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senso comune

Addio, Unione Europea

Le condizioni di un processo apparentemente irreversibile di autodistruzione

di Rafael Poch

425806548 16057381713590146047 1140x570Tempi di cambiamento e di disordine

Il mondo si trova in una fase di cambio e grande disordine. Il modello del capitalismo neoliberista e la ricetta dell’egemonia nelle relazioni internazionali non funzionano da tempo, ma la sua inerzia continua ad essere forte e ci sta portando a schiantarci sugli scogli.

Quest’anno abbiamo avuto tre cambi principali che segnano questa tendenza:

– La sconfitta dell’occidente in Siria (che è il riflesso delle tensioni del passaggio dal disordine egemonico monopolare a quelle del mondo multipolare)

– Il cambio di orientamento degli Stati Uniti, con la direttiva di cambiare da “America World” a “America First” di Trump, che apre la porta a conflitti interni alla prima potenza mondiale e a tutta una serie di altri “first’s” nel mondo (“China First”, “EU first etc.)

– La scomparsa di ogni progetto comune europeo, disastro che porta a cercare nemici (la Russia) e ad incrementare la militarizzazione dell’ “Europa di difesa” (1)

Tutto questo è già molto per un solo anno e spiega abbondantemente il senso di vertigine che c’è nell’aria.

 

Senza precedenti e non risolvibile

La crisi dell’Unione Europea si inserisce in questo disordine più generale e ne è derivato quello che sembra un dilemma non risolvibile:

Se la UE volesse affrontare ciò che la sta distruggendo (ossia irritanti referendum e la crescita della estrema destra illiberale), dovrebbe negare se stessa. Se, viceversa, preferisce non far nulla e rimanere così com’è, allora sembra condannata a continuare ad alimentare ciò che la distrugge”.

La citazione è di Fréderic Lordon, l’autore che meglio ha reso la situazione attuale nel dibattito francese (2).

L’Unione Europea ha perso la gran parte delle sue illusioni e dei suoi miti fondativi. La crisi finanziaria del 2007/2008 ha dimostrato che non è un club democratico di uguali, ma una costruzione oligarchica e antidemocratica. Il suo progetto degli ultimi trent’anni tutto all’interno di questo orizzonte, i difetti di nascita dell’euro e la nazionalizzazione delle perdite bancarie a discapito delle classi medie e basse sono tracollati sulla promessa di prosperità e giustizia che era alla base del discorso europeista e della sua narcisistica narrazione (3).

La disillusione è evidente, specialmente nell’Europa del Sud, la prima storica destinataria dei fondi di coesione, ma anche, e anche di più, nell’Europa dell’Est la cui integrazione nell’EU è stata un disastro clamoroso in termini economici e politici. Nel Sud, l’Europa dei fondi di coesione, della modernità e delle infrastrutture ha lasciato il campo all’Europa dei tagli mostrando la sua faccia più dura. Nell’Europa dell’Est, dopo 27 anni di vita europea (più della metà del tempo passato sotto il giogo sovietico), l’evidente boccata di ossigeno che la società ottenne uscendo dalle dittature socialiste è stata minimizzata dal ritorno dell’ex blocco allo statuto di periferia subordinata e dipendente che aveva nel periodo tra le due guerre: quello di riserva di manodopera a basso costo e di completa dipendenza finanziaria e industriale. Non c’è traccia di alcuna convergenza economica e sociale che tenda a un livellamento verso l’Europa occidentale e, a differenza che nel Sud, non c’è traccia neanche di fondi di coesione (4).

Nel Nord c’è un senso di stanchezza e una crescente ostilità verso “le mani bucate” del Sud: “vendetevi le isole”, dice il Bild tedesco, mentre compra a prezzo di liquidazione gli aeroporti greci di maggior valore che i greci hanno dovuto per forza privatizzare.

