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paroleecose

Michel Foucault: scrittura di sé e sperimentazione

di Daniele Lorenzini

In quella Svezia in cui dovevo parlare un linguaggio che mi era straniero, ho compreso che potevo abitare il mio linguaggio – con la sua fisionomia d’improvviso peculiare – come il luogo più segreto e più sicuro della mia residenza in quel luogo senza luogo che rappresenta il paese straniero nel quale ci si trova. […] Credo che sia stato questo a farmi venire voglia di scrivere. Dal momento che la possibilità di parlare mi era negata, ho scoperto il piacere di scrivere.  Michel Foucault, Entretien avec Claude Bonnefoy, 1968[1]

Cinquant’anni fa Michel Foucault pubblicava Le parole e le cose

75683 54 news hub 69639 656x500In che modo Michel Foucault ha concepito e praticato l’articolazione tra ciò che ha chiamato “soggettivazione” (il processo di costituzione della soggettività) e la scrittura, anche dal punto di vista personale – ovvero in relazione alla propria pratica di scrittura e alla costituzione della propria soggettività? È a questa domanda che mi propongo di rispondere, senza pretendere di fornire una risposta univoca o definitiva, ma cercando di mettere in luce la tensione che appare, in particolare nei testi degli ultimi anni di vita di Foucault, tra due grandi “modelli” del rapporto soggettivazione-scrittura: da una parte, il modello della scrittura come pratica di de-soggettivazione, come strumento utilizzato per “svincolarsi” (se déprendre) da se stessi e dalla propria “forma-soggetto”; d’altra parte, il modello della scrittura come esercizio spirituale la cui funzione è “ethopoietica”, cioè come strumento di costruzione “positiva” di sé – di soggettivazione, dunque, piuttosto che di de-soggettivazione.

 

La scrittura come esperienza di de-soggettivazione

Per descrivere il primo modello, farò riferimento a una serie di testi e di interviste dal tono fortemente “autobiografico”, nei quali Foucault parla del proprio modo di fare ricerca in ambito storico-filosofico e del proprio rapporto con la scrittura.

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pierluigifagan

Logica del limite

Per una etica della complessità

Pierluigi Fagan

tolomeo terra piattaVi ricordate l’apeiron? Iniziando le prime pagine di una qualsiasi storia della filosofia occidentale, dopo Talete e semmai qualche accenno alla sapienza arcaica, vi trovate Anassimandro. Di costui c’è arrivato un solo, piccolo, frammento che dice che l’inizio di tutte le cose è l’apeiron. Fiumi di parole sono state scritte su questo concetto e prima ancora sulla sua traducibilità ma in sostanza, sembrerebbe che la questione sia abbastanza semplice. Se la cosa è ciò di cui possiamo dire, vedere, toccare, pensare i contorni, cioè i limiti, prima della cosa c’è l’apeiron, ciò di cui non si può dire, vedere, toccare, pensare i limiti. Prima di partire per la tangenziale dell’infinito però, dovremmo sostare un attimo sul punto stretto. L’apeiron è un concetto negativo in relazione alla cosa, è la non-cosa, quello da cui proviene la cosa, lo cosa è un ritaglio di qualcosa di precedente più grande. Dire, fare, toccare, pensare la cosa significa dargli i limiti. Prima c’è l’apeiron, dopo c’è la cosa, la cosa introduce il concetto di limite. Su questo pensiero potremmo indugiare a lungo perdendoci in una nuvola di rimandi del prima (Esiodo, il Rg Veda) e del dopo (su fino ad Heidegger) ma andremo oltre perché a noi, qui, non interessa l’apeiron ma il concetto di limite. Diremo solo che, in sostanza, Anassimandro fonda una branca del pensiero filosofico, quella che poi Aristotele sistematizzatore del pensiero greco, chiamerà filosofia prima e noi oggi -ontologia-, discorso (logos) su ciò che è (ontos), discorso sulla cosa.

