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A che punto è l’euro-notte

Federico Dezzani

cap182aL’allentamento quantitativo varato due mesi fa da Francoforte ha generato una bolla nel mercato delle obbligazioni sovrane europee ma ha fallito nell’imprimere una svolta all’economia reale, dove al contrario si registra la caduta dell’attività di Francia e Germania. Gli insuccessi di Mario Draghi e la concomitante debacle del “piano Junker” aprono la strada allo sfaldamento dell’eurozona, scaturibile dall’imminente default di Atene. La disgregazione dell’eurozona sarà accompagnata da una escalation militare in Ucraina, dove Washington e Londra stanno convogliando uomini e mezzi con intenti provocatori. Fallito il progetto degli Stati Uniti d’Europa, la minaccia strategica più temibile per gli angloamericani è sempre l’integrazione tra Germania e Russia.

 

L’ultima offensiva di Francoforte e Bruxelles è fallita

Un’unione monetaria senza una parallela integrazione fiscale è inevitabilmente destinata al fallimento tra i miasmi dell’austerità. L’euro, anziché essere il coronamento di un democratico processo d’integrazione europea, votato ed approvato dai cittadini, è stato all’opposto scelto come primo passo verso l’unione politica, proprio in virtù dei suoi prevedibili effetti destabilizzanti. Un sistema a cambi fissi calato su un’area valutaria non ottimale (l’eurozona) avrebbe nell’arco di un decennio accumulato tali tensioni (la crisi del debito sovrano e l’emergenza spread) da obbligare i Parlamenti nazionali a procedere spediti verso gli Stati Uniti d’Europa, con l’acquiescenza dei cittadini ammutoliti da possibili crack finanziari e default sovrani.

Alla prova dei fatti il disegno delle élite euro-atlantiche si dimostra utopico e né la Francia né la Germania, gli unici due azionisti di peso dell’eurozona, prendono mai neppure in considerazione l’idea di delegare i poteri dei loro Ministeri delle Finanze al vacuo Parlamento europeo: fallito il tentativo di fondare con la coercizione gli Stati Uniti d’Europa, si innesca la rapida dissoluzione dell’unione monetaria, il cui primo significativo atto sono i controlli sui capitali introdotti a Cipro nel 2013. Da allora la situazione economica e politica si incancrenisce, sebbene si tenti di rilanciare il progetto europeo con un “summit decisivo” dopo l’altro e la promessa di sempre nuove armi finali per debellare la crisi.

Le ultime “wunderwaffen” sono state il Piano Junker e l’allentamento quantitativo varato nel marzo del 2015 dalla BCE: il loro effetto si è limitato a protrarre di pochi mesi la vita dell’eurozona, poiché la crisi ha ormai infettato un peso massimo come la Francia e la situazione nell’euro-periferia si è fatta insostenibile.

Il Piano Junker presentato nell’estate 2014 celava delle tare fin dalla nascita: racimolando 21 mld di risorse europee (per più di un terzo provenienti dalla riallocazione di soldi del bilancio comunitario), si sperava, con una leva di 1:15, di attivarne 315 per investimenti in infrastrutture, industria e ricerca. A distanza di 10 mesi, la Banca europea degli investimenti ha dato il via libera a quattro progetti del Piano Junker (un centro di ricerca medica in Spagna, 14 centri sanitari in Irlanda, l’ampliamento di un aeroporto croato e l’ammodernamento degli impianti siderurgici della cremonese Arvedi) per un totale di 300 milioni, che dovrebbero mobilitarne in tutto 850: il vero rapporto di leva è quindi inferiore ad 1:3 e l’iniziativa della nuova commissione europea si prefigura come un clamoroso bluff che nel più roseo degli scenari attiverà 65mld. Quisquilie per un PIL della UE di 13.500 mld (lo 0,5%).

