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Cosa bolle nel pentolone eurista?

Merkel e l' «Europa a più velocità»

di Leonardo Mazzei

gal 4731L'Europa, intesa come Unione Europea, vive un drammatico processo di disfacimento. Sia pure in maniera assai lenta, se ne stanno accorgendo un po' tutti. Anche quelli che sul radioso futuro dell'Unione avrebbero di certo scommesso. Tra chi invece resta lì coi suoi dogmi euristi, degni di un'altra epoca che fu, c'è da segnalare senz'altro il Pd ed i pittoreschi cespuglietti di destra e di "sinistra" che gli ruotano attorno.

Costoro non sono però soli. A dargli manforte c'è una parte importante dei commentatori mainstream: quelli che hanno deciso di suonare la solfa del «meno male che Trump c'è», così ci costringerà a far quelle cose che diversamente non avremmo (come UE) mai fatto. Bella questa fissa del «vincolo esterno» come unico motore di quello che secondo loro sarebbe addirittura un «sogno»!

Ma su questo torneremo tra poco. Prima occupiamoci di cose più serie. Come noto la signora Merkel ha parlato a Malta di «Europa a più velocità». Subito dopo il signor Draghi è corso a chiarire che la diversificazione delle velocità non riguardava l'eurozona. Niente euro A ed euro B, insomma, ma «solo» un diverso grado di integrazione, maggiore per i paesi dell'area euro, minore per gli altri. Poi i due si sono incontrati e, almeno secondo i resoconti passati alla stampa, tutto sarebbe finito a tarallucci e vino.

Quanto sia credibile questo lieto fine della storiella è facile da comprendersi. Se le cose stessero come dice il custode della sacra moneta saremmo di fronte alla più classica delle scoperte dell'acqua calda. E' ovvio che c'è dell'altro. E l'«altro» che ha scucito per un attimo la prudente bocca della cancelliera si chiama proprio rottura dell'euro. Non che in proposito le cose siano ancora chiare, dato che entrano in gioco non solo aspetti economici, ma altri squisitamente politici come ad esempio l'esito delle elezioni francesi. Ma laddove si elaborano le strategie di fondo il problema è chiaro e le contromisure cominciano ad essere quantomeno accennate.

Ma quali sono le vere intenzioni della Germania? A volte per capire le cose serie può essere utile confrontarsi con quelle meno serie, quelle che ci vengono presentate come ragionevoli e di buon senso. Torniamo così ai commentatori di cui sopra. A corto di argomenti dinanzi allo sconquasso attuale, del tutto impreparati ad una realtà che non avevano minimamente immaginato, essi non sanno far altro che riproporci la narrazione di sempre: quella secondo cui è vero sì che l'Unione incespica di continuo e su tutto ma alla fine ce la farà.

Ora è chiaro che di fronte ad una simile certezza religiosa c'è ben poco da discutere. Possiamo però farlo confrontandoci con gli argomenti di quegli analisti più seri che, ben comprendendo l'estrema fragilità della loro fede, indicano almeno quel che secondo loro l'Unione (o, se preferite, l'Eurozona) dovrebbe fare per salvare se stessa.

Prendiamo allora due editoriali apparsi di recente sul Sole 24 Ore, quello di Adriana Cerretelli (Lo shock Trump e la ridotta dell'Europa, 2 febbraio 2017) e quello dal titolo ancora più esplicito di Carlo Bastasin (Se Trump e Putin riescono nel miracolo di ricompattare l'Ue, 10 febbraio 2017).

Cerretelli, che del giornale è corrispondente da Bruxelles, dopo averci parlato della presa d'atto, da parte europea, dell'«insostenibile pesantezza» del rischio Trump - Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo, ha inserito gli Stati Uniti (insieme a Russia, Cina e Medio Oriente) tra le minacce che incombono sull'Unione! - giunge ad una conclusione assai secca.

Questa:

«L'Europa ha due possibilità: ho subisce l'anarchia in piena subalternità, cioè non sceglie, o ricomincia da Trump. Impresa ciclopica ma obbligata. In un mondo dove il multilateralismo muore con i vecchi totem del libero commercio e dell'economia di mercato e la globalizzazione si infrange sul muro del protezionismo Usa di ogni tipo e colore, che inevitabilmente scatenerà altri in una spirale crescente di rappresaglie e contro-ritorsioni, l'Unione e l'eurozona saranno costrette a rivedere drasticamente il proprio modello di sviluppo».