Tutto questo ha, evidentemente, una relazione diretta con l’incompatibilità generale tra la logica di mercato e il livellamento sociale e territoriale – il sistema capitalista è intrinsecamente disuguale – però nel caso specifico del sistema UE si sviluppa anche da una contraddizione essenziale: la democrazia e la sovranità popolare risiedono negli stati nazionali, però nell’Unione Europea quasi tutto ciò che ha potere è collocato fuori di questo schema:

Che cosa rimane nell’orbita della sovranità popolare, al soggetto che vota nelle elezioni nazionali? Molto poco. E peraltro, questa spoliazione è stata resa sacra e inviolabile, blindata attraverso norme e trattati per renderla irreversibile.

“Non c’è nessuna opzione democratica contro i trattati europei”, ha detto Jean-Claude Junker (5).

Il maltrattamento della Grecia, castigando la sua società con un programma di austerità ancor più stretto per aver  rifiutato quello precedente con un referendum, ha offerto un ulteriore esempio del disprezzo di qualsiasi volontà popolare. La Brexit ha dimostrato che c’è una stretta gerarchia e una disparità di trattamento perché la volontà popolare espressa dal referendum britannico (con un margine molto minore di quello greco) è stata riconosciuta, anche se controvoglia.

Che tipo di club è quello da cui non si può uscire, né ipotizzare riforme nel suo statuto, senza provocare convulsioni e minacce? Evidentemente, si tratta di un club non solo difettoso nel suo impianto, ma anche autoritario. Questa storia del disprezzo dei referendum già ha 24 anni e 9 consultazioni alle spalle (9).

 

Balcanizzazione

È il tempo della balcanizzazione. Ovunque si assiste a una frammentazione che disintegra. La Brexit (UK First) è stato un preavviso del contagioso “American First” di Donald Trump, ma il processo aveva già la sua propria dinamica interna e non sono nelle nazioni della UE – e anche dentro i suoi stati in alcuni casi – ma anche nei suoi club informali. I paesi del Sud organizzano timidi raduni in cui i loro ancor più timidi dirigenti, per ora, cercano di condividere la propria impotenza. Nell’Est aumentano i club come quelli di Visegrado (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia). Nel Nord, con Berlino al centro – senza dubbio il circolo più rilevante pur essendo il più discreto – ne nascono sempre di più intorno all’idea di una Kerneuropa – la Europa di matrice luterana e virtuosa separata dal resto. Ma i conti non tornano e la conclusione continua ad essere la stessa dei documenti interni al Ministero della Finanza tedesco nel 2012: al momento non conviene. Comunque, di tutti i “first” europei, il “Kerneuropa first” della Germania e dei suoi compagni della fede della “regola dell’oro” e del principio “per le esportazioni verso il Dio-crescita” è senza dubbio il più rilevante. Se la tesi del dilemma irrisolvibile è corretta, la direzione di questa balcanizzazione è inequivocabile: lo smembramento è solo questione di tempo.

 

Sicurezza: integrare o escludere

In materia di sicurezza e di relazioni internazionali, la situazione è ovvia: quando c’è da inventare qualcosa di nuovo e che sia condiviso tra gli attori della multipolarità per affrontare le sfide del secolo (agire contro il riscaldamento globale, palliare la disuguaglianza e affrontare il disarmo della sempre più generalizzata capacità di distruzione di massa), in Occidente constatiamo la persistenza di tutta una generazione politica (e della rete di esperti al suo servizio) formata nel vecchio egemonismo e senza esperienza o ricordo dell’essenza stessa dell’azione diplomatica e del multilateralismo.

Dopo settanta anni di dominio, gli Stati Uniti sono molto impreparati per il cambio di atteggiamento richiesto dalla realtà dal mondo multipolare. Scontrandosi con la Russia in Occidente e con la Cina a Oriente, hanno provocato l’avvicinamento di questi due paesi, che non vogliono più un ritorno alla logica dei blocchi ma che al tempo stesso si dichiarano disposti ad opporsi anche militarmente nelle loro più immediate frontiere (Ucraina, Mare della Cina meridionale). Si può constatare la forza d’inerzia di tutta questa gente (in politica i think tanks e i mezzi di comunicazione), afferrata alla politica della punizione militare, delle sanzioni, del disprezzo del diritto internazionale e dell’invocazione fraudolenta – perché selettiva e piena di trappole – dei diritti umani come argomento di ingerenza e di guerre (7).