Anche l’allentamento quantitativo annunciato a gennaio dalla BCE dà adito a sospetti sulla reale salute dell’eurozona: Berlino ed i paesi di area germanica acconsentono infatti all’acquisto di 60mld di obbligazioni sovrane al mese a patto che l’80% dei rischi sia imputato alle rispettive banche centrali nazionali. La Germania nutre seri dubbi sulla tenuta dell’eurozona e non vuole accollarsi rischi.

Nonostante l’euro si avvicini alla parità col $ nel mese di marzo, l’inflazione nell’eurozona nel mese successivo passa dallo -0,1% ad un misero 0% e l’attuale apprezzamento della moneta unica dovrebbe riportare in territorio negativo la dinamica dei prezzi; il differenziale Btp-Bund, dopo un’iniziale ripiegamento a 90 punti base in corrispondenza dell’avvio dell’allentamento quantitativo, ha rialzato la china sull’onda della crisi greca ed è di nuovo sui valori dell’autunno 2014; la disoccupazione nell’eurozona non dà segni di miglioramento (11,3%) e gli indicatori dell’attività industriale di aprile, anziché segnalare un’accelerazione, segnano un rallentamento. Particolarmente allarmante è il calo della produzione industriale tedesca, considerato l’effetto volano che di solito esercita.

L’eurozona vive oggi di domanda esterna (l’attivo della bilancia commerciale è schizzato nel febbraio 2015 a 20 mld, dai 14 dell’anno precedente), mentre i cittadini tagliano i consumi e le infrastrutture scivolano rapidamente nell’incuria e nell’obsolescenza: c’è da chiedersi cosa avverrà ora che gli USA, tra dollaro forte e bassi prezzi del greggio che danneggiano il fondamentale settore estrattivo, flirtano con la recessione, all’ombra di una bolla speculativa senza precedenti.

Cambiamo ora lente e scendiamo all’analisi dei singoli paesi: se il problema tattico più impellente è la Grecia, a turbare il sonno di Washington e Londra è la Germania.

 

Da Atene a Parigi, diverse sfumature di eurocrisi

Tutto è iniziato col declassamento del debito pubblico ellenico nel dicembre 2009 e tutto finirà probabilmente in Grecia (spread a 1.020 punti base sul Bund) che, sebbene in termini di PIL valga meno della regione Lombardia, è l’avanguardia dell’euro-crisi.

La situazione è precipitata dopo la defenestrazione del premier filo-Troika Antonis Samaras e la nascita della coalizione guidata da Alexis Tsipras: la BCE accoglie il governo con l’amichevole chiusura degli ordinari canali di finanziamento delle banche greche (cui è impedito di approvvigionarsi di liquidità consegnando titoli di stato in garanzia) e la contestuale apertura di una linea per l’erogazione emergenziale di liquidità (ELA) dai tassi molto più salati.

Da allora la Grecia, alle prese con una perdurante fuga di capitali, è tenuta in vita artificialmente dai finanziamenti ELA che hanno già toccato i 76 mld: la fame di moneta è tale che Alexis Tsipras ad aprile decreta che tutti gli enti statali parcheggino la propria cassa su un apposito conto della Banca Centrale.

Il vertice a Riga tra i ministri delle Finanze dell’eurozona si chiude con un clamoroso fiasco: il ministro Yanis Varoufakis è tacciato di dilettantismo, Mario Draghi avverte minaccioso che il tempo sta scadendo e l’impossibile compromesso è procrastinato ad un nuovo summit dei ministri da tenersi l’11 maggio. Se in seno alla Troika esplodono improvvise divergenze sulle concessioni da accordare ad Atene (l’FMI non vuole cedere sulla deregolamentazione del mercato del lavoro e sul taglio delle pensioni mentre Bruxelles si oppone ad una nuova decurtazione del debito), le finanze elleniche sterzano fuori dal sentiero concordato: il surplus pari all1,1% del PIL previsto per il 2015 diventa un deficit del 2%, ed il debito pubblico dal 170% del PIL schizza al 180%.

