euro, ma con la ristrutturazione capitalistica degli anni Settanta del XX secolo, che – attraverso le nuove modalità produttive – ha destrutturato e frammentato il mondo del lavoro, rendendolo enormemente più debole e ricattabile, colpendone alla radice l’identità collettiva e la coscienza di classe, rendendo dunque molto più basso il suo grado di coesione e molto più problematica la sua organizzazione politica e sindacale. È un tema al quale qualche anno fa Ignazio Masulli dedicò un libro importante, sottolineando che il capitale aveva reagito alla “crisi di valorizzazione” manifestatasi nei primi anni Settanta (una vera e propria “crisi di sistema”, dovuta “al venir meno della capacità espansiva del capitalismo dei consumi” e alla riduzione dei tassi di profitto) attuando tre risposte: delocalizzazione produttiva verso paesi con minor costo della forza lavoro, avviando una concorrenza al ribasso nel mercato del lavoro internazionale; automazione e informatizzazione, con conseguente drastica riduzione della manodopera occupata; “consistente spostamento d’investimenti nel mercato finanziario”, coi relativi processi di finanziarizzazione[1]. Gli effetti di tali “salti” qualitativi sulla condizione e sul peso specifico dei lavoratori sono evidenti. Cominciava così quel “livellamento verso il basso”, quella “corsa verso il fondo”, come la hanno definita due studiosi militanti statunitensi come Jeremy Brecher e Tim Costello, che ha accresciuto la precarietà del lavoro e la polarizzazione globale “tra chi ha e chi non ha”[2]: il crescente accentramento di ricchezze e potere nelle mani del grande capitale finanziario e monopolistico, da un lato, l’impoverimento di enormi masse dall’altro.

Nei paesi a capitalismo avanzato, si assiste inoltre a una crescente “individualizzazione del lavoro”. Come ha scritto Manuel Castells, il principale studioso del “capitalismo informazionale”, “la nuova organizzazione sociale ed economica basata sulle tecnologie dell’informazione è volta al decentramento della gestione, all’individualizzazione del lavoro” e alla sua crescente “flessibilità”. Ciò segmenta e frammenta il processo produttivo e la forza lavoro, e con essa atomizza l’intera società[3]. Il che, ancora una volta, rende enormemente più difficile l’opera di organizzazione politica e sindacale dei lavoratori, e richiede un notevole sforzo di elaborazione e di prassi in tal senso. Sebbene infatti la classe lavoratrice, la “classe-che-vive-di-lavoro”, si sia ulteriormente ampliata anche nei paesi più avanzati, essa oscilla fortemente “tra l’eterogeneità nella sua forma d’essere (genere, etnia, generazione, qualificazione, nazionalità, ecc.) e l’omogeneizzazione che risulta dalla condizione crescentemente precarizzata e sprovvista di diritti”[4].

La crisi del movimento operaio europeo dunque non comincia sul terreno della moneta o su quello istituzionale, ma al contrario – marxianamente – sul terreno della produzione, e finché non si faranno fino in fondo i conti con questo dato per trovare le opportune contromisure (sociali, politiche, sindacali, organizzative), individuando i nuovi terreni comuni di azione e di lotta unitaria sarà difficile fare qualche passo avanti.

Contestualmente il capitale ha operato anche ad altri livelli, avviando già alla fine degli anni Settanta il ciclo del neoliberismo e delle privatizzazioni, colpendo il compromesso sociale keynesiano sancito nel secondo dopoguerra, destrutturando il Welfare, privando il lavoro della sua rappresentanza e in generale riducendo gli spazi di democrazia[5]. Il crollo del campo socialista e la fine dell’Urss, nel 1989-91 – in parte anche effetto di queste trasformazioni e della incapacità del blocco sovietico di tenere testa ad esse – diedero il colpo di grazia, aprendo una crisi storica nella quale il movimento dei lavoratori e tutte le forze progressive ancora si trovano. Il campo era ormai libero per la mondializzazione capitalistica e, in Europa, per quei Trattati di Maastricht che istituivano l’Unione Europea come unione economica e monetaria dai tratti fortemente neoliberisti, con stringenti “parametri di convergenza” su inflazione e debito pubblico, i quali a loro volta ponevano le basi per quella drastica riduzione della capacità di gestire la politica economica da parte degli Stati nazionali che sfocerà nel Fiscal Compact, con cui il “pareggio di bilancio” è stato addirittura inserito nella nostra e in altre Costituzioni[6], invise alla JP Morgan e in generale al grande capitale per il loro carattere democratico-sociale.