Vari Stati sono già stati dissolti e sostituiti da buchi neri, in gran parte in operazioni occidentali di cambio di regimi in Medio Oriente, con il risultato di centinaia di migliaia di morti (8). In Europa questa stessa tendenza ha contribuito in passato a esacerbare i drammi dello smembramento jugoslavo e con la proliferazione dei conflitti e delle tensioni militari nel continente: Croazia, Bosnia, Serbia, Kosovo, Macedonia, Ossezia etc.

Nel contesto della grave crisi interna all’Unione Europea, mentre c’è un’urgente necessità di trovare “spiegazioni”, è estremamente pericolosa la ricerca di nemici praticata da Bruxelles, con la Russia come punto di mira (9). È necessario fare esercizio di memoria e ricordare la alternativa integrare/escludere della storia europea. Dopo le guerre napoleoniche i vincitori inclusero la Francia sconfitta nel processo decisionale e ciò aprì una lunga epoca di pace e stabilità continentale. L’esempio contrario è dato da quel che si fece con la Germania post-guglielmina dopo la Prima guerra mondiale e contro la Russia bolscevica dopo la Rivoluzione del 1917. In entrambi i casi, le politiche di esclusione – e il tremendo interventismo militare nella guerra civile russa – ebbero conseguenze nefaste sfociando in ciò che poi furono il nazismo e lo stalinismo.

Quel che stiamo vedendo in Europa nei confronti della Russia dalla fine della guerra fredda in poi suona come un nuovo avvertimento sui pericoli di escludere una grande potenza dal processo decisionale e trattarla a colpi di imposizioni e sanzioni. L’integrazione dell’ex blocco dell’Est si fece inizialmente in maniera fraudolenta. Dall’agenda nascosta dell’espansionismo della NATO, tradito dagli accordi taciti raggiunti con Mosca a cambio della sua ritirata imperiale, si offrì a quei paesi l’entrata in un blocco militare antirusso come anticamera dell’ingresso nell’Unione Europea (10).

Per trent’anni, questo processo di mettere il dito nell’occhio dell’orso russo ha provocato tensioni artificiali che si sono via via accumulate. Quando queste tensioni sono esplose militarmente, la reazione istintiva dell’orso, sono state additate come dimostrazione dell’aggressività della Russia, della malvagità del suo leader (un nazionalista di destra, popolare in patria per aver stabilizzato il paese pur senza redistribuire i profitti del petrolio né rivedere la privatizzazione criminale degli anni novanta) o della sua mitica volontà di “ricostruire l’Unione Sovietica”. La denunciata aggressività russa, in realtà un riflesso difensivo abbondantemente prevedibile e ignorato, è stata una profezia indotta e autorealizzatasi (11).

Per porvi rimedio è imprescindibile che l’Europa eserciti la sua indipendenza strategica e che si organizzi un sistema di sicurezza continentale, libero dalla logica dei blocchi in cui la sicurezza di alcuni non si costruisca a spese della sicurezza di altri. Ossia, applicare proprio quel senso che sta dietro la firma della Carta di Parigi del 1990 per una nuova Europa della OSCE. Per fare ciò è imperativo dissolvere la NATO come blocco militare. Però quale establishment europeo attuale si assumerebbe questa causa nelle instabili condizioni attuali, quando proprio il comando della NATO si dedica a seminare questa instabilità promuovendo la tensione con la Russia per giustificare la propria stessa esistenza?