Come avevamo previsto, Alexis Tsipras si munisce di un paracadute per sopravvivere al lancio fuori dall’euro durante la strategica visita al Cremlino, dove saluta con favore il nascente gasdotto Turkish Stream che dovrebbe sostituire il defunto South Stream ed uccidere nella culla il Trans Adriatic Pipeline sponsorizzato da Washington: l’abbandono dell’eurozona non è più un salto nel vuoto e potrebbe essere questione di giorni o settimane. Il battito d’ala prodotto dal ritorno di Atene alla dracma scatenerà l’uragano che travolgerà l’intera eurozona.

L‘Italia (spread a 120 punti base sul bund) è un paese alla deriva, perso tra deindustrializzazione, disoccupazione di massa, invasione di clandestini ed i balbettii di una classe dirigente fallimentare ed  esautorata: lo scoramento ed l’abbandono che affliggono il Paese è testimoniato dal crollo delle nascite ai minimi dal 1861 (persino nel 1945 nacquero più bambini) e dalla parallela fuga all’estero dei già rari giovani. L’establishment italiano, il cui polso è misurabile dalla cronica crisi finanziaria ed editoriale che affligge il Corriere della Sera, avvalla nel febbraio 2014 la scelta di Washington di installare a Palazzo Chigi il governo autoritario di Matteo Renzi: “simul stabunt, simul cadent” dicevano i latini, ma il ricambio ai vertici del sistema non sarà un pranzo di gala né uno spettacolo da stomaci deboli.

Che la situazione italiana sia critica è testimoniato dalla fredda statistica: dopo quattro anni di ricette della Troika applicate dai governi Monti-Letta-Renzi il debito pubblico ha toccato a febbraio il record di 2169 mld (pari al 139% del PIL ripulito da attività illecite, traffici di droga e prostituzione) cui si devono aggiungere i 10 mld derivanti dal mancato adeguamento delle pensioni al caro vita, bocciato della Corte Costituzionale; la disoccupazione a marzo ha ripreso a salire e se l’Istat la stima al 13%, comprendendo cassaintegrati e lavoratori a tempo parziale involontari, si aggira in realtà attorno alla soglia più che doppia del 30%; quattro anni di austerità, concentrata essenzialmente sulla spesa in conto capitale per gli investimenti, hanno logorato le infrastrutture, rendendo improcrastinabili interventi d’urgenza per evitare che cadano a pezzi. L’Italia è oggi un malconcio vascello in balia dei flutti, pericolosamente vicino al ciclone greco.

La Spagna è venduta dai media e dalla tecnocrazia europea come il modello vincente di austerità, forte di una crescita del PIL stimata al 2,8%per il 2015: la ricchezza lorda prodotta annualmente è in realtà ancora del 15% inferiore a quella del 2008 e la ripresa spagnola è resa possibile da finanze pubbliche allegre e libere dai vincoli imposti ad Italia e Grecia. Il deficit/PIL del 2014 si è attestato infatti al 5,8% mentre il debito pubblico ha segnato dal 2008 ad oggi un +40% ed si attesta già al 100% del PIL.

La Francia è il vero elefante nella stanza dell’eurozona: nessuno né parla perché conclamerebbe la rottura del motore franco-tedesco, ma la maggior preoccupazione di Berlino e di Bruxelles è proprio Parigi. La fine dell’eurozona si giocherà sul campo greco ed italiano per evitare un domani di innescare lo scontro franco-tedesco, che riaccenderebbe gli spettri del secolo scorso: la Francia, sebbene si sforzi in ogni modo di occultare la cruda realtà, non ha infatti il fisico per reggere l’euro ed è sulle orme di una crisi in stile italiano.

Il deficit/PIL è stabilmente sopra il 3% (nel 2014 al 4%) ed il debito pubblico è lievitato dal 64% del PIL nel 2007 al 95% nel 2014: il presidente François Hollande, il più impopolare della Quinta Repubblica, osserva inebetito sprofondare la Francia nelle sabbie mobili dove l’Italia si è impantanata qualche anno fa.

