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operaviva

Desiderio di filosofia

Metafisica della felicità reale

Alain Badiou

WCreek HopperCome molti lettori sanno, Rimbaud utilizza una strana espressione, «le rivolte logiche», che fu anche titolo di una bella rivista fondata da Jacques Rancière e altri amici. La filosofia è qualcosa dello stesso ordine: una rivolta logica. È la combinazione tra un desiderio di rivoluzione – la felicità reale impone che ci si sollevi contro il mondo per com’è e la dittatura delle opinioni prefissate – e un’esigenza di razionalità – la pulsione in rivolta da sola non basta a raggiungere gli obiettivi che si prefigge.

Il desiderio di filosofia è appunto, in un modo estremamente generale, il desiderio di una rivoluzione nel pensiero e nella vita, tanto collettiva che personale, e ciò in vista di una felicità reale distinta dalla parvenza di felicità qual è la soddisfazione. La vera filosofia non è un esercizio astratto. Da sempre, fin da Platone, essa si erige contro l’ingiustizia del mondo. Contro lo Stato miserabile del mondo e della vita umana. Ma lo fa in un movimento che sempre protegge i diritti dell’argomentazione e che in ultima istanza propone una nuova logica all’interno dello stesso movimento con il quale essa libera il reale della felicità dal suo sembiante.

Mallarmé, dal canto suo, ci propone questo aforisma: «Ogni pensiero emette un lancio di dadi».

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malacoda

Attualità di Adorno*

Per il 50º anniversario della pubblicazione di Dialettica Negativa

di Sandro Dell’Orco

Tra il dichiarato, disumano e anarcoide irrazionalismo dei Post-strutturalisti, e la inconfessata, contraddittoria e socialdemocratica metafisica social-comunicativa di Habermas, non si saprebbe cosa scegliere

AdornoDiciamolo subito. Adorno è stato sostanzialmente dimenticato dalla cultura mondiale dall’anno della sua morte. Come il marxismo, a cui si ispirava, è stato spazzato via dai luoghi della cultura istituzionale e mediatica. Il processo è stato graduale ma inesorabile e ha riguardato, oltre lui, Horkheimer, Marcuse, Mitscherlich, Pollock, Schmidt e tanti altri suoi sodali e allievi. Si è salvato dall’oblio solo colui che lo ha rinnegato, sia che non fosse stato più d’accordo con lui, sia che, fiutando la nuova aria, si fosse affrettato a scendere dal carro del marxismo francofortese prima che fosse troppo tardi. Parlo di Habermas, naturalmente. Non conosco ciò che è accaduto nelle istituzioni culturali tedesche a partire dagli anni settanta del secolo scorso, ma se è accaduto lì ciò che è avvenuto in tutto il mondo (e che è rilevato magistralmente dal massimo sociologo italiano Luciano Gallino, purtroppo recentemente scomparso, in Finanzcapitalismo (2011) e L’impresa irresponsabile (2005)) e cioè la colonizzazione di ogni istituzione culturale da parte dell’ideologia neoliberista, l’epurazione progressiva del marxismo francofortese si può spiegare come momento della controffensiva planetaria del capitale finanziario per la riconquista dell’egemonia economica, sociale e spirituale messa in crisi dal proletariato.

Di fatto, a partire dagli anni ottanta e soprattutto dal 1989, il marxismo da teoria egemone nelle istituzioni culturali, politiche e sociali, diviene una teoria di nicchia, come ai suoi primordi; sociologicamente una sorta di riserva indiana in cui pochi e attempati superstiti o reduci, in attesa di scomparire, ripetono alla luna le loro verità. Adorno, marxista, si eclissa, come tutti gli altri autori marxisti (Lukàcs, Althusser, Gramsci, Lenin, ecc.) che risplendevano, magari offuscandosi a vicenda, all’orizzonte dell’imminente riscatto dell’umanità.