I due politici che in Germania e in Francia ne parlano e puntano il dito contro la tendenza della guerra – Oskar Lafontaine e Jean-Luc Mélenchon – hanno un bacino elettorale tra il 10 e il 15%. Ci vedo quindi una grande necessità ma anche una scarsa possibilità. Però immaginiamo che l’Unione Europea diventasse un polo autonomo e sovrano nel mondo, con la grande potenza e influenza mondiale che deriva dai suoi parametri fondamentali di popolazione, Pil e potenza culturale e militare. La domanda che si pone è: per farci che? Per contribuire a che mondo? Continuare a fare in maniera sovrana quel che è andata facendo fino ad ora in qualità di “aiutante dello sceriffo” significa contribuire in maniera più efficace e autonoma al disastro, alla prospettiva degli imperi combattenti. Avere, per esempio, un esercito europeo integrato per poter fare la guerra in Siria, in Libia, in Ucraina etc. La mia conclusione è che se l’Europa si rivela incapace di elaborare un progetto di azione verso l’estero in sintonia con le sfide del secolo, occorre dirlo con chiarezza: è meglio che non sia una grande potenza, che sia un agglomerato quanto più debole possibile per ridurre la sua possibilità di fare dei danni.

 

L'asse franco-tedesco non esiste

A lungo una Germania che vedeva nell’Europa l’unica possibilità di recuperare la propria sovranità e una Francia che temeva di lasciarla sola, formarono il grande asse alla base degli interessi comuni dell’Unione Europea. In quell’epoca di fondazione, in entrambi i paesi la destra difendeva politiche economiche e sociali che oggi sarebbero considerate di “sinistra radicale”.

In Francia l’ispirazione sociale del gaullismo era il programma del Consiglio Nazionale della Resistenza del marzo del 1944. In Germania l’Economia sociale di mercato era la dottrina della coalizione di cristiani e ex nazisti della CFU con la quale si esorcizzava l’alternativa dell’altra Germania, la DDR, con la sua miscela di socialismo e dittatura che poneva l’assistenza e il livellamento sociale al centro del proprio progetto.

Questa base storica dell’asse non corrisponde più al mondo attuale.

Dal momento in cui la Germania ha recuperato la sua piena sovranità con la riunificazione nazionale del 1990 e l’annessione della DDR nella RFT, la sua visione dell’Unione Europea è cambiata. L’Europa non era più la soluzione per l’handicap ereditato dal disastro nazista, ma il primo spazio su cui proiettare la sua sovranità dominatrice.

Sparì la generazione politica che aveva vissuto la guerra, i Brandt, Kohl e Schmidt. Cominciò la riabilitazione del nazionalismo tedesco in termini nuovi e impensabili nella fase precedente (12). E il quadro generale di questo cambiamento nella relazione franco-tedesca non è una “economia sociale di mercato” /consiglio nazionale della resistenza con il telone di fondo della paura del comunismo, ma la dottrina neoliberale, ossia: la demolizione programmata e sostenuta delle conquiste sociali in vigore dal dopoguerra. In questo contesto di euforia nazionalista e con il costo di due bilioni di euro per l’annessione della DDR, la Germania impose al resto del club europeo la sua strategia nazionale esportatrice, priva di qualsiasi desiderio di sovvenzionare gli altri soci. Attraverso il dumping salariale, ogni made in Germania si fece più competitivo rispetto ai (e a spese dei) suoi soci. Il denaro che generò il suo surplus commerciale fu investito. Negli anni novanta “investire” significava in gran parte finanziare bolle immobiliari che trovavano il terreno migliore in paesi con grande corruzione e pessimi governi come la Spagna.

Quando questa bolla esplose mettendo in pericolo i fondi pensioni tedeschi e le banche, i politici germanici fecero finta di non avere niente a che vedere con questa questione, che era tutta colpa dei “pigs” meridionali dalle mani bucate e incapaci di fare riforme. Ossia: offrirono una spiegazione nazionale in linea con l’ortodossia neoliberale a un problema sistemico internazionale. La cancelliera che ha governato goffamente tutto ciò, Angela Merkel, ha danneggiato seriamente i tre pilastri che riabilitarono la politica tedesca dopo la seconda guerra mondiale: lo stato sociale, l’integrazione dell’Unione Europea e la politica di distensione verso la Russia conosciuta come Ostpolitik. Che nonostante ciò la Merkel passi per essere la grande leader continentale riassume molto bene la situazione in Europa, ma soprattutto dimostra che siamo di fronte ad “un’altra Germania” (13).