Nel mese di marzo la Francia sfonda infatti il record storico di 3,5 mln di disoccupati, espulsi da un’industria in contrazione da undici mesi e da un terziario che rasenta la crescita a zero. Un primo rigurgito di sciovinismo francese si registra già nell’autunno del 2014, quando il ministro delle finanze Michel Sapin avverte Bruxelles e Berlino che solo il parlamento nazionale può bocciare il bilancio di previsione e non certo la Commissione Europea. Una Francia sciovinista, fiaccata dalla crisi e ripiegata su se stessa è l’incubo geopolitico di Berlino, motivo per cui sarà staccata la spina all’euro prima che si materializzino foschi scenari da 1914.

 

Un Regno Unito americano ed una Germania euroasiatica?

Passiamo ora a due Paesi che, per motivi differenti, galleggiano sopra i marosi dell’euro-crisi e sono storicamente determinanti per decidere gli assetti europei: la Gran Bretagna e la Germania.

Una delle missioni affidate “all’americano” Tony Blair, eletto primo ministro nel lontano 1997 è proprio quella di traghettare Londra dentro la moneta unica, non appena questa entra nelle tasche dei cittadini europei il primo gennaio 2002: è infatti dell’estate del 2001 un articolo21 de “The Economist” dove si ipotizza che Blair, sull’onda dell’imminente vittoria elettorale, coroni il suo sogno di agganciare la Gran Bretagna all’eurozona, indicendo un referendum che sfidi i noti sentimenti euroscettici degli inglesi. È paradossalmente la guerra al terrore in Afghanistan e poi la disastrosa occupazione di Bassora a salvare Londra dalla moneta unica: già alle prese con una controversa guerra in Iraq a fianco gli USA, Blair archivia definitivamente il referendum sull’euro, per non esacerbare l’opinione pubblica.

La fortuna è dalla parte inglese perché, come ammesso dal presidente del consiglio di gestione di Intesa San Paolo, Gian Maria Gros Pietro, è proprio la sterlina che consente a Londra di salvarsi dalla crisi dei mutui subprime, che nella City ha uno degli epicentri: come avrebbero potuto i cancellieri dello Scacchiere iniettare 1.000 £mld nelle dissestate banche inglesi senza la facoltà di stampare moneta?

È ancora la City di Londra l’avamposto da dove, nel biennio dello spread rosso 2011-2012, partono gli assalti speculativi contro il debito sovrano dell’euro-periferia: la finanza anglosassone, è bene ricordarlo ancora, non mira però all’implosione dell’euro (strumento principe per sottomettere il Vecchio Continente ai dettami del neoliberismo) bensì alla mera rapina (privatizzazioni a prezzo di saldo, estorsione sui derivati, speculazione sui bond sovrani, etc.) unita alla necessità di creare il clima di terrore e panico propedeutico alla cessione di sovranità dei Parlamenti nazionali ed alla nascita degli Stati Uniti d’Europa (il cortese Mario Monti lo spiega a chiare lettere in questo video).

Fiaccati nella credibilità dalla crisi economica, anche i due storici partiti inglesi (i conservatori ed i laburisti) assistono inermi al crescere di nuove forze anti-establishment che corrodono il secolare bipartitismo: è proprio per inseguire l’UKIP di Nigel Farage, che il premier David Cameron promette nel gennaio 2015 un referendum sulla permanenza di Londra nell’Unione Europea se confermato (come avvenuto) a Downing Street. Daranno gli USA il loro placet al referendum? È molto improbabile: se l’Unione Europea esisterà ancora nel 2017, Washington vorrà a tutti i costi che annoveri anche il Regno Unito, per garantire il saldo ancoraggio atlantico delle istituzioni di Bruxelles.