 

3. L’offensiva neoliberista e il “salto di qualità” di Unione Europea ed euro

Alla base di Maastricht, della UE e dell’euro vi è dunque un ciclo storico ventennale, le cui radici affondano nelle innovazioni produttive e nel deteriorarsi del rapporto di forza capitale/lavoro introdotti già negli anni Settanta a livello di singoli Stati, ma anche in una strategia concertata di quella che Luciano Gallino definisce “classe capitalistica transnazionale”[7], che aveva trovato in vari organismi, dal G7 alla Trilateral strumenti di coordinamento della propria controffensiva e camere di compensazione globali, il cui peso non va sottovalutato.

In questo quadro, come ha scritto Massimo Pivetti, il processo “di unificazione economica e monetaria europea, quale si è concretamente imposto nel corso degli anni Ottanta e con il Trattato di Maastricht” – ossia come “unificazione della sola politica monetaria” – ha costituito un ulteriore “progetto consapevole d’indebolimento dei movimenti operai nazionali”.

Nessun processo di unificazione politica e di connessa centralizzazione dell’intera politica economica […] ha accompagnato, compensandola, la perdita di sovranità subita da ciascuno Stato membro. Su questioni cruciali, quali sono quelle dell’occupazione e della distribuzione della ricchezza e dei redditi, si è andata in conseguenza determinando una situazione di ‘irresponsabilità politica’ da parte dei governi e dei parlamenti dei singoli paesi. […]

Grazie a Maastricht e al Patto di stabilità, la rinuncia da parte dei governi europei al mantenimento di alti livelli di occupazione è apparsa come imposta da vincoli tecnici oggettivi […]. La presenza diffusa di un’illusione di ineluttabilità di questa situazione di ‘deresponsabilizzazione’ è certamente il fattore che ha consentito ai governi europei di tenere in molto minor conto che in passato le ripercussioni sociali e politiche di percorsi marcatamente deflazionistici[8].

Giustamente Pivetti scrive “è apparsa”, parla di “illusione di ineluttabilità”, funzionale a portare avanti politiche neoliberiste intraprese già da molti anni, che nei vincoli e nei parametri della Ue hanno trovato nuova linfa, ma che non sono effetto esclusivo di questi ultimi. È la retorica del “ce lo chiede l’Europa!”: il tentativo di far apparire precise scelte politico-economiche come necessità oggettive, presentando la politica stessa – certamente indebolita dallo strapotere del capitale finanziario monopolistico, ma non certo scomparsa – come ormai del tutto priva di strumenti, in sostanza addossando su un altrove lontano e irraggiungibile (l’Europa dei tecnocrati, i burocrati di Bruxelles) tutta la responsabilità di trasformazioni di vecchia data e linee di politica economica avviate a livello di singoli Stati da oltre 35 anni.

In Francia – osservano Pivetti e Barba – la svolta si produsse nel 1982-83, allorché nella coalizione che sosteneva il governo delle sinistre, il quale aveva portato avanti un programma molto avanzato nella sua prima fase, prevalse, anche a seguito del mutato clima internazionale, una linea rigorista e neoliberista – sostenuta anche da molti intellettuali ex sessantottini che vedevano di buon occhio il ritrarsi dello Stato in nome di un’astratta ideologia libertaria e “autogestionaria” – la quale avrebbe segnato “l’inizio della fine”, con conseguenze sull’intero continente e sul processo stesso di integrazione europea, dato il ruolo centrale di Jacques Delors. Ma, appunto, tale svolta “non fu imposta a Mitterrand e al governo Mauroy né dall’esterno della coalizione di sinistra né dall’esterno della Francia. Si trattò di una scelta liberista e filo-capitalista autonomamente compiuta”[9].

In Italia, la svolta a danno della classe operaia e di tutti i lavoratori salariati si produce, dopo il mancato sblocco del sistema politico e la conferma della conventio ad excludendum a danno del Pci, tra il 1980 – anno della ristrutturazione produttiva e della sconfitta operaia alla Fiat – e il 1985, con la sconfitta nel referendum sulla scala mobile, per non parlare della separazione tra Ministero del Tesoro e Banca d’Italia, decisa nel 1981 da Andreatta e Ciampi, la quale, sgravando la Banca d’Italia dall’acquisto dei titoli di debito pubblico italiano rimasti invenduti, pose la finanza pubblica e quindi lo Stato in balìa del mercato finanziario. Dieci anni dopo, col decreto-legge 5 dicembre 1991 n. 386, convertito nella legge 29 gennaio 1992 n. 35, si avviava lo smantellamento delle Partecipazioni statali e la lunga stagione delle privatizzazioni, ossia della svendita di uno straordinario patrimonio pubblico che aveva reso l’Italia uno dei paesi capitalistici nei quali più consistente era il ruolo dello Stato in relazione all’industria e al credito.