E che succede con la Francia? Nel 1983 Mitterand rinunciò alla politica di programma comune di sinistra con cui aveva vinto le elezioni del 1981, un programma nazionale di trasformazione, per abbracciare la linea europeista neoliberale descritta qui sopra. A differenza della Germania, la Francia non aveva nessuna linea strategica economica nazionale specifica. La moneta comune fu salutata da Mitterand come un meccanismo per evitare le sorprese tedesche ma si ritorse contro la Francia stessa. Tutto il terreno guadagnato dall’esportazione tedesca nel periodo recente corrisponde a quanto perso dagli altri europei, in primo luogo dalla Francia. I politici francesi si sono convertiti in dei subalterni della linea tedesca. Il giornalista Romarc Gordin descrive la situazione come “una specie di Vichy postmoderno”: “In Europa, la Francia solo serve come socio collaboratore della Germania”, dice. Sotto questa collaborazione la vita sociale francese e la sua convivenza interna si sono disintegrate.

Curiosamente, in Francia non si conosce molto la Germania. È un paese associato a cattive esperienze storiche per cui non si è mai avuto davvero interesse. Su questa scarsa conoscenza si è imposto, attraverso i mezzi di comunicazione, una certa leggenda piena di complessi per cui alla Germania andrebbe tutto bene, molto meglio che alla Francia. In questo contesto si è andato aprendo strada, sordamente e a livello popolare – non nelle élite – l’idea che nel matrimonio odierno, la Germania sia il macho e la Francia la donna maltrattata. Prende forza l’idea che non sia più un matrimonio in crisi, ma un caso di violenza di genere. Può esserci una soluzione?

 

Più Europa o la decostruzione ordinata

La mia impressione è che Frédric Lordon abbia ragione quando parla di una situazione chiusa in cui eliminare quel che sta distruggendo il sistema dell’Unione Europea passerebbe attraverso la negazione del sistema stesso. La riflessione può applicarsi alla Germania: non sarebbe capace di fare marcia indietro senza che la sua classe politica, i suoi mezzi di comunicazione, tutto il suo establishment negassero sé stessi dicendo “quel che abbiamo fatto fino ad ora è stato un errore madornale”.

È immaginabile che la Francia sia capace di convincere la Germania a rinunciare all’europeizzazione della sua strategia economica nazionale per esempio smontando l’euro e tornando allo SME (come propone Oskar Lafontaine), la regola aurea del deficit di bilancio o lo statuto della BCE? Credo di no. Dunque ci troviamo di fronte a qualcosa che assomiglia a un processo irreversibile di autodistruzione.

In Francia si ha la sensazione che sempre più gente pensa, a sinistra e a destra, che l’unica forma per cambiare l’Europa sia cominciare cambiando la Francia. È logico, tenendo in conto l’assenza di un “demos” europeo, soggetto della sovranità, e la forza della tradizione sociale francese. Senza aspettare una coordinazione automatica tra i paesi, questo ritorno agli stati nazionali, ossia al quadro della sovranità popolare, è ciò che nel lungo termine potrebbe riannodarsi in una ridefinizione del progetto europeo. Il problema è che oggi questo ritorno allo stato nazione lo sta capitalizzando l’estrema destra. Anche in Francia.