E se, nonostante tutto, il Regno Unito indicesse il referendum sull’uscita dalla UE e vincessero i sì? Bè, in questo caso sarebbe probabilmente rispolverata la vecchia idea del Round Table-Council on Foreign Relations-Chatham House di federare i Paesi di lingua inglese (USA, UK, Canada, Australia e Nuova Zelanda): alla possibile unione politica tra USA e Regno Unito accenna l’ex-vice primo ministro Sir Geoffrey Howe che, filo-americano ed europeista convinto da sempre, dipinge amareggiato futuri scenari per l’uscita di Londra dalla UE.

L’alleanza tra i due paesi di lingua anglosassone è più salda che mai, come emerge dalla crisi ucraina dove Londra e Washington collaborano per ricacciare ad est il loro più temibile avversario geopolitico: la Russia. È Londra infatti che nel febbraio del 2015 segue le orme statunitensi inviando istruttori militari a Kiev; sono probabilmente legati all’MI6 inglese i sicari ceceni che nel febbraio 2015 freddano a due passi dalla Piazza Rossa il politico Boris Nemtsov con l’intento di destabilizzare il Cremlino; è Londra che nel vertice NATO in Galles del settembre 2014 preme per la linea dura contro Mosca; è Londra che dispiega 1.000 soldati e quattro caccia della RAF nei Paesi Baltici per provocare Mosca.

Sarà forse Londra che, quando l’eurozona esalerà l’ultimo respiro, fornirà il casus belli della guerra in Ucraina, per evitare che l’euro collassando trascini con sé anche la NATO e offra, specie alla Germania, la possibilità di inedite integrazioni economiche e politiche con Russia e Cina.

Tocca quindi alla Germania passare sotto la lente. Che Berlino, in quanto economia più produttiva dell’Europa, sarebbe stata la maggior beneficiaria dell’euro (che impedisce ai vicini di svalutare la moneta e riconquistare competitività) non è mai stato un mistero. Né era ignoto all’establishment euro-atlantico che l’accresciuto primato economico avrebbe consentito a Berlino di esercitare un’influenza su tutta l’Unione Europea.

Perché quindi Wall Street e la City hanno messo in moto il processo della moneta unica? La risposta è multipla: la Germania è dalla seconda guerra mondiale smilitarizzata ed ospita quasi 40.000 soldati americani, il personale politico che occupa le posizioni apicali è (come in Italia) selezionato in base alla fedeltà a Washington, la tecnostruttura europea avrebbe imbrigliato Berlino e, con la nascita dagli Stati Uniti d’Europa, la Germania si sarebbe infine disciolta in una federazione atlantica.

La storia, come spesso capita, ha preso tutta’altra direzione rispetto a quella ipotizzata: se nel decennio che intercorre tra l’introduzione dell’euro e lo scoppio dell’euro-crisi l’integrazione continentale è in panne (la Costituzione europea bocciata nel 2005 dalla Francia via referendum), la Germania è invece molto attiva nell’intessere rapporti con il drago cinese e l’orso russo.

Sono in particolare i legami economici tra Mosca a Berlino a suscitare i sospetti degli angloamericani, che aborriscono una loro eventuale alleanza perché li espellerebbe  dall’Heartland, la regione euroasiatica cui il padre della geopolitica Halford Mackinder attribuisce un’importanza determinante per gli assetti mondiali.

Storicamente i politici tedeschi che aprono alla collaborazione con la Russia non hanno vita lunga: il ministro degli esteri Walther Rathenau, poliedrico industriale, scrittore e dirigente pubblico, è assassinato nel giugno del 1922 da estremisti di destra dopo aver siglato, appena due mesi prima, il Trattato di Rapallo che allaccia i rapporti tra Germania e URSS; il cancelliere socialista Willy Brandt è costretto alle dimissioni nel 1973 sull’onda dello scandalo spionistico Guillaume, dopo aver avviato un anno prima la Ostpolitik; l’influente presidente di Deutsche Bank Alfred Herrhausen è ucciso in un attentato dinamitardo il 30 novembre 1989, a pochi giorni dalla pubblicazione di un articolo dove annuncia una nuova Ostpolitik economica.