Partendo da questo contesto, la nascita dell’Unione Europea e poi quella dell’euro hanno certamente consentito alla controffensiva neoliberista di compiere un salto di qualità. Il fatto che l’unificazione sia stata di carattere essenzialmente monetario, che la Banca centrale europea sia di fatto “l’unica istituzione della UE” con poteri reali e “autonomi dagli Stati nazionali”, mentre questi ultimi non hanno più “una Banca centrale prestatrice di ultima istanza”, ha posto i singoli paesi “in una situazione di debolezza istituzionale” rispetto ad aree economiche maggiormente integrate (Usa, Cina, Russia), ma anche rispetto “ai mercati e alla speculazione internazionale”, allargando inoltre la forbice tra i paesi stessi[10].

Scrivono ancora Pivetti e Barba: “Non esistevano precedenti storici di una unificazione monetaria tra Stati che non fosse stata preceduta dalla loro unificazione politica […] un’unica politica monetaria applicata a condizioni economiche e sociali fra loro molto diverse avrebbe teso ad accentuare le differenze tra gli Stati interessati e dunque a ridurre, anziché accrescere, la coesione tra di essi”. Allo “svuotamento progressivo delle sovranità nazionali in campo economico” si affiancava la “assenza di un potere politico sovranazionale”[11].

Se sul piano politico gli effetti furono prevedibilmente disastrosi, sul piano sociale non sono stati meno pesanti. Come ha osservato Paolo Ciofi, «fissata con la moneta unica la rigidità dei cambi, imprese e Paesi non possono più competere attraverso la svalutazione della moneta», ma solo «mediante la svalorizzazione del lavoro»[12].

Al fondo della questione rimane però il problema del rapporto di forza tra le classi, che anche in assenza della moneta unica aveva già fortemente virato in favore del capitale. È da questo, dunque, dal mutamento dei rapporti di forza sociali e politici, che occorre ricominciare.

 

4. Le mancate risposte e alcune proposte per l’oggi

È evidente che l’attacco al mondo del lavoro, di portata globale, avrebbe richiesto da parte del movimento dei lavoratori una risposta unitaria, anch’essa internazionale e coordinata. Ma proprio questo è quello che è mancato. Andrea Catone parla di un “grande deficit di internazionalismo”[13]. Sebbene, quindi, vi siano elaborazioni anche programmatiche puntuali da parte di forze comuniste[14], e non manchino momenti di confronto e appelli internazionali dei partiti comunisti e operai[15], una piattaforma unitaria del movimento dei lavoratori almeno su scala europea non è tuttora disponibile. Sarebbe invece indispensabile delineare una piattaforma alternativa del movimento operaio europeo, anche a partire da pochi punti, semplici e chiari come ad esempio quelli elencati dallo stesso Ciofi:

– un piano per l’occupazione e la qualificazione del lavoro, rivolto in particolare alla tutela dei beni ambientali e culturali, alla messa in sicurezza del territorio e al risanamento delle periferie urbane;

– la promozione programmata dell’innovazione scientifica e tecnologica correlata alla riduzione dei tempi di lavoro e all’elevamento culturale dei cittadini, assicurando l’istruzione gratuita per tutti fino al livello superiore e per i meritevoli fino all’università;

– l’aumento dei salari e degli stipendi, tale da garantire una vita dignitosa a tutti i residenti a parità di condizioni tra uomini e donne per pari lavoro, eliminando contratti a termine e ogni forma di lavoro precario;

– la fissazione di standard comuni per le tutele sanitarie e previdenziali e per la tutela della maternità, corredati di adeguati servizi rivolti a elevare i livelli di vita e a contrastare il calo delle nascite e la mortalità infantile;

– il riordino del sistema fiscale secondo i seguenti criteri: progressività delle imposte in base al principio che chi più ha più paga; introduzione dell’imposta patrimoniale sui grandi patrimoni a partire dall’esonero della casa per abitazione; lotta efficace all’evasione e all’elusione fiscale; eliminazione dei paradisi fiscali, controllo sui movimenti dei capitali e separazione delle banche commerciali dalle banche d’investimento a tutela del risparmio.