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azioni parallele

Ricezioni di Nietzsche nella teoria critica

di Marco Celentano

“c’è un complotto nietzscheano che non è quello di una classe, ma di un individuo isolato (come Sade) che possiede i mezzi di tale classe e agisce non solo contro la propria classe, ma anche contro le forme esistenti dell’intera specie umana”. (P. Klossowski)

nietzsche munch1. Nietzsche in alcuni articoli di Horkheimer degli anni Trenta

Max Horkheimer si confronta, a più riprese, col pensiero di Nietzsche, lungo il percorso che conduce, tra l’inizio degli anni Trenta e la fine del conflitto mondiale, dalle prime formulazioni della teoria critica alla redazione conclusiva della Dialettica dell’illuminismo (1947). Questo lavoro trova un primo riscontro nei passi conclusivi del saggio L’utopia, incluso nel volume Gli inizi della filosofia borghese della storia (1930). Valorizzando le pagine della II Inattuale in cui il filosofo critica l’uso della storia ai fini di un’”idolatria del fattuale”1, l’autore pronuncia, al contempo, un severo giudizio sul suo itinerario speculativo: “Nietzsche, la cui successiva evoluzione filosofica certo ha condotto lui stesso a idolatrare non già la storia umana, ma la storia naturale, la biologia, e che effettivamente è caduto nella «nuda ammirazione del successo», della pura vitalità, qui ha formulato un pensiero dell’illuminismo”2. Tale pensiero insegna che la storia “non pone compiti né li risolve. Solo gli uomini reali agiscono superano ostacoli e possono riuscire a ridurre sofferenze singole o generali che essi stessi o le potenze della natura hanno creato La storia autonomizzata panteisticamente in entità sostanziale unitaria altro non è che metafisica dogmatica”3.

Accanto a una lucida critica della filosofia della storia di matrice idealistica, traspariva, in questi passi, un debito irrisolto verso di essa. Ne era indice l’accogliere una nozione, in ultima analisi, pre-trasformista della “storia naturale” (alla cui rielaborazione, non a caso, avrebbe poi lavorato Adorno) e della “biologia” stessa, inquadrate attraverso l’astratto concetto di “pura vitalità”, concepite come sfere del meramente istintuale, della ripetizione ciclica e, in ultima analisi, del non storico.

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communia

Il militante filosofo

di Felice Mometti

filosofiaÈ sempre difficile risalire ai motivi che stanno alla base di una ripresa di interesse per il pensiero teorico e politico di un autore che ha svolto un ruolo non secondario nel campo del marxismo critico. Probabilmente sono sempre un insieme di coincidenze e necessità. A sei anni dalla morte di Daniel Bensaïd nel giro di pochi mesi, in Francia, sono usciti alcuni importanti contributi: la ripubblicazione di Stratégie et parti, che risale alla metà degli anni ’80, con una lunga introduzione e altrettanto lunga postfazione di Ugo Palheta e Julien Salingue(1) e il numero monografico, dedicato a Bensaïd, di Cahiers critiques de philosophie dal titolo Le militant philosophe(2). Ed è stata anche annunciata l’uscita, entro quest’anno, di un altro dossier monografico a cura questa volta della rivista Historical Materialism.

 

Un bilancio incerto

La prima pubblicazione di Stratégie et parti, nel 1987, era stata preceduta da un lungo contributo su Critique Communiste(3) in cui si esplicitava senza mezzi termini la profonda crisi che stava attraversando la Ligue Communiste Révolutionnaire (Lcr), l’organizzazione in cui militava, e venivano avanzate alcune ipotesi sul cambiamento radicale di fase politica dopo le lotte del decennio precedente.

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koine

Il realismo, fase suprema del postmodernismo?