Gli omicidi eccellenti e gli scandali politici rallentano ma non fermano le dinamiche della storia: nonostante le sanzioni vigenti, la Germania è infatti la terza principale destinazione dell’export russo e la seconda fonte di importazione. I legami economici, uniti ai ricordi dell’ultima sanguinosa guerra, giocano un ruolo decisivo nel sopracitato vertice NATO in Galles del settembre 2014, dove la Germania si oppone al dispiegamento di nuovi soldati dell’Alleanza Nord-Atlantica nei Paesi dell’Est-Europa, perché in violazione all’Atto fondativo del 1997 sulle relazioni tra Russia e NATO.

Già nel 2008 l’opposizione di Berlino era stata determinante nel bloccare l’ingresso di Kiev nella NATO e sulla questione ucraina si consuma in questi mesi una delle più acute crisi di sempre tra la Germania federale e Washington: nel mese di marzo Berlino ha tacciato di “pericolosa propaganda” le affermazioni del Comandante della NATO in Europa Philip Breedlove, secondo cui la Russia avrebbe ammassato uomini ed artiglieria nel Donbass.

Se l’eurozona è vicina al collasso, come evitare che la Germania escogiti una Ostpolitk del XXI secolo? Come tenere in vita la NATO, quando la tecnostruttura di Bruxelles si sfalderà?

 

Il collasso dell’eurozona coinciderà con la guerra in Ucraina

Non esiste più memoria storica di quegli avvenimenti, se nei ricordi della persone che li hanno vissuti sulla propria pelle, ma le tappe salienti della vita dell’euro sono state scandite da guerre che hanno insanguinato l’Europa: il Trattato di Maastricht è firmato nel 1992 quando in Croazia si consuma il cruento scontro tra indipendentisti ed esercito jugoslavo; le selvagge privatizzazioni italiane e le manovre lacrime e sangue propedeutiche all’ingresso all’euro coincidono con l’intervento NATO in Bosnia; la nascita contabile dell’euro nel 1999 collima con la guerra in Kosovo ed il bombardamento NATO della Serbia; può la parabola dell’euro concludersi senza un guerra equiparabile ai conflitti jugoslavi?

Il teatro di guerra scelto dall’establishment euro-atlantico non sono più i Balcani bensì l’Ucraina, fresca del golpe targato Dipartimento di Stato americano: il paese est-europeo è infatti il più idoneo ad erigere un vallo che separi l’eurozona in fase di dissoluzione dalla Russia ed impedire che la Germania, libera dai legacci di Bruxelles, firmi una versione aggiornata del trattato di Rapallo.

L’Ucraina, o perlomeno quanto ne rimane, si incardina infatti sull’asse che partendo dal Mar Baltico raggiunge il Mar Nero inglobando i Paesi della “Nuova Europa” tanto decantati dal neo-con Donald Rumsfeld: visceralmente anti-russi come le nazioni del Mar Baltico, contigui agli ambienti conservatori americani come la Polonia di Radosław Sikorski e Donald Tusk, oppure alla semplice ricerca di una disperata fonte di reddito come la Bulgaria, gli Stati dell’est-europeo sono quelli più facilmente manipolabili dagli angloamericani per la loro manovra destabilizzatrice.

Le ultime notizie della crisi ucraina rilanciate dalla stampa occidentale risalgono al febbraio 2015, quando in Bielorussia si svolge il summit tra Ucraina, Russia, Germania e Francia teso a rivitalizzare il Protocollo di Minsk dell’autunno del 2014: la tregua siglata tra Kiev ed i filo-russi scricchiola paurosamente e l’esercito ucraino è sotto scacco a Debaltsevo, nodo ferroviario e stradale che congiunge Donetsk e Lugansk. Sebbene gli accordi di Minsk 2 non impediscano ai separatisti del Donbass di concludere l’accerchiamento e la conquista della strategica cittadina, l’artiglieria pesante tace e dal fronte sono placidamente ritirati missili Grad e carri armati.