Il tutto ordinato al fine della coesistenza pacifica tra i popoli e al disarmo generale, e quindi al ripudio della guerra come mezzo di soluzione delle controversie internazionali[16].

Dal canto suo, Emiliano Brancaccio ha proposto di istituire uno “standard sociale sugli scambi internazionali”, ossia “sui movimenti di capitale, e laddove necessario anche sui movimenti di merci”. Secondo l’economista marxista, attraverso accordi internazionali andrebbero introdotti

controlli sui movimenti di capitale […] specialmente verso quei paesi che fanno “dumping sociale” a colpi di concorrenza al ribasso sui salari, sul fisco, sui diritti sociali e ambientali, e per questo accumulano squilibri commerciali verso l’estero. […] Le relazioni finanziarie e commerciali tra paesi verrebbero in questo modo condizionate alla comune decisione di non ricorrere a politiche di competizione al ribasso […]. L’argine dei controlli sui capitali, infatti, proteggerebbe i paesi che aderiscono al “social standard” dai paesi che fanno dumping sociale e quindi accentuano gli squilibri macroeconomici[17].

Per Brancaccio occorre insomma “uscire dalle secche di un dibattito sterile che sta montando anche a sinistra, tra i vecchi retori di un acritico europeismo e i nuovi apologeti di un ingenuo sovranismo nazionalista”, puntando sull’introduzione di significativi controlli sui movimenti di capitale:

Mentre le destre xenofobe guadagnano consensi con la proposta retriva di «arrestare gli immigrati», penso che le sinistre dovrebbero contrapporsi ad esse proponendo di «arrestare i capitali», che con le loro continue scorrerie internazionali alimentano la gara al ribasso dei salari e dei diritti e scatenano il caos macroeconomico.

Certamente, ha rilevato Brancaccio, “il principio di libera circolazione dei capitali è […] costitutivo dell’Eurozona”, ma essendo “anche una causa della sua estrema iniquità e fragilità”, potrebbe essere messo radicalmente in discussione[18]. Successivamente, lo stesso economista ha proposto “l’applicazione immediata dell’articolo 65 del Trattato del funzionamento dell’Unione Europea che ammette l’introduzione di controlli sulle fughe di capitali”, oltre che “di tutti i dispositivi già previsti dall’attuale legislazione per ridurre la volatilità dei mercati finanziari”[19].

Sul piano politico, risalendo alle radici della duplice crisi in atto (crisi del sistema e al tempo stesso crisi del movimento operaio, comunista e socialista), è chiaro inoltre che occorre avviare un’azione sistematica sul piano della ricomposizione della classe lavoratrice, sul piano sociale, politico e sindacale, e ovviamente sul terreno della coscienza di sé. Unire ciò che il capitale ha diviso dovrebbe essere la priorità di ogni forza comunista o anche solo di sinistra oggi, e per conseguire questo obiettivo è necessario un lavoro che vada almeno in tre direzioni: quello dell’organizzazione, sociale, politica e sindacale; quello della costruzione di piattaforme unificanti e di lotte comuni, possibilmente di carattere anche transnazionale, sulle cui basi costruire anche una nuova politica delle alleanze; quello, infine, di un grande lavoro culturale, che torni a unire anche nella percezione dei lavoratori ciò che il capitale – in questo caso coi suoi “apparati ideologici” e massmediatici – divide ulteriormente, creando falsi nemici e falsi obiettivi.

 

5. Riconquistare l’autonomia culturale

La lunga crisi di cui si è parlato ha portato con sé anche una gravissima crisi culturale, una profonda perdita di coscienza di sé da parte dei lavoratori salariati, una complessiva perdita di orientamento che oggi è parte non secondaria del problema.

I passaggi di campo e le gravi involuzioni anche di larga parte di ciò che si definiva “sinistra” – su cui si è soffermato efficacemente Domenico Losurdo in uno dei suoi ultimi libri evidenziandone le radici proprio nella subalternità culturale[20] – e la crescente spoliticizzazione di massa hanno prodotto una sorta di scissione tra larga parte del lavoro salariato e sinistra politica. E tuttavia sinistra e mondo del lavoro hanno marciato assieme per almeno due secoli, per cui tale frattura lascia i lavoratori privi di un riferimento politico unitario e di massa e quelli meno consapevoli privi di una prospettiva generale di cambiamento. Eccettuate le avanguardie organizzate in partiti comunisti o in altre forze della sinistra di classe, il resto della massa lavoratrice rimane quindi ancorata a una visione ristrettamente corporativa o localistica dei propri interessi, e può diventare facile preda di forze populistiche o apertamente reazionarie, e intanto della loro propaganda.