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la citta futura

L’Ungheria e l’oblio di Lukàcs

Ferdinando Gueli intervista Janos Kelemen

Un rapporto da sempre tormentato quello tra il grande pensatore marxista ed il suo Paese natale, tanto che pochi giorni fa le autorità accademiche ungheresi hanno annunciato la revoca dei finanziamenti all’archivio Lukàcs di Budapest, che rischia pertanto la chiusura. Ne parliamo con Janos Kelemen, professore emerito di filosofia e linguistica dell’Università di Budapest, nonché direttore dell’Accademia d’Ungheria a Roma dal 1990 al 1995, e conoscitore del pensiero di Lukàcs

georg lukacsQuello tra Gyorgy Lukàcs ed il suo paese natale, l’Ungheria, è sempre stato un rapporto tormentato, per lui vale sicuramente l’antico detto latino nemo propheta in patria. Dalla rivoluzione bolscevica del 1919 guidata da Bela Kun e che lo vide giovane protagonista, all’esilio in Unione Sovietica negli anni tra le due guerre, durante il regime autoritario dell’Ammiraglio Horthy, dal periodo stalinista di Ràkosi al governo Nagy e alla rivoluzione del 1956, e infine negli anni successivi fino alla sua morte, avvenuta nel 1971. Ma anche dopo la morte di Lukàcs le classi dirigenti ungheresi, politiche ed accademiche, non hanno mai visto di buon occhio questo intellettuale che, invece, a livello internazionale, è riconosciuto come uno dei più grandi e brillanti filosofi marxisti del XX secolo. Nell’ultimo ventennio, dopo la caduta del socialismo reale ed il ritorno dell’Ungheria nel sistema capitalistico, si è assistito ad una vera e propria opera di rimozione sistematica della presenza e del lascito culturale di Lukàcs, potremmo definirla “operazione oblio”.

L’ultimo recente episodio è particolarmente significativo: si è avuta notizia che l’Accademia Ungherese delle Scienze sta revocando, per addotti motivi di bilancio, il finanziamento dell’archivio Lukàcs, l’unica piccola struttura rimasta, quasi ai margini, che raccoglie documentazione di fondamentale interesse scientifico per lo studio del pensiero lukacsiano, e che rischia così la definitiva chiusura.

Abbiamo intervistato, nella sua Budapest, a poche centinaia di metri dall’archivio Lukàcs, Janos Kelemen, filosofo e linguista, professore emerito dell’Università di Budapest, già direttore dell’Accademia d’Ungheria a Roma dal 1990 al 1995, nonché studioso del pensiero di Lukàcs, per comprendere cosa stia accadendo in questo momento in Ungheria e cosa rimanga del passaggio di Lukàcs nella memoria culturale del popolo magiaro.

* * *

DOMANDA: Janos, o meglio Jimmy, come ti fai chiamare da compagni e amici, in questi giorni si e' avuta la notizia della possibile chiusura dell'archivio Lukàcs a Budapest. Cosa sta succedendo e qual'e' l'importanza scientifica di questo archivio?

RISPOSTA: Circolavano già da anni notizie sulla possibile soppressione dell’Archivio Lukacs.

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sitosophia

A proposito di «post-umano»

di Astro Calisi

AGUILERA TRANSUMANISTUn breve articolo di Stefano Rodotà apparso recentemente sulla rivista Micromega,1 riguardante gli inediti scenari etici e giuridici prospettati dall’applicazione delle nuove tecnologie al corpo umano, offre l’occasione per alcune considerazioni sul concetto di post-umano (o trans-umano).
«Post-umano» è un termine utilizzato per indicare una nuova concezione dell’uomo, secondo la quale la scienza e le sue applicazioni tecnologiche ci mettono, per la prima volta nella storia, nella condizione di superare i nostri limiti biologici, compresi quelli che riguardano le capacità cognitive. La possibilità di integrare e potenziare l’intelligenza umana che – secondo alcuni – sarebbe offerta dalle nuove tecnologie informatiche e, più in generale, dalla cosiddetta intelligenza artificiale, rappresenta indubbiamente uno degli aspetti più rivoluzionari del progresso scientifico. Nelle teorizzazioni più spinte si arriva addirittura a prevedere una “ibridazione” stabile tra esseri umani e sistemi artificiali, tesa a realizzare dei cyborg, dove le capacità motorie, le capacità percettive e la stessa intelligenza vengono accresciute a dismisura. Si arriverebbe così a superare i limiti imposti all’uomo dalla sua natura biologica, proiettandoci verso traguardi che fino a poco tempo fa sembravano essere riservati alla narrazione fantascientifica, compresa la capacità di collegarsi e interagire in modo istantaneo con altre menti o di raggiungere una sorta di immortalità registrando tutti i ricordi e le attitudini di un individuo su potenti chip di memoria, da innestare su sistemi robotici appositamente costruiti.