Per quasi tre mesi, l’Ucraina è materia solo da stampa finanziaria: inflazione al 45%, crollo della grivnia del 30% sul $, disperati rialzi del saggio di riscontro da parte della Banca Centrale, avvitamento del PIL a -15% nel 2014, declassamento dei bond sovrani ucraini a livello di carta da parati. L’Ucraina è in sostanza un Paese in default, instradato sulla via della classica ristrutturazione del debito: sono già in corso i colloqui con i creditori internazionali per estendere le scadenze dei bond, abbassare gli interessi, tagliarne il valore nominale, etc.

Nel frattempo si rafforza però la dinamica in atto dalla vittoria elettorale di Alexis Tsipras: ogni qualvolta la crisi greca rischia di sfociare nell’uscita di Atene dall’euro, la tregua in Ucraina vacilla.

A metà febbraio il neonato governo ellenico si cimenta in un’impari lotta con la Troika per alleviare le misure di austerità imposte alla Grecia: ne esce con un raffazzonato ed instabile compromesso che obbliga Atene a presentare una lista di riforme neoliberiste a fronte di una proroga di quattro mesi dei finanziamenti. La BCE, allarmata dall’evoluzione degli eventi, studia piani d’emergenza per fronteggiare l’uscita di Atene dall’euro, nella speranza di impedire la deflagrazione dell’eurozona.

Immediato scatta il primo pesante attacco alla tregua in Ucraina, proveniente dalla più altre sfere della gerarchia militare atlantica: il comandante supremo della NATO in Europa, il generale a quattro stelle Philip M. Breedlove, afferma in una conferenza stampa che la Russia sta ammassando uomini, battaglioni d’artiglieria e sistema di difesa antiaerea nel Donbass e di giorno in giorno il clima si deteriora. Berlino definisce “pericolosa propaganda” le parole di Breedlove ed il BND, il servizio d’informazione tedesco, chiarisce che non c’è nessuna evidenza di un’aumento dell’attività russa nel Donbass.

Ad aprile il Ministero delle Finanze greco raschia il fondo della casse pubbliche alla disperata ricerca di denaro fresco: le disponibilità liquide degli enti pubblici sono requisite per decreto e dirottate su un conto della banca centrale. Sulla stampa appaiono indiscrezioni circa un piano di Atene per la nazionalizzazione delle banche e l’affiancamento della dracma all’euro.

Coerentemente al nostro schema, in quegli stessi giorni sbarcano a Kiev i primi 300 paracadutisti americani di stanza a Vicenza, incaricati di addestrare la Guardia Nazionale: la mossa è finalizzata a provocare Mosca, che equipara il dispiegamento delle truppe NATO in Ucraina ad una minaccia strategica.

Infine è maggio. Martedì 5 le borse europee chiudono in profondo rosso sulle rinnovate tensioni in Grecia e sulle divergenze in seno alla Troika di fronte all’ennesima necessità di tagliare il debito pubblico greco: la BCE è costretta a elargire altri 2 mld alle banche elleniche con il meccanismo ELA per evitare che le banche chiudano i battenti.

Nelle stesse ore si registrano nuovi scontri tra l’esercito ucraino ed i separatisti filo-russi, per un totale di cinque vittime tra le file delle truppe regolari di Kiev in meno di 24 ore. Attorno a Donetsk echeggiano dopo tre mesi di silenzio i colpi di mortaio e dell’artiglieria pesante: il cessate il fuoco vacilla.

L’uscita della Grecia dall’euro e la conseguente deflagrazione della moneta unica sarà accompagnata a stretto giro di posta dal riaccendersi del conflitto ucraino: se il giogo della moneta unica si spezza, a tenere sotto il tallone angloamericano il continente, e la Germania in particolare, ci penserà una nuova guerra europea. Contro la Russia.

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