Che significa in pratica tutto ciò? Per Cerretelli significa tre cose: (1) privilegiare la domanda interna piuttosto che l'export, e dunque (2) ripensare l'austerità e (3) spingere i paesi con i più alti surplus commerciali (Germania ed Olanda) a reinvestirli in quello che l'editorialista chiama «nuovo modello», includente politiche energetiche e della difesa più integrate.

Tutti sanno che chiedere alla Germania di negare se stessa domandandogli di cessare la propria politica mercantilista è un po' arduo, ma i sogni sono sogni, e questa è infatti la conclusione dell'editorialista del Sole:

«Sarebbe paradossalmente bello che Trump, il guastatore dell'ordine mondiale, passasse alla storia come l'artefice involontario della nuova Europa».

Alla stessa idea di fondo si aggrappa Bastasin. Il quale la mette soprattutto sul piano della geopolitica. Siccome Trump sembrerebbe andare verso un'alleanza con Putin, il blocco orientale dell'Unione - antirusso fin nel dna - sarà costretto a finire nelle braccia di Berlino, come si è visto con la recente visita a Varsavia di Angela Merkel. E siccome Trump ha come nemico numero uno la Cina, cosa c'è di meglio che abbracciare il governo di Pechino proponendogli un accordo sul commercio euroasiatico in grado di sostituire l'ormai fallito Ttip?

Ma non basta. Secondo la tesi di Bastasin a Bruxelles, oltre a puntare ad un accordo con i paesi del Mercosur, si stanno attivando «contromisure  per stringere rapporti economici anche con l'India, i Paesi del Golfo e altre potenze economiche emergenti». Tra questi proprio il Messico colpito da Trump.

Ora, che in questo momento tutto si stia muovendo è evidente. Che cerchi di farlo anche l'Unione è cosa fin troppo ovvia. Altrettanto ovviamente, però, anche gli altri si muovono. Ed ognuno lo fa in base ai propri interessi nazionali, in un quadro di deglobalizzazione che se è solo agli inizi non per questo è meno dirompente.

Difficile perciò credere alla conclusione di Bastasin. Quella secondo cui:

«In tale quadro l'Europa potrebbe finire per assumere il ruolo di garante dei sistemi multilaterali di commercio, al posto degli Stati Uniti».

Bastasin, seppellendo un po' troppo rapidamente la forza dell'impero a stelle strisce, immagina insomma che l'Europa, di necessità alleata con la Cina di Xi Jinping, possa riprendersi dopo un secolo il ruolo di capofila dell'Occidente.

Breve digressione. Non sappiamo cosa possano pensare di tutto ciò gli euroasiatisti. Nel loro puzzle manca infatti la Russia. E' Putin il traditore dell'asse da loro immaginato, od è invece il segretario del Pcc che guida attualmente l'Impero di Mezzo? Avremo certo modo di riparlarne, ma ora torniamo all'Europa.

L'idea di un'Unione che si rafforza «grazie a Trump» non sta molto in piedi. Degli aspetti economici, sui quali si fonda il ragionamento di Cerretelli, abbiamo già detto. Le richieste di una svolta alla Germania non sono certo nuove. Ma il destinatario le ha sempre rispedite al mittente con ruvidità e prontezza. Andrà diversamente stavolta? Difficile crederlo, ed in ogni caso non c'è un solo segnale che lo faccia pensare.

E su quello di Bastasin? Se l'articolista fosse coerente dovrebbe anzitutto richiedere l'uscita dei paesi UE dalla Nato e l'immediata chiusura delle basi USA in Europa. Come si possa perseguire il disegno geopolitico da lui abbozzato in un'Europa ancora occupata dalle forze militari americane è davvero un mistero. Un arcano che egli non affronta non solo perché politicamente scorretto, ma soprattutto perché travalica l'orizzonte immaginabile dall'articolista.

E poi, è davvero conveniente per l'Europa il conflitto più o meno caldo con la Russia? Ed in quanto ad India e Paesi del Golfo, cosa ci fa pensare che si avvicinerebbero al Vecchio Continente in risposta a Trump?

Insomma, quelle di Cerretelli e Bastasin più che analisi sono speranze. Certo, i due sono tutt'altro che sprovveduti. Dunque, nel loro argomentare ci sono temi reali e soprattutto concreti. Il che fa già una bella differenza con l'europeismo alla Scalfari od alla Boldrini. Il problema, però, è che il loro approccio è unidirezionale: vedono cioè le teoriche opportunità (per l'UE) ma non le ben più forti spinte disgregatrici del disegno di Trump. Spinte forti non solo perché provengono da quello che è pur sempre il centro del sistema, ma rese tali da dinamiche oggettive in atto anche indipendentemente dall'esito delle elezioni americane.