Nell’articolo in questione, Rodotà si interroga sui rischi connessi alla creazione di sistemi dotati di un’intelligenza capace non soltanto di dar vita a «nuove simbiosi tra uomo e macchina», ma anche di arrivare un giorno a «sopraffare e sottomettere l’intelligenza umana».2

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il rasoio di occam

Le radici filosofiche dell’arte astratta

di Giacomo Fronzi

I momenti di svolta che hanno segnato lo sviluppo delle arti figurative e della letteratura non possono essere spiegati solo sulla base della loro dinamica storica, come tappe di un’evoluzione più o meno lineare degli eventi. Con il suo ultimo libro, L’anima e il cristallo. Alle origini dell’arte astratta (il Mulino), Stefano Poggi ricostruisce in modo inedito quelle tendenze culturali e filosofiche, in particolare nei contesti di lingua tedesca, che tra Otto e Novecento hanno segnato in modo decisivo la rivoluzione culturale europea dell’inizio del xx secolo, collocando al centro del discorso il rapporto tra creazione artistica ed esperienza mistica, nella varietà delle sue manifestazioni

kan8Nell’ambito degli studi sull’arte d’inizio Novecento, tanto sul versante strettamente storico quanto su quello estetologico o filosofico, la produzione è notoriamente vasta. Ciononostante, il libro di Stefano Poggi, che sempre ha percorso itinerari di ricerca inediti e accattivanti, stupisce per l’originalità e la profondità con cui affronta il tema delle radici mistiche e filosofiche dell’arte astratta. Nei sei capitoli in cui è organizzato il saggio, viene proposta una lettura che apre scenari interpretativi innovativi, orizzonti ermeneutici realmente inattesi, destinati senza dubbio a gettare sulla genesi dell’arte astratta (o, quanto meno, di alcune delle sue tendenze principali) una luce nuova e inaspettata.

Muovendo da una consuetudine di molti anni di studi sulla cultura tedesca otto-novecentesca, Poggi ha affrontato in modo inconsueto alcune questioni centrali nel dibattito culturale e artistico della Germania del primo ventennio del XX secolo, a partire dalla sottolineatura di come vi fosse in quel periodo una «fervida elaborazione filosofica» che, dopo aver concentrato l’attenzione sul significato e la direzione della storia, è andata caratterizzandosi per un atteggiamento sempre più «critico nei confronti dell’impianto teorico e conoscitivo dell’indagine scientifica» (pp. 7-8).

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paroleecose

L’ordine del discorso filosofico: Bourdieu, Derrida, Foucault

di Pierpaolo  Cesaroni

[Questo saggio fa parte del volume collettivo Politiche della filosofia. Istituzioni, soggetti, discorsi, pratiche, curato da Pierpaolo Cesaroni e Sandro Chignola, e appena uscito per DeriveApprodi]

FlowerCosa significa considerare la filosofia nella sua dimensione di discorso, nel senso determinato che Michel Foucault attribuisce al termine? Affrontare questo tema non consente solamente di chiarire il senso del lavoro filosofico svolto da Foucault, ma anche di affrontare più generalmente cosa possa significare oggi fare filosofia e come continuare a farla. Il testo più utile a questo fine è la risposta che Foucault indirizzò al saggio di Jacques Derrida Cogito e storia della follia contenuto in La scrittura e la differenza (1967). La risposta di Foucault ha due versioni, entrambe scritte nel 1972: quella più nota fu pubblicata in appendice della seconda edizione di Storia della follia, con il titolo Il mio corpo, questo foglio, questo fuoco; una seconda versione, che verosimilmente è stata scritta per prima, fu invece pubblicata, nello stesso anno, nella rivista giapponese Paideia con il titolo Risposta a Derrida[1]; la rilevanza di questo testo consiste nel fatto che si apre con alcune pagine estremamente interessanti eliminate nella redazione successiva.