Note su «New Realism», post modernità e idealismo

Diego Fusaro

«Realismo ingenuo, realismo scientifico, realismo filosofico: malgrado tutte le pretese dei difensori ostinati, esso è sempre molto ingenuo, perché ci vorrebbe assai poco ad accorgersi che tutto ciò che si trova, o si escogita, o si costruisce col pensiero, non può essere altro che pensiero» (G. Gentile, Genesi e struttura della società).

postmodern new realism1. La segreta complementarietà di realismo e postmodernismo

Uno spettro si aggira per il mondo: lo spettro del realismo. È lo stesso Maurizio Ferraris, nelle pagine programmatiche del Manifesto del nuovo realismo1 (2012), a evocare l’incipit del manifesto marx-engelsiano per alludere all’odierno dilagare ipertrofico del realismo in tutte le sue forme (politiche, sociali, economiche, filosofiche). Analogamente a Marx ed Engels, che si richiamavano allo spettro del comunismo come a una forza già esistente e pronta a seminare il panico nella vecchia Europa, Ferraris adombra come quella del realismo sia una presenza “spettrale” perché vaga e, insieme, materialmente già esistente e affermata. Una presenza reale, appunto, e insieme dai contorni evanescenti, come emerge non appena si consideri che la categoria multicomprensiva di realismo alberga oggi, al proprio interno, tali e tante determinazioni concettuali differenti da rendere, eo ipso, ambigua, scivolosa e sfuggente la stessa categoria. E, non di meno, come subito cercherò di chiarire, al di là di questa strutturale proteiformità della formula, è possibile individuare un comun denominatore tra le molteplici determinazioni semantiche sussunte sotto l’etichetta di realismo.

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la citta futura

Le radici storico-antropologiche della nozione di feticismo

di Alessandra Ciattini

La nozione di feticismo nasce all'interno della riflessione sulla “religiosità primitiva” ma da questa è trasferita ad altri ambiti culturali. Contiene in sé una prospettiva critica che consente di scomporre i nostri “feticci” nel sistema di relazioni che in essi si cristallizzano 

portafortuna 16In una fase storica in cui alcuni sentono la nostalgia di rapporti uomo / natura improntati alle antiche e simbiotiche concezioni animistiche [1], forse è opportuno ricostruire brevemente la storia di una nozione centrale del pensiero moderno. Mi riferisco alla nozione di feticismo usata da Hegel, Marx, Comte, Freud per citare solo i pensatori più grandi, anche se in contesti diversi e con obiettivi differenti. E ciò non per amore di pura erudizione, ma cercare di far chiarezza - per quanto è possibile nel breve spazio concessomi in questa sede - su due punti: 1) cosa suscita l'interesse per le forme religiose extra-occidentali ? 2) perché guardare ad altre forme di vita sociale per comprendere alcuni elementi costitutivi della propria società e cultura?

L'interesse per nozioni coniate per definire un'esperienza storica “altra” o direttamente provenienti dalle forme sociali extra-occidentali non è ovviamente isolato al feticismo; si pensi ad esempio al concetto di tabù - reso noto da James Cook nei suoi diari di bordo alla fine del '700 - che pure ha avuto tanto successo e che è un parola di origine polinesiana, il cui significato è “marcato con una foglia”. Tale marcatura indicava che l'oggetto così segnato non poteva essere violato, altrimenti sarebbe scattata sul violatore una punizione automatica di origine sovrannaturale, la quale si sarebbe quindi realizzata anche nel caso in cui il trasgressore non fosse stato scoperto.

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il rasoio di occam

Il socialismo come limite conflittuale del capitalismo

di Nicolò Bellanca

Il socialismo è oggi una voce del movimento intellettuale e politico planetario che lotta per limitare l'espansione capitalistica nella vita personale e sociale. Si tratta di una prospettiva che non riesce però ad affermarsi ne "L'idea di socialismo" di Axel Honneth, argomenta Nicolò Bellanca in questo nuovo capitolo della riflessione avviata sul "Rasoio di Occam" intorno all'ultimo libro del filosofo tedesco