Mi sembra che uno degli scenari con più futuro nell’Europa di oggi sia quello della “lepenizzazzione di Goldman-Sachs”: una sintesi e intesa tra l’estrema destra e l’establishment neoliberista. Però, anche se l’estrema destra sta capitalizzando questo ritorno allo Stato nazione, ciò non vuol dire che una soluzione decente alla crisi europea (ossia sociale, ecologista e internazionalista e in linea con le sfide del secolo) non passi per questa direttrice di regresso. I passi indietro, quello che Lordon definisce come un processo ordinato di decostruzione dell’Unione Europea, sarebbero una soluzione più efficace  per uscire dall’impasse che non il più Europa e più federalismo autoritario il cui ultimo esito è il vettore di guerra che presuppone la “Europa della difesa”.

Da tutte le parti si risponde a questa idea di ritorno agli Stati-nazione con un anatema: “isolamento”, “ripiegamento”, “nazionalismo escludente”, “fascismo”, ma le nazioni europee hanno vissuto in pace e creato cose come l’Airbus e il programma Erasmus per anni senza moneta unica e senza la camicia di forza degli attuali trattati. Alcuni dei paesi europei più prosperi (Islanda, Norvegia, Svizzera) neppure sono membri della UE. Molti altri non hanno partecipato all’Euro, senza che ciò li converta in qualcosa di solo remotamente simili a emarginati della globalizzazione. Di modo tale che, se si vuole porre al centro del progetto europeo cose differenti dalla libera circolazione di merci/capitali e dai benefici oligarchici che l’hanno dominato e rovinato negli ultimi dieci anni, un certo grado di disintegrazione sembra ineludibile. Per porre rimedio a questa situazione, il primo passo è quello di de-sacralizzare la Unione Europea, portarla giù dall’altare e collocarla a tiro di una critica realista.

 

Morti viventi, la Società delle Nazioni

Cosa può succedere in mancanza di questa decostruzione ordinata che permetta di riformulare il progetto europeo nel lungo periodo? Continuerà ad esistere ciò che abbiamo adesso: la frana a piccoli passi della UE attuale.

In questo senario la UE si convertirà in una specie di morto vivente sempre più irrilevante a tutti gli effetti. Un po’ come la Società delle Nazioni, antecedente dell’ONU. Ricordate? Anche quella nacque con un buon proposito, nel 1919, per imporre la pace tra gli europei e finì per tramutarsi in uno strumento degli interessi degli imperi coloniali occidentali.

La Società delle Nazioni fu completamente inoperante mentre si ponevano le basi della seconda guerra mondiale, il riarmo tedesco e l’invasione giapponese della Cina, e quando la sciolsero nell’aprile del 1946 nel panorama di un’Europa e un Giappone in rovina, nessuno ne sentì la mancanza perché era morta da molto tempo.


(*) Questo testo riprende le note della Conferenza “Crisis del eje franco-alemán, ¿terminal o reconducible?” pronunciata il 26 gennaio nel Palau Malaya di Barcellona su invito del Consiglio catalano del Movimento Europeo.

Pubblicato su La Vanguardia il 1.2.2017
[Traduzione di Michelangela Di Giacomo]