Per capire cosa significhi concepire la filosofia come discorso e perché ciò consenta di porre in modo nuovo la domanda sul suo statuto, è necessario chiarire preliminarmente rispetto a cosa si misuri questa novità. Per fare questo mi riferirò, in modo alquanto schematico, a due altri pensatori: da un lato Jacques Derrida, obbiettivo polemico principale di Foucault; dall’altro lato Pierre Bourdieu, il quale condivide con Foucault sia un atteggiamento critico nei confronti della filosofia sia l’individuazione di Derrida quale esponente paradigmatico di quest’ultima; i due tuttavia seguono delle strade diverse.

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gyorgylukacs

La responsabilità sociale del filosofo*

di György Lukács

lukacsDevo scusarmi subito in apertura se arriverò a rispondere alla questione solo dopo lunghi giri. Primo, [perché] mi sembra che la questione in sé non sia stata finora sufficientemente chiarita. Secondo, e più importante, perché scorgo nella situazione attuale problemi del tutto particolari, che rinviano oltre una specificazione normale della questione generale e la cui analisi soltanto consente teoricamente una risposta concreta.

I nostri ragionamenti devono dunque culminare nelle due questioni seguenti, fra di loro strettamente connesse: esiste una responsabilità specifica del filosofo, che va oltre la responsabilità normale di ogni uomo per la propria vita, per quella dei suoi simili, per la società in cui vive e il suo futuro? E inoltre: tale responsabilità nella nostra epoca ha acquistato una forma particolare? Per la teoria dell’etica, entrambe le questioni implicano il problema se la responsabilità contenga un momento storico-sociale costitutivo. È un interrogativo che va posto subito all’inizio, giacché proprio l’etica moderna, specialmente quella che si è sviluppata sotto l’influenza di Schopenhauer prima e di Kierkegaard poi, pone l’accento sul fatto che il comportamento etico dell’individuo «gettato» nella vita mira proprio a tenersi lontano da tutto ciò che è storico-sociale per pervenire all’essere ontologico, in contrapposizione netta a tutto l’essente. È ovviamente impossibile trattare qui, sia pure per grandi linee, tutto questo complesso di problemi. Possiamo occuparci solo di quegli aspetti che riguardano oggettivamente il nostro problema.

 

1. Nell’etica, così come si è configurata sinora, possiamo osservare – grosso modo** – due correnti decisive. La prima considera rilevante esclusivamente l’atto in sé della decisione etica, del comportamento.

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scenari

Vita quotidiana. Tra Freud e Heidegger

Enrica Lisciani-Petrini

Sigmund Freuds daughter Anna 1920.1 e1456402393657 1160x4801. Se c’è un aspetto sul quale val la pena di focalizzare l’attenzione – se si guarda, anche con uno sguardo di sorvolo, al quadrante storico che va da Baudelaire fino ai giorni nostri – è la pervasiva e crescente irruzione della vita quotidiana a tutti i livelli. Dall’arte (cinema, fotografia, letteratura, pittura, come anche nella musica) fino agli altri ambiti della realtà, emerge – con l’avvento soprattutto della vita metropolitana – una visione delle cose che si separa dalle forme spirituali, perfette, armoniose, dalle figure eroiche del passato, per lasciare il posto alle forme informi della vita anonima e brulicante, refrattaria ad ogni qualifica, del quotidiano. Sì che alla figura dell’eroe (ovvero dell’eroina) subentra quella dell’uomo qualunque, del “chiunque” anonimo, insomma dell’«uomo senza qualità» per dirla con la celeberrima espressione di Musil. Il che smantella quella nozione di soggetto che trova nel personaggio dell’eroe, effigiato in una luminosa aureola identitaria, quale soggetto incomparabile, individualmente unico e insostituibile, il suo emblema principe. Non a caso, del resto, il processo di progressiva, per dir così, “quotidianizzazione” del reale va di pari passo proprio con quella radicale dissoluzione della categoria di soggetto che ha attraversato, come ben si sa, l’intero Novecento.

Solo che – ecco il punto che in questa sede vorrei sviluppare – l’irruzione della vita quotidiana conferisce a quella dissoluzione una connotazione molto significativa.