capitalismo socialismo honneth 499Il recente libro del filosofo francofortese Axel Honneth, intitolato L’idea di socialismo, è un’occasione per chiederci se e quanto resti in piedi di una delle grandi impostazioni teoriche, e di uno dei maggiori progetti politici, della modernità.[1] L’impianto teorico del volume è scontato e abbastanza condivisibile: «al determinismo storico, alla centralità del proletariato e alla rigidità dell’economia pianificata centralizzata, si sostituisce un deciso sperimentalismo storico, aperto sia riguardo alle forme economiche sia riguardo agli attori in gioco. Alla cecità giuridica e politica del socialismo tradizionale è contrapposto un progetto radicalmente democratico, giocato sulla discussione pubblica e sull’ampliamento dei partecipanti a essa».[2] In termini costruttivi, al cuore della proposta di Honneth vi è non già il valore dell’uguaglianza – come in tanti altri contributi sul tema del concetto di sinistra e/o di socialismo[3] –, bensì l’idea della libertà sociale: accanto alla libertà negativa come non-interferenza e a quella positiva come autodeterminazione, quella sociale si acquisisce soltanto in relazione con gli altri. Più esattamente, l’ideale della libertà sociale si realizza non nel rapporto dell’uno-con-l’altro (intersezione), bensì in quello dell’uno-per-l’altro (interconnessione) e, secondo Honneth, coincide, tra i principi normativi introdotti dalla Rivoluzione francese, con la fraternité o reciprocità solidale.

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manifesto

Deleuze, il movimento reale del molteplice

Giso Amendola

Il saggio «Gilles Deleuze» (DeriveApprodi) di Michael Hardt libera il campo dalla lettura neoliberista del filosofo francese. E svela la politicità dell’opera, considerandola come un nodo nella trama critica dello status quo

08clt01af01All’inizio degli anni Novanta, nel 1993, due anni prima della morte di Gilles Deleuze, Michael Hardt pubblica uno dei primi lavori monografici in lingua inglese dedicati al filosofo di Logica del senso e Differenza e ripetizione: oggi Gilles Deleuze. Un apprendistato in filosofia torna disponibile grazie a DeriveApprodi e alla “neonata” collana Operaviva (l’edizione italiana è a cura di Girolamo De Michele, la traduzione è di Cecilia Savi).

Quando esce originariamente il libro di Hardt, la recezione di Deleuze nei paesi anglosassoni sta avvenendo a seguito di quell’ondata di interesse per il pensiero radicale continentale che ci avrebbe fatto parlare poi di una French Theory. Il libro di Michael Hardt ha davanti originariamente questo panorama: il poststrutturalismo è stato sì accolto nel panorama americano, ma è stato letto soprattutto come una sorta di più o meno ironica e disincantata critica del fondamento, un abbandono lineare e senza scosse della tradizione filosofica, senza che questo congedo riesca a sviluppare una reale potenza costruttiva e critica.

L’obiettivo dichiarato di Hardt è quello di ribaltare questa visione del poststrutturalismo: si tratta di rivendicare al poststrutturalismo la capacità di attraversare la modernità cercandone le “filiazioni alternative”, e di affrontare la questione del fondamento evitando di rimanere impigliati nella meditazione perpetua sulla sua eclissi.

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pierluigifagan

Dall'era moderna a quella complessa

Transizione dalla logica del dominio a quella del condominio

di Pierluigi Fagan

La presente riflessione, non breve perché l’argomento non lo consente, raccoglie un percorso di pensiero che ho sviluppato da tempo in vari articoli che gli interessati troveranno  riportati nelle note. Riepiloga ed argomenta intorno alla tesi che noi si sia entrati una nuova era, l’era della complessità. Entriamo in questa nuova condizione del mondo, con istituzioni, credenze ed immagini di mondo, ereditate da una lunga storia che va indietro anche oltre la modernità, una storia che aveva caratteristiche del tutto diverse. Ne consegue il concreto rischio di dis-adattamento

kandinsky gravitationL’epoca in cui siamo capitati (Heidegger avrebbe detto “siamo stati gettati”) la definiamo “complessa”. Questa complessità ne è il concetto, come moderno è stato il concetto di quella che sta finendo. L’era della complessità subentra al moderno e termina anche quella lunga incertezza definitoria che è ricorsa all’utilizzo dei “post-qualcosa” per segnare la fine del moderno ma non ancora la nascita di qualcos’altro.