È quello che è avvenuto in Italia e in molti altri paesi europei negli ultimi anni. In assenza di una proposta chiara e credibile da parte delle forze di sinistra, di una rinnovata e radicale critica al capitalismo che rilanciasse l’obiettivo del superamento del sistema e la prospettiva del socialismo, e anzi a fronte di una gravissima subalternità al neoliberismo di quella che era la “sinistra moderata” e del sostanziale eclettismo movimentista della “sinistra radicale”, la gravità stessa della crisi capitalistica ha portato larghe masse su posizioni politiche incerte e ambigue, sempre più lontane dall’universalismo e dagli ideali di eguaglianza, giustizia sociale, cooperazione e solidarietà tipici di ciò che storicamente è stata la sinistra. Gli approdi sono stati – e sono – molteplici. La crescente insicurezza economica e sociale, e la paura e la rabbia che ne derivano, non si sono trasformate se non a sprazzi in contestazione della “classe capitalistica transnazionale”, del capitale monopolistico o dei rapporti di proprietà in quanto tali, e invece – grazie a sapienti campagne politico-mediatiche – sono state indirizzate prima verso la “casta” dei politici, poi soprattutto verso gli immigrati. Tutto ciò, ovviamente, con una ben scarsa considerazione dei dati reali, i quali dimostrano che l’immigrazione, oltre a costituire certamente un problema – per chi parte, in primo luogo, oltre che per i paesi che accolgono – per questi ultimi ha, anche sul piano economico, effetti largamente positivi[21].

Nel nostro paese, che è una delle principali terre d’approdo di chi fugge da fame, miseria e guerre, sebbene la gran parte di questi migranti sia diretta verso altri paesi europei (infatti la percentuale rispetto al totale della popolazione è tra le più basse del continente)[22], la campagna propagandistica delle destre si è potuta giovare anche della sordità e del mancato governo del fenomeno da parte dell’Unione Europea. Come ha osservato Luciano Canfora,

per i movimenti fascistici oggi all’offensiva questo è un dono: il ‘popolo’ che essi dicono di voler difendere è sotto attacco su due fronti: spietatezza dell’élite eurocratica che chiama riforme la demolizione del welfare e guerra coi poveri esterni. E su entrambi i fronti essi mostrano di difenderlo, coniugando la (necessaria) guerra all’élite eurocratica con la facile e facilmente trionfante xenofobia.

Naturalmente, si tratta di una “partita truccata”, e tuttavia, finora, per le destre ha funzionato, anche perché, nella crescita delle forze neo-nazionaliste al consenso di parte dei ceti popolari si affianca l’investimento politico del “capitale medio/piccolo ‘indigeno’” che, contrapponendosi al grande capitale globalista, di fronte ai processi di mondializzazione ha un vitale bisogno di “una sua rappresentanza politica nazionale” e di politiche neo-protezionistiche[23].

Si tratta insomma di uno scontro del tutto interno alle classi dominanti. E se per una certa fase, il capitale finanziario globalista ha marcato una sua egemonia (anche su settori del mondo del lavoro), oggi l’equilibrio si è spostato in favore di altri settori capitalistici, le cui potenzialità egemoniche sui ceti popolari appaiono di gran lunga superiori.

In tale quadro, è di vitale importanza che i lavoratori salariati e le forze che intendono organizzarli si sottraggano a tale confronto, evitino cioè di passare da una subalternità all’altra, sposando posizioni neo-nazionalistiche e neo-protezionistiche o strizzando l’occhio alla propaganda anti-immigrati, aggiungendo alle parole d’ordine delle destre “prima gli italiani”, “prima i tedeschi” o “prima gli statunitensi” il sostantivo “lavoratori”. Sarebbe la resa definitiva, l’accodarsi in funzione subalterna a una linea impressa da altri che, enfatizzando i contrasti tra i subalterni di vari paesi ed etnie, va esattamente nella direzione opposta alla costruzione di quella unità dei lavoratori salariati sul piano nazionale e internazionale oggi sempre più necessaria, lasciando la strada del tutto libera alla vittoria completa delle destre. I lavoratori immigrati vanno invece organizzati, essendo ormai parte integrante del proletariato metropolitano, così come va rilanciata la solidarietà internazionalista coi popoli oppressi da fame, miseria e guerre, frutto di un neocolonialismo da tempo nemmeno più denunciato.