Ecco che allora la signora Merkel appare assai più realista di tanti analisti.

Siamo stati un po' lunghi proprio per arrivare alla conclusione che è meglio lasciar perdere i sogni degli euristi, per andare invece sul più solido terreno della realpolitik della Merkel.

Dal punto di vista tedesco, che è di gran lunga quello che conta di più in Europa, le cose sono piuttosto chiare. Di fronte alla gravità della crisi dell'euro, in prima battuta l'establishment teutonico punta alla difesa della moneta unica con nuove spinte verso una più marcata subordinazione dei paesi mediterranei (piano A), ma davanti all'impossibilità di applicare le loro ricette (ad esempio il fiscal compact) a Berlino sono pronti a passare al piano B.

Questo piano B non prevede due euro, dato che una simile architettura non solo richiederebbe un negoziato estenuante, ma condurrebbe anche ad una gestione incasinata al limite dell'inverosimile. Nascerebbero due banche centrali o la Bce (caso unico nella storia) gestirebbe entrambi gli euri? Basta porsi solo questa domanda per capire che proprio non è il caso.

L'idea è piuttosto un'altra. Posto che i paesi dell'eurozona dovranno avere pari «velocità», cioè uguale integrazione, dove sta scritto che il club dell'euro non possa perdere pezzi? In fondo Merkel ha detto che non dovranno esserci diverse velocità nell'area euro; dunque chi non è in grado di tenere il «ritmo» verrà probabilmente invitato ad uscire.

E' questa la vecchia idea tedesca del «nucleo duro» dell'euro, quello che grosso modo coincide con l'area economica germanica. Naturalmente niente di definitivo è ancora scritto riguardo a chi dovrà farne parte. E' piuttosto evidente, tanto per dirne una, che l'aggancio o meno della Francia a questo nucleo nord-europeo dipenderà innanzitutto da chi vincerà le presidenziali di aprile-maggio in quel paese.

Per l'Italia le cose sembrano invece più definite. In prima battuta, al nostro Paese verrà proposto di restare nella moneta unica, visto che questa è la convenienza assoluta dell'industria tedesca, ma solo a patto di nuovi e più duri sacrifici. In breve: la curva di riduzione del debito prevista dal fiscal compact non potrà mai essere rispettata, e questo lo sanno anche a Berlino, ma quella è la direzione in cui andare. Se questo non sarà possibile meglio che l'Italia esca in modo da evitare qualunque condivisione del debito.

Queste cose le ha dette a dicembre un esponente assai influente dell'establishment tedesco, quel Clemens Fuest  che presiede l'Istituto Ifo di Monaco di Baviera. Per costui, in Germania

«Le preoccupazioni per la stabilità dell’euro sono molto presenti e c’è un’opinione diffusa che l’alto livello di debito pubblico e la bassa crescita sollevino interrogativi sul fatto che l’Italia voglia restare nell’area euro. C’è anche la preoccupazione che, se l’Italia avesse bisogno di finanziamenti dall’esterno, altri Paesi dovrebbero sopportare il costo del debito italiano. Come per la Grecia».

Per cui:

«C’è un forte interesse dell’Europa nel suo complesso nel tenere l’Italia nell’euro, ma questo è accettabile per la popolazione italiana solo se il Paese riesce a tornare a livelli soddisfacenti di crescita. L’Italia deve riuscirci attraverso miglioramenti della competitività e riforme. Se poi risulta che l’euro è un ostacolo alla crescita in Italia, sembra preferibile che il Paese lasci l’euro. Certo, è una decisione che deve prendere il governo italiano».

La questione è dunque ormai posta. E lo scottante dossier è da tempo nelle mani dei decisori politici. In Italia, però, si preferisce parlare di primarie e di polizze, come se il problema non ci riguardasse.

Viceversa, il piano B della Merkel è proprio centrato sul nostro Paese. Se alla fine l'uscita si imporrà, a Berlino non vogliono che questo significhi un vero sganciamento, una vera liberazione dall'Euro-Germania. Insomma, anche fuori dall'euro si cercherà di avere un'Italia imbrigliata nella gabbia europea, un paese a sovranità molto, ma molto limitata.

E' questo che bolle nel pentolone eurista, e soprattutto nel suo comparto germanico, nel momento della massima crisi della moneta unica e della stessa UE. Uno scenario che chiarisce in maniera definitiva il perché insistiamo tanto che se è necessario uscire dall'euro, altrettanto decisivo è il «chi» guiderà e il «dove» sarà diretto questo processo. 

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