Vorremmo argomentare su tre punti: 1) perché definiamo la nostra, addirittura una “nuova era” e perché la definiamo complessa; 2) che cosa intendiamo per complessità; 3) cosa differenzia il complesso dal moderno e cosa ci indica, sul piano del cambiamento adattivo, questa differenza. I primi due punti si co-implicano e quindi l’argomentazione verrà svolta in un’unica soluzione prima di argomentare sul terzo

 

1) UNA NUOVA ERA? Da tempo è in questione, presso i geologi e da loro alla comunità scientifica in senso più ampio, se definire la nostra era in maniera nuova rispetto alla precedente. L’ipotesi in discussione è sul termine “antropocene”, l’era antropica ovvero l’era in cui non è più e solo la Natura a determinare il suo stesso stato e divenire ma la relazione tra questa è l’umano.

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filosofiaitaliana

La filosofia politica di Giorgio Agamben1

Concetti, metodi e problemi

di Jacopo D’Alonzo

ange 17 672 458 resize0. Considerazioni preliminari

Agamben è divenuto negli ultimi anni uno dei filosofi italiani più in vista a livello internazionale2. Il progetto Homo sacer (HS), inaugurato nel 1995 con la pubblicazione del volume omonimo, si può senz’altro considerare come la ricerca che ha riscosso maggior successo di pubblico3. Le ra-gioni sono da ricercare anzitutto nello stile: conciso ed essenziale nell’apparato bibliografico ma allo stesso tempo ricco di riferimenti eruditi – che ne costituiscono spesso il marchio di fabbrica – illustrati attraverso un vocabolario minimale e una prosa piana. Molto più vicino alla critica letteraria che alla saggistica accademica, ogni libro di Agamben si rivolge ad un pubblico ben più vasto di quello dei soli specialisti.

A ciò si aggiunga l’attenzione prestata da Agamben ad alcune tematiche di stringente attualità: per esempio il significato delle misure d’emergenza, della decretazione d’urgenza, delle carceri e dei campi d’internamento per immigrati, il confine sempre più labile fra cittadino e potenziale criminale, la costante minaccia del terrorismo, e ancora la crisi della rappresentatività, della sovranità nazionale, oppure la centralità della finanza, dell’economia, il ricatto del debito, il valore politico assegnato a questioni che sembrano esulare dall’orizzonte della cosa pubblica (fine-vita, suicidio assistito, salute pubblica, etc.). L’opera di Agamben, forse più di altre, sembra cogliere il cuore problematico del nostro presente.

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filosofiainmov

Italian Theory?

di Lorenzo Chiesa

schiele122Che cos’è la cosiddetta “Italian Theory”? Per quali ragioni è diventata di recente così centrale in una serie di dibattiti ontologici e politici, soprattutto nel mondo anglofono, dibattiti che coinvolgono non soltanto la filosofia ma anche le scienze sociali? E anche: da dove proviene la sua spesso elusiva prossimità alla biopolitica, una politica per la quale, seguendo la definizione di Giorgio Agamben, “il potere non ha di fronte a sé che la pura vita biologica senza alcuna mediazione”?