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pandora

Foucault contro il Leviatano

“La grande soif de l’Etat” di Arnaut Skornicki

Paolo Missiroli

michel foucault by ivankorsario d5qvsbtScrivere un libro sullo Stato e su Foucault può apparire o impresa impossibile o banale ripetizione. Impresa impossibile in quanto Foucault è notoriamente il teorico del potere inteso come relazione e non come cosa che si possiede e che sta in un luogo od in un altro e, per questo, un grande critico dello statocentrismo, cioè di ogni analisi (Hobbes) che consideri il potere risiedere nelle mani dello Stato, cioè del detentore della violenza fisica in ultima istanza. Banale ripetizione perché in effetti Foucault dello Stato ha parlato parecchio, sopratutto nei corsi tenuti al College de France dal 1975 al 1980. In quegli anni ha elaborato le assai conosciute e spesso abusate, sopratutto in Italia, categorie di biopolitica e governamentalità, ed ha approfondito e studiato la storia del liberalismo e del neoliberalismo, tutti concetti evidentemente legati a quello di Stato. Ognuno di questi termini è stato soggetto di saggi ed articoli a non finire e l’ennesimo libro sulla governamentalità nel pensiero di Foucault, o sulla concezione neo ed ordo liberale dello Stato, non desterebbe alcun interesse.

L’ultimo libro di Arnault Skornicki, La grande soif de l’État (La grande sete dello Stato), per Les praires ordinaires, non risulta né assurdo né banale. Questo è dato, credo, da una duplice motivazione: in primo luogo l’approccio dell’autore, che è essenzialmente comparativo (non a caso il sottotitolo è Michel Foucault avec les sciences sociales), che gli consente numerosi excursus tra vari autori come Bordieou, Elias, Weber, Poulantzas ed altri, utili sia per comprendere il pensiero di Foucault sui vari punti, sia per allargare il respiro del testo, rendendolo così un libro non tanto su Foucault ma sullo Stato.

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tysm

Marx e l’alchimia

Carlo Amore intervista Luciano Parinetto

Tom BurnsCon Faust e Marx. Metafore alchemiche e critica dell’economia politica. Satura inconclusiva non scientifica (Luciano Pellicani editore 1989; nuova edizione: Mimesis, Milano 2004), Luciano Parinetto tende a effettuare una doppia operazione: da una parte una rivisitazione della lunga tradizione del sapere alchemico che rompe sia con generici “esoterismi”, sia con il pregiudizio storicista che riconosce nell’alchimia il ruolo di “mezzana” tra la chimica come scienza normale e i saperi premoderni; dall’altro, una lettura coerente di modelli e metafore di chiara impronta alchemica nell’opera marxiana.

* * *

Come si motiva questo tipo di impostazione del tuo libro?

È ben noto che chi sia completamente inserito in una totalità (e soprattutto in una totalità alienata, come è il caso di quella che va sotto il nome di capitale) è ben difficile che trovi il punto archimedeo sul quale far leva per poter iniziare a considerarla criticamente, proprio perché ogni posizione assunta rischia di risultare interna e coerente a quella totalità. Nel caso dei mio ultimo libro, l’alchimia rappresenta dunque un possibile punto archimedeo, trattandosi appunto di una visuale talmente remota dal capitale che, non solo esso la disconosce in quanto sapere, ma le oppone polemicamente le proprie scienze, ancorate al quantitativo, castrate dell’immaginario.

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pierluigifagan

Una nuova età assiale?

Storia e complessità

di Pierluigi Fagan

origine e senso 54512afd42938Nel 1949, il filosofo e psichiatra tedesco Karl Jaspers, pubblicava “Origine e senso della storia”, oggi riproposto dopo lunga assenza da Mimesis edizioni (2014, 28 euro). In esso vi era contenuto una osservazione divenuta poi patrimonio della riflessione dell’uomo sulla sua propria storia. La constatazione che tra l’800 ed il 200 a.e.v., si è registrata una sincronia di pensieri e di pensanti che fonda tutto quanto si è poi successivamente espresso nella formazione delle principali civiltà. Confucio, Laozi, Buddha ma anche la composizione delle Upaniṣad, Zarathustra, la composizione dell’Antico testamento, i Greci, filosofi, scienziati, storici, drammaturghi, politici ma anche mitografi come Esiodo ed Omero. Jaspers individuò questo periodo come una svolta, un tornante che s’inerpica intorno ad un asse, da cui l’uso del termine “assiale”.

Jaspers in base alle visioni e conoscenze dell’epoca, supponeva non vi fosse stata interrelazione di fatti sottostanti, queste espressioni culturali erano più o meno sincroniche nel tempo ma non furono dovute ad un contagio umano negli spazi dell’Eurasia. Quest’ultima assunzione, oggi che con l’ultima globalizzazione vediamo all’opera la più recente e potente espressione di quel fenomeno ricorsivo che è la tendenza del genere umano ad interconnettersi formando una più o meno fitta, unica, rete fatta di reti, è discussa. Un’intero comparto del’evoluzione dello sguardo storico, si sta muovendo da qualche decennio, ad assumere il mondo intero come oggetto di narrazione e riflessione, la World history. Questo tipo di storia che ha in oggetto il mondo, predilige la lettura proprio della relazioni, che si suppongono esser state vaste e profonde, sin dai tempi più antichi.

Uno dei suoi founding father è lo storico canadese, quasi centenario ma vivente, William H. McNeill che è quasi impubblicato in Italia.

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carmilla

Riprendiamoci il lato oscuro della forza

di Fabio Ciabatti

Ernst Bloch, Eredità di questo tempo, traduzione e cura di Laura Boella, Mimesis, 2015, pp. 482, € 32,00.

imperdonabili boella kosik dorso18 5In un’epoca dominata rassegnazione e passioni tristi può essere di grande utilità recuperare il pensiero di Ernest Bloch, un autore che rivendica al marxismo la forza dell’utopia concreta, della speranza e della fantasia, anche nelle loro dimensioni apparentemente anacronistiche, oscure e irrazionali. Tra il serio e il faceto potremmo dire che Bloch, preso atto della potenza del lato oscuro della forza, ci esorta a sottrarre il suo potere al nemico, convinto che si possano diradare le tenebre solo percorrendo fino in fondo il sentiero oscuro senza rimanerne dominati e consumati, checché ne pensino il maestro Joda e tutti gli altri cavalieri Jedi.

Non può che fare piacere, dunque, la ripubblicazione di Eredità di questo tempo, libro dato alle stampe a Zurigo nel 1935, ora disponibile per il pubblico italiano con una nuova introduzione e una nuova traduzione a cura di Laura Boella, traduttrice e curatrice anche della prima edizione italiana del 1992 (uscita con il titolo Eredità del nostro tempo).

In questa recensione ci concentreremo soprattutto sul concetto di non contemporaneità che Bloch utilizza per analizzare il nazismo, ma che può essere utilmente impiegato per comprendere alcuni fenomeni contemporanei come il fondamentalismo e i movimenti sociali sudamericani. Non sorprenda il riferimento a due fenomeni dalle valenze politiche opposte: secondo Bloch, infatti, la capacità o meno di occupare il territorio della non contemporaneità può dare luogo a esiti politici completamente differenti.

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blackblog

Narcisismo e feticismo della merce

Qualche osservazione a partire da Cartesio, Kant e Marx

di Anselm Jappe

kant5Feticismo della merce e narcisismo: è intorno a questi due concetti, ed alle loro conseguenze, che si articola questo testo. Il suo retroterra teorico è dato dalla critica del valore, del lavoro astratto, del denaro e del feticismo della merce, così come è stata sviluppata soprattutto da Robert Kurz e dalle riviste Krisis ed Exit!, in Germania, e da Moishe Postone, negli Stati Uniti, dopo la fine degli anni 1980.

Feticismo della merce, è un concetto introdotto da Karl Marx nel primo capitolo del Capitale. Lo si è spesso voluto intendere come una forma di falsa coscienza, o di una semplice mistificazione. Tuttavia, un'analisi più approfondita [*1] dimostra che si tratta di una forma di esistenza sociale totale che si situa a monte di ogni separazione fra riproduzione materiale e fattori mentali: essa determina le forme stesse del pensiero e dell'agire. Il feticismo della merce condivide questi tratti con altre forme di feticismo, come la coscienza religiosa. Potrebbe così essere caratterizzato come una forma a priori.

Il concetto di forma a priori evoca evidentemente la filosofia di Immanuel Kant. Tuttavia, lo schema formale che precede ogni esperienza concreta e che a sua volta la modella, che è qui in questione, non è affatto ontologico, come lo è in Kant, ma storico e soggetto ad evoluzione.

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dinamopress

Modus vivendi

di Marina Montanelli e Francesco Raparelli

Materialismo e ontologia dell'attualità in L'idea di mondo. Intelletto pubblico e uso della vita di Paolo Virno

index110. L'idea di mondo. Intelletto pubblico e uso della vita (ed. Quodlibet) di Paolo Virno è un volume composito, si raccolgono testi vecchi e nuovi. Più nel dettaglio: tre saggi brevi, due filosofici e un “classico” della teoria politica contemporanea. Il primo saggio, Mondanità (1993), ha i tratti del laboratorio, fanno la loro comparsa nozioni chiave della ricerca materialista che l'autore non ha mai abbandonato. Il secondo, Virtuosismo e rivoluzione (1993), è un piccolo grande capolavoro, che ha consegnato a militanti politici giovani e meno giovani «le parole per dirlo», la bussola per navigare «dentro e contro» la scena del postfordismo o di ciò che, più recentemente, abbiamo definito capitalismo neoliberale. Concetti come moltitudine, esodo, intemperanza, diritto di resistenza “tornano alla luce” per ripensare radicalmente l'azione politica, quando la produzione fa del linguaggio, degli affetti, in generale della vita della mente, le sue risorse decisive. L'uso della vita (2014), presentato per la prima volta nel seminario della Libera Università Metropolitana proprio alla nozione di 'uso' dedicato, è un saggio di forza e bellezza rare. Si sancisce un nuovo inizio, si delinea una ricerca a venire.

Vista la ricchezza dei temi, ci risulta difficile, se non impossibile, la ricostruzione dettagliata dei tre saggi. E forse non è ciò che serve. Proveremo a soffermarci, quasi interrogando l'autore, su alcuni elementi comuni e, più in generale, sul gesto filosofico che Paolo Virno non smette di proporre. La mossa teorico-politica, condensata in Virtuosismo e rivoluzione, sarà semplicemente indicata, avendo quest'ultima già informato, per diversi anni, la ricerca e la prassi dei movimenti sociali radicali.

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il rasoio di occam

Teoria della “crisi”. Un’analisi filosofica

di Elio Franzini

In un tempo in cui la parola “crisi” è tra le più presenti nel nostro vocabolario quotidiano, era necessario che la riflessione filosofica contemporanea più avvertita ne affrontasse i caratteri di fondo. Elio Franzini, nel volume “Filosofia della crisi”, propone una rigorosa analisi sulle linee di sviluppo del concetto di “crisi”, nel suo rapporto con la verità e con alcune articolazioni del pensiero, restituendogli un senso più profondo. Proponiamo ai nostri lettori la Premessa del libro, pubblicato da Guerini, ringraziando l’editore per la gentile concessione

iStock Disperazione Spiritualità Religioni e filosofie Inseguimento CristianesimoDifficile ignorare, in avvio, che questo libro appare, pur se concepito con altro scopo, in un momento in cui abbondano le riflessioni dei filosofi su se stessi e, di conseguenza, sulla filosofia. È questo il segno di una crisi, che periodicamente si rinnova, e che assale quando a una funzione «tradizionale», che si svolge in prevalenza nelle università e nell’editoria specialistica, se ne affianca un’altra, che cerca la sua visibilità sulle pagine culturali dei giornali, nell’universo sempre più ampio dei «media». Non è una tendenza nuova dal momento che ne parlava anche Leopardi, criticando la filosofia dei gazzettieri: ma si è ingigantita negli ultimi cinquant’anni sino a creare quasi una dicotomia sociale, tra ciò che è chiuso in un ambiente ristretto e ciò che, invece, affronta la vita, con differenze di linguaggio che non possono non incidere sulla tradizione e sulla storia.

Tutto ciò che segnala una crisi del proprio orizzonte di ricerca non può essere ignorato: ma, tuttavia, neppure enfatizzato, dal momento che solo di enfasi vive. Incarna, molto semplicemente, un’esigenza sempre più forte di divulgazione, che a volte sfiora la banalizzazione, l’eccitazione per il «nuovo», sia esso un paradigma, un «ismo», un metodo, un nesso con altre discipline, un prefisso, un suffisso e via dicendo. Un’esigenza generata certo dalla diffusione della comunicazione e dei mezzi di trasmissione del sapere, ma che, tuttavia, non muta i termini generali in cui si muove la disciplina.