Occorre invece che i lavoratori ricostruiscano un punto di vista autonomo, di classe, unitario, radicalmente antagonista rispetto allo stato di cose presenti, che contesti alla radice le narrazioni dominanti e capovolga l’ordine del discorso, ponendo sul banco degli imputati la “classe capitalistica transnazionale” ma anche quella imprenditoria locale e nazionale che prospera sul lavoro nero, il super-sfruttamento, il caporalato, l’illegalità.

Questo vale sul piano teorico-politico come su quello della polemica spicciola. Lascia stupefatti che, in un paese il cui ministro degli Interni dichiara di voler andare a cercare gli immigrati irregolari “casa per casa” e in cui il senso comune si va fascistizzando, per alcuni sia prioritaria la polemica contro la sinistra “radical chic”: un atteggiamento, si potrebbe dire, “ultra-radical chic”... La giusta critica alla parte di sinistra che ha smarrito i suoi connotati di classe puntando tutti sui diritti civili, nel momento in cui diventa ossessione polemica, rischia infatti di contrapporre la lotta per tali diritti a quella per i diritti sociali, la difesa dei migranti (o magari dei lavoratori immigrati) alla difesa dei lavoratori italiani, la Rivoluzione francese all’Ottobre, l’antifascismo all’antimperialismo: in poche parole, di aprire un baratro incolmabile tra ciò che resta della sinistra e i comunisti e, sul piano sociale, tra i lavoratori salariati e i loro potenziali alleati. Sono posizioni che i comunisti italiani avevano superato da decenni, dal Togliatti traduttore e prefatore del Trattato sulla tolleranza di Voltaire allo stesso Togliatti che, intervenendo nella polemica tra Bobbio e Della Volpe su libertà e socialismo, precisava che “diritti di libertà e diritti sociali” sono entrambi “patrimonio del nostro movimento”[24]. Come scrive anche Samir Amin, “la separazione tra la categoria dei diritti giuridici e quella dei cosiddetti diritti sociali deve essere respinta”, poiché “congiuntamente essi esprimono il ‘diritto di vivere’”[25].

Ne segue, sul piano politico, che per quanto si possa considerare degli avversari la Boldrini e la gauche caviar, non si può dimenticare che i nemici sono Salvini e quelli come lui. In caso contrario, si rischia di ripetere, stavolta in forma di farsa, la politica del socialfascismo che, alla fine degli anni Venti, in nome del tradimento degli interessi del proletariato da parte della socialdemocrazia, portò il Comintern a definirla “ala sinistra della borghesia”, sostanzialmente omologa rispetto all’ala destra, ossia al fascismo: una linea disastrosa, che certamente aveva le sue radici in fatti oggettivi drammatici, ma che ebbe conseguenze molto pesanti. Se la polemica anti-socialdemocratica era giusta e necessaria nel 1919 (quando la socialdemocrazia tedesca reprimeva nel sangue i moti spartachisti), come lo era stata nel 1914 (quando la Spd votava i crediti di guerra adducendo come motivazione la necessità di non lasciare il patriottismo alla destra); dieci anni dopo doveva essere ben evidente che l’avversario principale era un altro, e altre dovevano essere le priorità. Né si potevano immaginare alleanze spurie, in nome ad esempio dell’unità del popolo tedesco, come confermò il dibattito del 1923 tra il dirigente comunista Karl Radek e il nazionalista Moeller van den Bruck, recentemente ricostruito da Stefano Azzarà[26].

Il rischio è dunque quello che anche oggi – dinanzi a quello che Samir Amin definiva “il ritorno al fascismo del capitalismo contemporaneo”[27], mentre forze di estrema destra sono al governo di molti paesi cruciali, a partire dagli Stati Uniti di Trump, e Steve Bannon porta avanti il suo progetto di unire le forze reazionarie europee sotto le bandiere del “sovranismo” – si concentri invece il fuoco della polemica contro la “sinistra moderata” o magari, appunto, contro quella “radical chic”. Non si tratta di negare le responsabilità dell’una e dell’altra, ma di individuare, come sempre marxisti e comunisti devono fare, quale sia oggi la contraddizione principale. Da questo punto di vista, nel quadro della lotta complessiva contro la “classe capitalistica transnazionale” e i suoi rappresentanti (a partire, per quanto riguarda noi europei, dalle oligarchie di Bruxelles), è evidente che si debbano contrastare in primo luogo le forze di destra, all’offensiva sul piano nazionale e internazionale, le tendenze espansionistiche della Nato e la politica sciovinista e aggressiva degli Usa di Trump, il quale peraltro ha detto chiaramente di avere tra i suoi maggiori nemici Ue, Cina e Russia[28]. È una dialettica complessa, alla quale tuttavia non si può sfuggire.