In questo intervento intendo sondare criticamente il successo, ma anche i limiti, di tale fenomeno teorico e sociologico (significativamente denominato “Italian Theory” anche in italiano). Da un lato l’espressione “Italian Theory” rimane altamente problematica nonostante una serie di recenti tentativi di chiarimento (penso in primis al lavoro ammirevole di Roberto Esposito): è sia troppo generica, cercando di raggruppare sotto questa etichetta un’ampia gamma di posizioni che rimangono per lo più incompatibili, che troppo specifica, dato il connesso rischio di essere associata al tentativo di far risorgere un’idea, francamente datata, di filosofia “nazionale”. Dall’altro lato, è fuori dubbio che nel corso degli ultimi due decenni un numero crescente di pensatori italiani provenienti sia dalla filosofia che dalle scienze sociali sono diventati a ragione molto popolari all’estero.

Come spiegare questa inaspettata notorietà su scala globale? Si tratta forse di una specifica capacità nostrana di sperimentare nella pratica politica le filosofie della differenza originate in Francia nella seconda metà del ventesimo secolo?

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filosofiaitaliana 

Italian Theory – una riflessione critica1

di Augusto Illuminati

Utilità e pericoli della “rivoluzione passiva”. Pericolo di disfattismo storico, perché l’impostazione generale del problema può far credere a un fatalismo, ecc.: ma ala concezione rimane dialettica, cioè presuppone, anzi postula come necessaria, un’antitesi vigorosa e che metta in campo tutte le sue possibilità di esplicazione intransigentemente. Dunque non teoria della “rivoluzione passiva” come programma […] ma come criterio di interpretazione in assenza di altri elementi attivi in modo dominante (A. Gramsci, Q 14 (1932-1935)2.

09clt f01Ogni traduzione riuscita sedimenta una parte nella lingua. La Germania non ci ha regalato la rivoluzione fra Settecento e Ottocento, ma almeno Aufklärung e Idealismus sì. Per contro, trapela subito un filo di fretta e di approssimazione nell’essere invalso un termine che unisce i vantaggi della voga internazionale a una povera presa sull’originaria realtà generativa. Diciamola tutta: che arriva quando la suddetta realtà si sta facendo sterile di fatti e idee, così da accentuare l’altrimenti perdonabile provincialismo della denominazione, sorta in ambito accademico anglosassone e un po’ troppo baldanzosamente importata. Benintenzionato ma isolato appare il distinguo terminologico di R. Esposito, che preferisce scandire la deterritorializzazione del pensiero europeo in tre fasi: German Philosophy (scuola di Francoforte emigrata in Usa e poi rientrata), French Theory (riadattata e arricchita dal passaggio nei dipartimenti statunitensi di Cultural Studies) e Italian Thought (pensiero della prassi e pratica di pensiero). La configurazione Thought si è rivelata desueta rispetto all’immediato mimetismo competitivo con i transalpini, ma non è questo il problema. Non si può non registrare il dettaglio singolare che tutti e tre i termini siano espressi in inglese, ovvero in un lessico che, non radicato in nessuno dei tre filoni, è proprio piuttosto della teoria analitica (egemone nell’accademia) o, più semplicemente, agisce da lingua veicolare universale e omologante.

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megachip

La rivolta che non c'è

di Paolo Bartolini

Ragioni e passioni per una resistenza creativa al tecno-capitalismo

NEWS 259541Il nostro è un tempo di paradossi: il precipitare delle crisi innescate dall’insostenibilità del capitalismo spettacolare integrato dovrebbe sollecitare azioni riparative di vasta portata nel breve periodo. L’emergenza climatica, il dissesto ambientale, la tragedia dei migranti e gli effetti rovinosi delle politiche di austerity sulle condizioni di vita di moltissime persone, sono convulsioni che scuotono il corpo febbricitante dell’Occidente denunciando la fine delle vecchie egemonie. Tali questioni offrirebbero seri motivi per rilanciare, senza ulteriori rinvii, un impegno politico collettivo che funga da antidoto contro le derive dell’indifferenza e del nichilismo compiuto. Ma – lo dicono da tempo i commentatori più lucidi del presente – l’intreccio di tali eventi macroscopici raramente produce delle risposte degne di rilievo. I ceti subalterni, che avrebbero tutte le ragioni per insorgere mettendo in discussione l’attuale assetto dei rapporti di potere, sembrano ipnotizzati, svuotati e impotenti. Il fenomeno francese della Nuit Debout è un primo segnale in controtendenza, positivo nel suo emergere, ma pur sempre aurorale.