NOTE
(1) Si vedano le previsioni per il 2017 del LEAP, raro think tank europeista indipendente famoso per il suo realismo critico. In: GEAB, 111. 15/01/2017.
(2) Per la posizione di Lordon, vedi qui e qui.
(3) Sulla narrazione narcisista dell’Unione europea e la sua legittimazione, vedi: Europa, ¿se hace o deshace?
(4) L’evoluzione dell’opinione negativa sulla UE è rilevatrice: 71% in Grecia, 61% in Francia, (24 punti in più rispetto al 2007) e il 39% in Italia (23 punti in più che nel 2007). Si veda Pew Research Center, junio 2016. Sul fallimento dell’integrazione dell’ex blocco dell’Est: Joachim Becker, Europe´s other periphery. NLR, maggio/giugno 2016. Il disincanto che si riflette nei sondaggi del BERD nell’Est è ancor più notevole: nel gruppo di Visengrad, il più virtuoso dell’ex blocco, l’opinione sul miglioramento o meno della qualità della vita rispetto al 1989 divide a metà i cechi, gli slovacchi e i polacchi, mentre l’80% degli ungheresi pensano che le cose siano peggiorate. In Romania alcuni sondaggi hanno dato un appoggio che raggiunge l’80% allo stato di cose sotto il regime di Ceausescu, uno dei peggiori del blocco fino alla fine degli anni ’80.
(5) Le Figaro, 29/01/2015.
(6) Ecco qua la serie completa (percentuale dei partecipanti):
-1992: il 50,7% di danesi votani contro il Trattato di Maastricht. Li si costringe a votare di nuovo.
-2001: il 53,9% degli irlandesi votano contro il trattato di Nizza. Li si costringe a votare di nuovo.
-2005: il 55% dei francesi e il 61% degli olandesi rifiutano il trattato costituzionale europeo. Non li si fanno votare di nuovo (troppo rischioso) e si include l’essenza di ciò che è stato respinto nel Trattato di Lisbona, due anni dopo.
-2008:  il 53,4% degli irlandesi torna a pronunciarsi contro quello che ora si chiama Trattato di Lisbona.
-2015: referendum greco contro l’austerità (61,3%). Si impone ai greci ancor più austerità.
-2016: Il 61,1% degli olandesi respinge l’accordo di associazione tra UE e Ucraina.
-2016: Brexit (51,9%)
-2016: 59,4% degli italiani boccia la riforma costituzionale.
(7) In Siria si è assistito al ritorno in azione di questa coalizione di falchi militari, giornalisti e difensori dei diritti umani ben intenzionati che chiedono più guerra.
(8) Questo il bilancio:
-Afghanistan: 15 anni di guerra (per non dire 30, se si include i sovietici), 230.000 morti / i talebani sono ancora forti / catastrofe sul terreno della sicurezza e assenza di miglioramenti delle condizioni di vita. Al Qaeda nasce lì.
– Irak: 13 anni di guerra / un milione di morti / divisione del paese in tre tronconi e condizioni di vita peggiori che con Saddam. L’ISIS nasce lì.
-Libia: 5 anni di caos / 40.000 morti / paese diviso in tre e condizioni di vita peggiori che con Gheddafi. Ulteriore destabilizzazione dell’Africa Subsahariana.
-Siria: 5 anni di guerra / 350.000 morti / probabile divisione in due o tre tronconi / Situazione generale molto peggiore che prima della ribellione.
(9) La risoluzione del Parlamento Europeo del 14 ottobre 2016, nella quale si accusano i mass media russi di fare, nei confronti della UE (con l’obiettivo di “minare la coerenza della politica estera europea”), lo stesso che i media occidentali fanno da sempre nei confronti della Russia, illustra il fallimento europeo nei confronti di alcuni media russi, come il canale RT, che ha aumentato la sua influenza in occidente, contribuendo al pluralismo delle propagande. La risoluzione colloca la minaccia della propaganda russa allo stesso livello di quella dello Stato islamico e costituisce un attacco molto significativo al pluralismo dell’informazione.
(10) Per una cronaca dei termini della negoziazione che hanno posto fine alla guerra fredda in Europa, si veda R. Poch-de-Feliu, La quiebra optimista del orden europeo, en La Gran Transición. Rusia 1985-2002. Barcelona Crítica 2003.
(11) Il discorso di Putin alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco di Baviera del 10 febbraio del 2007, dieci anni fa, fu la più chiara espressione della posizione russa. Per una lettura interna della posizione muscolare di Putn in politica estera e i rischi di uno scenario da 1905 per il suo regime, si veda: Rusia, riesgos y agravios
(12) Il segretario generale della CDU, Volker Kauder, può, ad esempio, vantarsi ora che “l’Europa parla tedesco” e ricevere per questo un’ovazione nel congresso del suo partito. Brandt, Kohl y Schmidt, non si sarebbero mai potuti permettere questa libertà.
(13) Su questo si veda, Poch-de-Feliu/Ferrero/Negrete: La Quinta Alemania. Un modelo hacia el fracaso europeo. Icaria, Barcelona 2013.
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