Si tratta insomma di prendere atto dello scontro in atto sul piano internazionale tra il modello di mondializzazione made in Usa, basato su competizione sfrenata, lotta fra protezionismi e tendenze aggressive, e quello proposto dalla Repubblica popolare cinese, caratterizzato ad esempio dall’idea di una “nuova via della seta” e da processi di cooperazione economica segnati dalla reciprocità e dal vantaggio comune, e di posizionarsi in tale scontro, di livello globale, decisivo per i destini dell’umanità[29]; uno scontro nel quale il mutamento di scala è ormai irreversibile, nel senso che la dimensione necessaria ad affrontare i problemi globali non può che essere sovranazionale.

Più in generale, per quanto riguarda il movimento dei lavoratori, si tratta di non perdere mai di vista “l’incompatibilità tra l’universalismo concreto del materialismo storico e il particolarismo delle storicità del nazionalismo”[30]. Come ha scritto ancora Catone, “l’internazionalismo proletario, la concezione e la pratica internazionalista, sono la marcia in più dei comunisti e del movimento operaio, che ne ha fatto la forza e la grandezza nei suoi momenti più alti”[31]. Occorre dunque rifarsi a tale ispirazione, tornare alla “grande politica”, ossia a una politica di ampio respiro fondata sul recupero di una propria autonomia culturale e progettuale, che scelga la via della lotta rispetto a quella di una “fuga” dagli esiti imprecisati[32], mirando a porsi al livello dei propri antagonisti e delle contraddizioni complessive del sistema.

Bisogna insomma – come scriveva ancora Amin già vent’anni fa – accettare “la sfida dell’‘economia mondo’” per rovesciarne il segno[33], e solo un movimento dei lavoratori profondamente radicato nelle diverse realtà produttive e nei diversi contesti nazionali, ma al tempo stesso capace di elaborare una strategia e una prassi comuni sul piano transnazionale, potrà essere in grado di farlo.


Note
[1] I. Masulli, Chi ha cambiato il mondo? La ristrutturazione tardocapitalista 1970-2012, Roma-Bari, Laterza, 2014.
[2] J. Brecher, T. Costello, Contro il capitale globale. Strategie di resistenza, Milano, Feltrinelli, 2001, pp. 30-41.
[3] M. Castells, La nascita della società in rete, Milano, Egea, 2008, p. 307 e passim.
[4] R. Antunes, Il lavoro e i suoi sensi. Affermazione e negazione del mondo del lavoro, Milano, Punto Rosso, 2016, pp. 16-21.
[5] P. Ciofi, Il lavoro senza rappresentanza. La privatizzazione della politica, Roma, manifestolibri, 2004.
[6] Nel caso dell’Italia, questo atto ha aggravato il conflitto tra Costituzione del paese e trattati europei. Su questo, cfr. V. Giacché, Costituzione italiana contro trattati europei. Il conflitto inevitabile, Roma, Imprimatur, 2015. La Costituzione italiana potrebbe peraltro costituire la piattaforma di partenza di un modello alternativo ai Trattati da proporre anche al di fuori dei nostri confini: su questo cfr. P. Ciofi, Costituzione e rivoluzione. La crisi, il lavoro, la sinistra, Roma, Editori Riuniti, 2017.
[7] L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, intervista di P. Borgna, Roma-Bari, Laterza, 2012, pp. 12-13.
[8] M. Pivetti, Le strategie dell’integrazione europea e il loro impatto sull’Italia, in Un’altra Italia in un’altra Europa. Mercato e interesse nazionale, a cura di L. Paggi, Roma, Carocci, 2011, pp. 45-59: 45-47 (corsivo mio).
[9] A. Barba, M. Pivetti, La scomparsa della sinistra in Europa, Reggio Emilia, Imprimatur, 2016, pp. 79-105.
[10] F.R. Pizzuti, La crisi, l’Unione Europea, lo Stato sociale e la politica, in Riunificare il mondo del lavoro è possibile oggi?, Roma, Ediesse, 2013, pp. 215-240: 218.
[11] Barba, Pivetti, La scomparsa della sinistra in Europa, cit., pp. 107-108.
[12] P. Ciofi, La rivoluzione del nostro tempo. Manifesto per un nuovo socialismo, Roma, Editori Riuniti, 2018, p. 49.
[13] http://www.marxismo-oggi.it/saggi-e-contributi/saggi/282-mutamenti-nel-quadro-mondiale-la-politica-internazionale-di-donald-trump-la-ue-l-italia.
[14] Si veda ad es. il programma del Partito comunista italiano Più Stato, meno mercato: https://www.ilpartitocomunistaitaliano.it/download/il-programma-del-pci/.
[15] Si vedano l’appello del XX meeting internazionali dei partiti comunisti e operai (Atene, novembre 2018), https://www.solidnet.org/article/20-IMCWP-Appeal-of-the-20th-International-Meeting-of-Communist-and-Workers-Parties/, ma soprattutto l’appello dei partiti comunisti e di altre forze anticapitaliste europee in vista delle elezioni di maggio pubblicato pochi giorni fa: https://www.ilpartitocomunistaitaliano.it/2019/01/15/per-uneuropa-dei-lavoratori-e-dei-popoli/.
[16] Ciofi, La rivoluzione del nostro tempo. Manifesto per un nuovo socialismo, cit., pp. 49-50.
[17] http://www.emilianobrancaccio.it/2012/12/10/european-parliament-for-an-international-social-standard-on-money/.
[18] Brancaccio: “Nell’Unione Europea arrestare i capitali, non i migranti”, intervista di R. Ciccarelli, in “il manifesto”, 3 gennaio 2017, online in http://www.emilianobrancaccio.it/2017/01/03/brancaccio-nellunione-europea-arrestare-i-capitali-non-i-migranti/.
[19] Brancaccio: “Ecco come fermare la dittatura dello spread e l'attacco dei mercati”, intervista di G. Russo Spena, in “Micromega online”, 30 maggio 2018: http://temi.repubblica.it/micromega-online/brancaccio-ecco-come-fermare-la-dittatura-dello-spread-e-lattacco-dei-mercati/.
[20] D. Losurdo, La sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo, guerra, Roma, Carocci, 2014.
[21] G. Remuzzi, +1% di migranti secondo la rivista «Lancet» equivale a... +2% di ricchezza, in “La Lettura”, 13 gennaio 2019, in //pressreader.com/@nickname10451382/csb_997-7I60ndBJYxEVWwI1dYJUuWw9A3XMXyRKcl0HA-5c4Zfsq-m-L_ydKtClToQ6">https://pressreader.com/@nickname10451382/csb_997-7I60ndBJYxEVWwI1dYJUuWw9A3XMXyRKcl0HA-5c4Zfsq-m-L_ydKtClToQ6>.
[22] https://www.lenius.it/quanti-sono-gli-immigrati-in-italia-e-in-europa/.
[23] L. Canfora, La scopa di don Abbondio. Il moto violento della storia, Roma-Bari, Laterza, 2018, pp. 14-17.
[24] Cfr. D. Losurdo, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Roma-Bari, Laterza, 2017, pp. 53-56.
[25] S. Amin, Oltre la mondializzazione, Roma, Editori Riuniti, 1999, p. 298.
[26] S.G. Azzarà, Comunisti, fascisti e questione nazionale. Germania 1923: fronte rossobruno o guerra d’egemonia?, Milano-Udine, Mimesis, 2018.
[27] S. Amin, Il ritorno al fascismo del capitalismo contemporaneo, in Mutamenti del quadro mondiale. Trump, la Ue, l’Italia, “Marx Ventuno”, 2018, n. 1-2, pp. 40-54.
[28] https://www.agi.it/estero/trump_europa_nemico_usa-4160287/news/2018-07-15/.
[29] D. Losurdo, Washington consensus o Beijing consensus?, in La Cina della Nuova Era. Viaggio nel 19° Congresso del Partito Comunista Cinese, a cura di F. Giannini e F. Maringiò, Napoli, La Città del Sole, 2018, pp. 15-18.
[30] Così S. Danzilli nella recensione del volume di Azzarà (http://www.marxismo-oggi.it/recensioni/libri/308-marxismo-e-questione-nazionale-la-disputa-tra-comunisti-e-nazionalisti-nella-germania-anni-venti-nel-nuovo-libro-di-stefano-azzara) .
[31] http://www.marxismo-oggi.it/saggi-e-contributi/saggi/282-mutamenti-nel-quadro-mondiale-la-politica-internazionale-di-donald-trump-la-ue-l-italia.
[32] http://www.marxismo-oggi.it/saggi-e-contributi/saggi/275-economicismo-o-dialettica-un-approccio-marxista-alla-questione-europea.
[33] Amin, Oltre la mondializzazione, cit., p. 208.
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