Il paradosso cui facevamo cenno è, dunque, quello di un’epoca estrema (si parla, per noi occidentali, dell’imminente “fine di un mondo”) che non può affatto contare su dei soggetti capaci di agire in modo sensato e liberante perché, a monte, manca un’analisi accurata delle situazioni concrete in cui le dinamiche di dominio del sistema tecno-capitalista1 si riproducono ed articolano.

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doppiozero

Paolo Virno. L’idea di mondo

Alessandro Foladori

rft 3 1Esiste una certa lettura dell’opera di Gilles Deleuze che consente un aggancio tra la sfera ontologica e quella etica a partire dal non-concetto di immanenza e dal “canone eretico” della storia della filosofia, cui egli si rifà: Spinoza, Bergson, Nietzsche, gli stoici, per citare i più noti. Forse il più grande merito di una simile lettura sta nel fatto che essa rifiuta alla morte il privilegio di donare compiutezza e senso all’esistenza, per soffermarsi invece sull’incompiutezza senza mancanza che fa tutta la potenza di una vita.

L’idea di mondo. Intelletto pubblico e uso della vita di Paolo Virno (Quodlibet, Macerata 2015, pp. 187) non condivide con Deleuze alcuna premessa operativa esplicita, eppure sembra ruotare attorno allo stesso intento problematico. Il libro di Virno è composto da tre saggi, due dei quali già pubblicati nel 1994, che afferiscono a “generi” differenti. Il primo è un saggio filosofico stricto sensu; il secondo un trattato politico; e il terzo un programma di lavoro per una filosofia «da fare». Nonostante questo i tre saggi sono inestricabilmente avvinghiati l’uno all’altro, non solo perché ognuno prende l’abbrivio esattamente dal punto in cui quello precedente si interrompe, ma proprio in virtù del fatto che, pur nella loro differenza di genere e d’intenzione, sembrano essere tutti protesi a illuminare con luci diverse la stessa tematica di fondo.

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operaviva

Tender is the night

Le sofferenze dell'anima al lavoro

Federico Chicchi

tender1Il libro di Franco Berardi (Bifo), L’anima al lavoro. Alienazione, estraneità, autonomia (DeriveApprodi, 2016), ha il ritmo e l’appeal di una danza orientale. Non solo perché seduce e accompagna il lettore passo a passo, in virtù della sua cadenza sinuosa, ma soprattutto perché, in modo cristallino, disvela e mette a nudo, la pervasività della metamacchina capitalistica e la sua azione tossica sull’anima.

Il libro chiarisce fin da subito che per reagire alla catastrofe psichica e sociale del capitalismo contemporaneo è necessario avere ben presenti le ragioni del salto di paradigma che ha caratterizzato e quindi trasfigurato, a partire dalla prima metà dei Settanta, l’economia e la società occidentale.

«Lo sfruttamento industriale concerne i corpi, i muscoli, le braccia. (…) Ma se dalla sfera della produzione industriale ci spostiamo alla sfera della produzione digitale, scopriamo che lo sfruttamento si esercita essenzialmente sul flusso semiotico che il tempo di lavoro umano è in grado di emanare» (p. 8).

Ecco allora il sedimentarsi di un capitalismo del cognitivo e dell’immateriale, ma anche del seduttivo e degli affetti. Un capitalismo in cui produzione e riproduzione sociale si riflettono vicendevolmente e incessantemente allo specchio, creando uno spazio di coincidenza che non presenta soluzioni di continuità. Occorre quindi aver chiaro che il paradigma dialettico (e quindi anche il Marx troppo fedele a quest’ultimo) è oggi divenuto insufficiente a dare conto e quindi a sviluppare una critica efficace del nuovo discorso capitalista: