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dialetticaefilosofia

Il sistema conteso

L'eredità hegeliana tra Gramsci e Gentile

di Emiliano Alessandroni

1962742 10203680046471895 7900473078890958785 nNelle pagine dei Quaderni del carcere Gramsci afferma in più di un'occasione come la filosofia di Croce e Gentile – indipendentemente da quanto essi stessi ne dicano – lungi dal costituire l'erede della filosofia hegeliana, esprime un ripiegamento sull'unilateralità idealistica che espunge la dimensione più viva e concreta del filosofo tedesco, per dare luogo ad una sorta di «hegelismo addomesticato»1, ovvero ad una revisione conservatrice di Hegel:

È da vedere se il movimento da Hegel a Croce-Gentile non sia stato un passo indietro, una riforma «reazionaria». Non hanno essi reso più astratto Hegel? Non ne hanno tagliato via la parte più realistica, più storicistica?...Tra Croce-Gentile ed Hegel si è formato un anello tradizione Vico-Spaventa-(Gioberti). Ma ciò non significò un passo indietro rispetto ad Hegel2?

Scongiurando un tale arretramento, una tale controriforma reazionaria, Gramsci indica nel marxismo, ovvero nella filosofia della praxis, l'autentica eredità dell'hegelismo, scagliandosi con veemenza contro tutte le generalizzazioni indebite suscettibili di soffocare in categorie astratte e formali le specificità e le scissioni concrete – come avviene di norma nel neoidealismo, e segnatamente in Gentile:

Hegel rappresenta, nella storia del pensiero filosofico, una parte a sé, poiché, nel suo sistema, in un modo o nell’altro pur nella forma di «romanzo filosofico», si riesce a comprendere cos’è la realtà, cioè si ha, in un solo sistema e in un solo filosofo, quella coscienza delle contraddizioni che prima risultava dall’insieme dei sistemi, dall’insieme dei filosofi, in polemica tra loro, in contraddizione tra loro.

In un certo senso, pertanto, la filosofia della prassi è una riforma e uno sviluppo dello hegelismo, è una filosofia liberata (o che cerca liberarsi) da ogni elemento ideologico unilaterale e fanatico, è la coscienza piena delle contraddizioni, in cui lo stesso filosofo, inteso individualmente o inteso come intero gruppo sociale, non solo comprende le contraddizioni ma pone se stesso come elemento della contraddizione, eleva questo elemento a principio di conoscenza e quindi di azione3.

La battaglia filosofica per l'eredità di Hegel costituisce un momento della lotta tra progresso e reazione che si sviluppa nel campo della cultura. Osserviamone le caratteristiche fondamentali.

 

1. L'idealismo gentiliano come solipsismo trascendentale

L'idealismo di Gentile può essere letto come una radicalizzazione del soggettivismo fichtiano portato ai limiti del solipsismo, corrente contro cui poi, per fugare ogni equivoco, egli si vede costretto a prendere posizione apertis verbis, distinguendo la soggettività empirica da quella trascendentale. L'errore in cui cade l'attualista risulta il medesimo che Hegel imputava a Fichte: l'aver posto, a base del proprio sistema, il cominciamento nell'Io. La sua filosofia si configura come un assolutismo monistico del soggetto e del pensiero, ovvero del pensiero come soggetto e del soggetto come pensiero. Il suo sistema si risolve dunque, in ultima istanza, in un coscienzialismo: per il filosofo dell'atto puro «nulla trascende il pensiero»4, dacché l'intero movimento del reale risulterebbe tutto interno alla coscienza dell'Io, la quale non può trarre nutrimento fuori di sé ma soltanto porre, in quanto primum ontologico, un qualcosa che di fatto sarebbe pur sempre lei stessa:

L'atto dell'Io è coscienza in quanto autocoscienza: l'oggetto dell'Io è l'Io stesso. Ogni processo conoscitivo è atto di autocoscienza. La quale non è astratta identità e immobilità, anzi atto concreto. Se fosse un che d'inerte avrebbe bisogno d'altro per muoversi. Ma ciò annienterebbe la sua libertà. Il movimento suo non è un posterius rispetto al suo essere: coincide coll'essere. L'autocoscienza è lo stesso movimento o processo5.

Contro questa risoluzione dell'intera realtà nell'Io trascendentale aveva polemizzato Hegel, che riscontrava nel soggettivismo fichtiano un idealismo unilaterale e astratto nel quale risultavano mortificate tutta la vitalità e la potenza dell'Oggetto:

In quanto qui l'io fa dell'oggetto una sua rappresentazione e lo nega, questa filosofia è idealismo, e in essa tutte le determinazioni dell'oggetto medesimo sono ideali. Tutto quel che l'io ha di determinato lo ha in virtù del mio porre: persino un abito o una scarpa, io li faccio per ciò che me li metto. Rimane indietro soltanto il vacuo urto: ed è questo la cosa in se di Kant, la quale neppure Fichte riesce a superare, sebbene la ragione teoretica continui all'infinito il suo determinare6.

Secondo Hegel, «la Logica coincide con la metafisica, cioè con la scienza delle cose colte in pensieri», la natura dei quali vale ad «esprimere gli aspetti essenziali delle cose»7. In quanto esprimente tali aspetti essenziali delle cose, il pensiero risulta quindi subordinato all'essenzialità delle cose, la quale costituisce il Täter reale, di cui il pensiero e la coscienza costituiscono il risultato.

Vi è dunque in Hegel un primato ontologico dell'Essere sulla Coscienza, che viene meno in Gentile. A quest'ultimo l'anticoscienzialismo hegeliano doveva apparire come un'infausta presenza di materialismo8, inaccettabile di fronte allo scioglimento, compiuto dal proprio sistema, dell'intero atto in pensiero, nel campo di dominio del quale rientravano la materia e la natura stessa:

L'atto, se non deve convertirsi in un fatto, se deve cogliersi nella sua natura attuale, di puro atto, non può essere che pensiero. Il fatto è la negazione del pensiero, onde lo stesso pensiero si crea il suo altro, la natura9.

Ma per Hegel la subordinazione della materia al pensiero costituisce una forma di idealismo unilaterale e astratto nonché un ripiegamento forzato dell'intera realtà sul soggetto, come risulta dalla sua polemica contro l’idealismo fichtiano: invero, egli spiega, «una esistenza come la materia sensibile non é certo un oggetto della logica», come non sono un oggetto della logica «lo spazio e le determinazioni spaziali»10. La materia risulta per Hegel fornita di una propria sussistenza indipendente dal pensiero: non un corpo inerte spinto da forze estrinseche, bensì sostanza solida e compatta dotata di una propria intrinsecità (esistenziale e motoria)11. Vediamo dunque che non soltanto per Marx, ma anche già per l'autore della Fenomenologia il movimento non si disgiunge dalla materia, così come l'attività dal sensibile. Comprendiamo allora il giudizio di Gramsci secondo cui «Hegel, a cavallo della Rivoluzione francese e della Restaurazione, ha dialettizzato i due momenti della vita del pensiero, materialismo e spiritualismo»12 trasmettendo tale eredità al materialismo storico, alla «filosofia della praxis», autentica «traduzione dell'hegelismo in linguaggio storicistico»13.

La teoresi gentiliana, al contrario, ha costituito forse il più coerente tentativo di strappare l'unità del reale che Hegel e Marx avevano composto e di spingere l'unilateralità idealistica fino ai suoi confini più lontani, fino alle sue più estreme conseguenze, al punto da fare del pensiero l'Assoluto, l'istanza onnipervasiva della realtà, o meglio l'unica realtà esistente. Come che sia, la lettura attualistica di Hegel oscilla tra una denuncia, degli elementi realisti e materialistici presenti nel sistema del filosofo tedesco – inaccettabile risulta ad esempio per Gentile l'intera Filosofia della Natura – e una curvatura in senso tanto più antistoricista e astratto del suo filosofare.

Gentile deplora che in Hegel la verità «non [venga] concepita come identica al pensiero» ma «soprannuotante ad esso»14, e che «nella configurazione del sistema hegeliano sopravviv[a] un'eco del naturalismo schellinghiano», per ciò che «Schelling trovava la natura dietro le spalle dello spirito»15. In effetti secondo Hegel il pensiero non costituisce una dimensione onnipervasiva: esso non coincide con la Verità, ma rappresenta, tutt'al più, il luogo in cui questa, antestante al pensiero in maniera latente, si illumina e si rivela; così l'uno deve adeguarsi all'altra per attingere valore. In questo senso, la Verità non è certo identica al pensiero, ma neppure gli è estranea; essa non nuota sopra di lui, ma lo avvolge e lo ingloba.

Deprecando dunque questi aspetti, Gentile tenta di valorizzare un sistema hegeliano depurato dalla loro presenza. Un sistema quindi che affermando «la supremazia dello spirito sulla natura» affermerebbe la superiorità «del soggetto sull'oggetto». Ovvero, secondo Gentile, se «Fichte riduceva l'oggetto al soggetto» e «Schelling ammetteva l'eguaglianza tra i due opposti principii dell'unità», allora «Hegel vede la supremazia del soggetto»16. Inutili i chiarimenti della Fenomenologia, per cui, quella separazione che appare

come disuguaglianza dell'Io e dell'oggetto, [nondimeno] è altrettanto disuguaglianza della sostanza con se stessa. Ciò che sembra accadere fuori di essa, ed essere persino un'attività diretta contro di essa, è infatti il suo proprio agire, ed è in tal modo che la sostanza mostra di essere essenzialmente soggetto17.

Gentile resta convinto di questa superiorità del soggetto in Hegel, anche quando l'intero sistema del filosofo tedesco risulta fondato su un superamento della separazione tra soggetto e oggetto, a partire da una priorità ontologica dell'Oggetto, ovvero dell'ambiente, sul soggetto. Contro tale interpretazione marcatamente idealistica, Gramsci ribadisce che se non è possibile separare «il pensare dall’essere» così non è possibile separare «l’uomo dalla natura, l’attività (storia) dalla materia, il soggetto dall’oggetto», senza cadere «nell'astrazione senza senso»18. È in questa astrazione che sembra invece precipitare l'idealismo di Gentile: incapace com'è di conservare l'equilibrio dei termini, esso presuppone una creatio ex-nihilo della coscienza, suscettibile di aprire il varco ad una nuova forma di solipsismo che potrebbe assumere il nome di solipsismo trascendentale: «cosa significa “creativo”?», domanda Gramsci, «significherà che il mondo esterno è creato dal pensiero? Ma da qual pensiero e di chi? Si può cadere nel solipsismo e infatti ogni forma di idealismo cade nel solipsismo necessariamente»19. Non v'è alcun dubbio: per l'intellettuale sardo «il “solipsismo” documenta l’intima debolezza della concezione soggettiva-speculativa della realtà»20.

 

2. La partenogenesi filosofica

Il modo di leggere Hegel, tanto in Gentile quanto in Gramsci, si ripercuote inevitabilmente sul modo con cui guardare e concepire la filosofia stessa. Anche in questo caso le due prospettive viaggiano in direzioni opposte.

Nel Sistema di logica come teoria del conoscere, vediamo Gentile presentare la «filosofia» come qualcosa «il cui sviluppo è il suo stesso atto». Nella misura in cui per il filosofo attualista nulla fuoriesce dal pensiero, il cammino della filosofia, e quindi del pensiero pensante, costituirebbe un processo che si sviluppa per partenogenesi. Come il pensare non lascia alcun avanzo prima o fuori di sé, così per Gentile, «nulla trascende la filosofia»21, ovvero «la filosofia non ha oggetto a cui sia da commisurarsi: il suo oggetto è lei stessa, quella filosofia che la filosofia costruisce». E su questa scia si muoverebbe anche Hegel, nel cui sistema l'idea avrebbe un carattere onnipervasivo, essendo essa «logo, natura, spirito» e la «filosofia» come «scienza dell'idea» sarebbe in sostanza scienza di se stessa. Lo sviluppo hegeliano dell'idea «in sé, fuori di sé e per sé», secondo Gentile, mostra affinità con la propria teoria dell'«auto-concetto», di un concetto dunque che si auto-produce senza alcun contatto con l'alterità, la quale sarebbe pur sempre una sostanza concettuale, giacché «per determinare l'oggetto del pensiero in generale», spiega il filosofo attualista, «non si può far altro che pensarlo». Tutto ciò non può che condurci a «concepire la filosofia come filosofia della filosofia»22. In sostanza, essendo il cominciamento per Gentile dentro l'Io stesso e la sua legge il principio di identità, ed essendo l'Io essenzialmente pensiero, logica, il cominciamento rientrerebbe tutto dentro il pensiero stesso e, dacché nulla gli sfugge, così nulla fuoriesce dalla filosofia.

Ma questo modo di procedere risulta lo stesso che Hegel aveva rimproverato a Spinoza. Così si esprime nello scritto del 1801 dedicato alla Differenza fra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling:

Nessun cominciamento di una filosofia può avere un aspetto peggiore del cominciamento con una definizione, come presso lo Spinoza, cominciamento che fa il più strano contrasto con il fondare, con il dedurre, i principi del sapere, con il faticoso ricondurre ogni filosofia ai supremi dati della coscienza23.

Si tratta a ben vedere, per Hegel, di una «ingenuità» quella «per cui lo Spinoza fa cominciare la filosofia con la filosofia»24.

In perfetta antitesi, dunque, rispetto alla torsione neoidealistica che presuppone uno sviluppo autogenetico dell'Idea, «Hegel scopre il rapporto dei sistemi con il loro tempo», ovvero la dipendenza dei sistemi dal mondo entro cui essi sorgono: «nelle sue pagine di Berna, di Francoforte, egli ha già individuato nell'uomo di Kant l'uomo del proprio tempo, nei dualismi kantiani i dualismi e le contraddizioni del tempo...egli, cioè, sa già che la filosofia non fa storia con se stessa, ma con la realtà»25.

Su questa linea hegeliana contrapposta al solipsismo trascendentale gentiliano si colloca anche Gramsci, il quale, nei Quaderni, contro l'autoctisi del mondo dello spirito e del pensiero teorizzata dal neoidealismo, si appresta a chiarire che

la letteratura non genera letteratura ecc., cioè le ideologie non creano ideologie, le superstrutture non generano superstrutture altro che come eredità di inerzia e di passività: esse sono generate, non per «partenogenesi» ma per l’intervento dell’elemento “maschile” – la storia – l’attività rivoluzionaria che crea il “nuovo uomo”, cioè nuovi rapporti sociali26.

Diversamente da Gentile dunque, per Gramsci e per la filosofia della praxis «deve sempre vigere il principio che le idee non nascono da altre idee, che le filosofie non sono partorite da altre filosofie, ma che esse sono espressione sempre rinnovata dello sviluppo storico reale»27. E contro tutti i tentativi, caratteristici dell'attualismo, di ridurre l'intera filosofia a logica, i Quaderni affermano che

«ogni verità, pur essendo universale, e pur potendo essere espressa con una formula astratta, di tipo matematico (per la tribù dei teorici), deve la sua efficacia all’essere espressa nei linguaggi delle situazioni concrete particolari: se non è esprimibile in lingue particolari è un’astrazione bizantina e scolastica, buona per i trastulli dei rimasticatori di frasi»28.

Si tenga presente che la filosofia rimasticatrice di frasi per eccellenza, risulta, ad avviso di Gramsci, proprio l'attualismo, forma erudita di un «gladiatorismo gaglioffo che si autoproclama azione e modifica solo il vocabolario, non le cose, il gesto esterno non l’uomo interiore»: costrutto intellettivo suscettibile di creare «dei fantocci perfezionati, secondo un figurino prefissato, che cadranno nel nulla appena tagliati i fili che danno loro l’apparenza del moto e della vita»29.

Nel criticare «i banali sofismi dell'idealismo attuale»30, Gramsci si scaglia con particolare ardore, lungo tutto il corpus dei Quaderni, contro «una filosofia ultra speculativa come quella attualistica»31, giacché, egli afferma, «la filosofia gentiliana è oggi quella che fa più quistioni di “parole”, di “terminologia”, di “gergo”, che dà per “creazioni” nuove quelle che sono espressioni verbali nuove non sempre molto felici e adeguate»32.

Siamo dunque al cospetto di un nuovo «secentismo filosofico»33, che nella pretesa di fondare una nuova dialettica e una logica superiore a quelle del passato, giunge a rinnovare, nella migliore delle ipotesi, soltanto il linguaggio, restando di gran lunga inferiore ad esse sul piano dei contenuti.

Gentile e gli attualisti vengono d'altronde paragonati da Gramsci, non a Hegel o alle grandi figure della filosofia classica tedesca, bensì a Bruno Bauer, già bersaglio critico di Marx ed Engels ne La sacra famiglia:

perché la dialettica «formale» dovrebbe essere superiore alla logica «formale»? Non si tratta che di strumenti logici e un buon vecchio arnese può essere superiore a uno scadente arnese più moderno; un buon veliero è superiore a una sconquassata motonave [...]

Gentile col suo seguito di Volpicelli, Spirito, ecc....si può dire che ha instaurato un vero e proprio “secentismo” letterario, poiché nella filosofia le arguzie e le frasi fatte sostituiscono il pensiero. Tuttavia il paragone di questo gruppo a quello dei Bauer satireggiato nella Sacra Famiglia è il più calzante e letterariamente più fecondo di svolgimenti34.

 

3. Lo Stato e l'individuo

Abbiamo visto che per Gentile «l'essere è lo stesso pensare», ovvero «intendere è produrre e la categoria per cui s'intende, non può essere altro che il principio produttivo»35. Si tratta di un «atto autocreatore del pensiero» così che a nessun Oggetto è data una autonomia fuori dalla cerchia della coscienza soggettiva, in quanto infatti «il non-Io, ciò che l'Io, sempre che pensi, trova innanzi a se stesso, non è altro che il pensiero in cui esso si realizza: cioè appunto la realtà che egli crea pensando»36, o in altri termini l'«identità autogenita dell'Io»37. Comprendiamo a questo punto come per Gentile «la società», sorta a suo avviso «con l'immanente soppressione dell'elemento particolare», si svolga tutta non «inter homines, ma in interiore homine», poggiata com'è interamente su quella dimensione spirituale che, unificando le interiorità particolari degli individui, avrebbe «un solo interesse, in continuo incremento e svolgimento: il patrimonio dell'umanità»38. Essendo ciò che diviene, per Gentile, soltanto il pensiero, non già il corpo, la fisicità, la materialità dell'esistenza (istanze eteronome, prodotti dell'attività creativa del pensiero e muoventesi entro esso), l'interiorità spirituale finisce per assolvere una funzione onnipervasiva che sopprime sul nascere quelle spinte volte alla trasformazione esterna, delle cose sensibili, dei rapporti materiali e reali, promosse in campo culturale dall'hegelismo dei fratelli Spaventa o del Labriola. Non soltanto dunque la società, ma il mutamento in quanto tale avviene tutto per Gentile in interiore homine, giacché nel suo sistema «l'altera res fuori dal pensiero attuale non c'è, né attualmente né potenzialmente»39. L'intera prospettiva dell'attualismo si sviluppa riproducendo la frattura di quell'unità del reale cucita da Hegel e restaurando l'unilateralità idealistica: per Gentile infatti, nel momento in cui nulla sconfina dal perimetro del pensiero pensante, dell'interiorità e dello spirito, non si dà passaggio alcuno dalla natura alla coscienza, dal corpo all'anima; non dunque dal fisico al metafisico, dal finito all'infinito, ma al più il contrario, senza che la sostanza, la specificità essenziale del creato possa differenziarsi da quella del creante.

Essendo anche lo Stato, pertanto, in interiore homine, ogni soggettività si identifica con esso, autentica incarnazione dell'Universalità: «l'individuo...anziché essere l'opposto dell'universale, è lo stesso universale»40. Osserviamo quindi il singolo affondare nelle acque di una tale Universalità, e in esse smarrire i propri diritti individuali. Il diritto spetta soltanto allo Stato, comunque si configuri: «lo Stato come volere ha una sua legge universale, un imperativo categorico, che non può essere altro che moralità»41. Lo Stato assume così, in Gentile, le sembianze di un'entità precedente la nascita del diritto. Esso regola ogni cosa, e si pone come un Infinito privo di limiti: «niente privato, dunque, e niente limiti all'azione statale»42. Quando si avverta l'ingiustizia della legge, l'individualità non possiede alcun diritto, né direttamente, né attraverso la costituzione di organismi intermedi, per pretendere dei mutamenti: questi possono intervenire soltanto ad opera e volontà dello Stato stesso (dunque dei reggitori) che si sviluppa per autoctisi. Nessuna ingiustizia, quando commessa dallo Stato, risulta per Gentile effettivamente tale:

in quanto la legge ingiusta è, finché non sia abrogata, volontà di quello Stato che è immanente nel cittadino, la sua ingiustizia non è tutta ingiustizia, anzi può dirsi una giustizia in fieri, la quale a poco a poco maturerà fino all'abrogazione della legge stessa. E il cittadino che vi obbedisce, malgrado l'ingiustizia avvertita, non obbedisce a quella legge, ma ad una legge superiore che è giusta, e di cui quella ingiusta è un particolare che correggere si potrà soltanto se si osservi la prima43.

Nulla resta pertanto all'individuo in quanto individuo e all'uomo in quanto uomo che può esser rivendicato contro la violenza dello Stato. Il diritto statuale nasce per Gentile non già sulla base, ma sull'esclusione del diritto antropologico: «posto il concetto del diritto naturale...il concetto dello Stato, più o meno esplicitamente, è negato»44, «il diritto naturale è infatti il diritto dell'individuo di fronte allo Stato»45. Pertanto, fino a quando «l'individuo non abbia corroso e idealmente annientato la propria particolarità – ed egli in verità l'ha sempre annientata e non l'ha annientata mai – egli non ha trovato se stesso, non è vero individuo»46 e come tale non possiede diritti. Radicalmente diversa, la prospettiva di Hegel, per il quale esistono «beni» e «determinazioni sostanziali» dell'individuo in quanto tale che sono «inalienabili» e «il diritto a tali determinazioni sostanziali è imprescrittibile»47.

Su quest'ultima linea si colloca anche Gramsci: se i Quaderni prendono spesso di mira gli impieghi ideologici e particolaristici del concetto di diritto naturale, tale da lasciar pensare ad un suo completo rifiuto, nondimeno fin dagli scritti giovanili egli rivendica con convinzione le conquiste storiche, compiute dall'umanità, del «diritto alla vita (tu non puoi esser ucciso arbitrariamente, ti par piccola cosa?)» e della «libertà individuale (per incarcerarti devi essere giudicato colpevole di un crimine)»48.

Attraverso una serie di astrazioni ed equazioni indebite, l'attualismo dissolve tutte le differenze nell'unica realtà universale a cui assegna il nome di Stato. L'utopia dell'attualismo, dunque, secondo le parole dello stesso Gramsci,

consiste nel confondere lo Stato con la società regolata, confusione che si verifica per una puramente “razionalistica” concatenazione di concetti: individuo = società (l’individuo non è un «atomo», ma l’individuazione storica dell’intera società), società = Stato, dunque individuo = Stato. Il carattere che differenzia questa “utopia” dalle utopie tradizionali e dalle ricerche, in generale, dell’“ottimo stato” è che [gli attualisti] danno come già esistente questa loro “fantastica” entità, esistente ma non riconosciuta da altri che da loro, depositari della “vera verità”, mentre gli altri (specialmente gli economisti e in generale gli scienziati di scienze sociali) non capiscono nulla, sono nell’“errore”49.

Ma un universale che non riconosca i particolari (dissolvendoli in un'identificazione immediata con se stesso), che ne disperda le identità specifiche, non costituisce altro, in termini hegeliani, che un universale astratto, un universale incline a reprimere le particolarità che non si conformano alla sua ragione. L'utopia assume dunque, ben presto, caratteri feroci e violenti: «per quale “coda del diavolo”», scrive Gramsci, avvenga che solo gli attualisti «posseggano questa verità», ovvero la capacità di vedere una realtà sociale (quella fascista) nella quale sono state superate tutte le scissioni interne, «e gli altri non la vogliano possedere, non è stato ancora spiegato...ma appare qua e là un barlume dei mezzi con cui...ritengono che la verità dovrà essere diffusa e diventare autocoscienza: è la polizia (ricordare il discorso di Gentile a Palermo nel 24)»50.

Lo Stato-classe viene invero presentato da Gentile come una società regolata, nella quale tutte le divisioni sarebbero state risolte e in cui il particolare viene presentato come un universale rivelando ben presto quest'ultimo come un universale astratto: «Il Gentile pone la fase corporativo-economica come fase etica nell’atto storico: egemonia e dittatura sono indistinguibili, la forza è consenso senz’altro: non si può distinguere la società politica dalla società civile: esiste solo lo Stato e naturalmente lo Stato-governo»51.

Abbiamo un impiego astratto del termine Stato, concepito perlopiù come entità monolitica e metastorica; in ultima istanza, continua Gramsci, la teoria idealista con cui viene supportato questo termine costituisce «un derivato logico delle più scempie e “razionali” teorie democratiche. Ancora essa è legata alla concezione della “natura umana” identica e senza sviluppo come era concepita prima di Marx per cui tutti gli uomini sono fondamentalmente uguali nel regno dello Spirito (= in questo caso allo Spirito Santo e a Dio padre di tutti gli uomini)»52.

La concezione dello Stato in interiore homine, cara a Gentile, dà luogo invero ad un'astrazione che induce ad ignorare come questo sia una composizione storica di spinte sociali, sorte sulla base di un determinato sviluppo delle forze produttive e di determinati rapporti di produzione.

Mentre Gramsci rivela il proprio debito verso il concetto di «società civile come è intesa dallo Hegel», ovvero «nel senso di egemonia politica e culturale di un gruppo sociale sull'intera società»53, nella «concezione dello Stato così come è esposta dagli idealisti attuali, lo Stato finisce con l’essere» un qualcosa «di superiore agli individui» che pur dimorerebbe nella loro interiorità, sicché «un uomo di buon senso, chiamato alla leva, per es. potrebbe rispondere che prendano di lui la parte di “qualcosa” con cui contribuisce a creare il “totale qualcosa” che è lo Stato, e gli lascino la persona fisica concreta e materiale»54. Ancora una volta, dunque, «l’idealismo ipostatizza questo qualcosa in più, la qualità, ne fa un ente a sé» che chiama «lo “spirito”» e mortifica l'intera dimensione materiale e quantitativa dell'esistenza, mentre, come abbiamo visto, «nella filosofia della praxis la qualità è sempre connessa alla quantità»55, così come, potremmo aggiungere, l'interiorità all'esteriorità, l'Interno all'Esterno.

 

4. Comuni, Signorie e Stato moderno

Una significativa spinta verso l'affermarsi di uno Stato di diritto in senso moderno e in direzione di un Universale concreto viene individuata da Hegel nei primi bagliori della civiltà comunale, come si può leggere nelle Lezioni di filosofia della storia:

Dalle città costiere italiane, spagnole e fiamminghe fu promosso un vivace commercio per mare, che suscitò a sua volta in quelle città un gran fervore dell'industria. Le scienze incominciarono in certo qual modo a ravvivarsi...scuole giuridiche furono fondate a Bologna e in altre città, così pure scuole di medicina. Alla base di tutte queste creazioni stava, come condizione principale, la nascita e l'importanza crescente delle città...C'era un gran bisogno di questa nascita delle città...le città si presentano come reazioni contro la violenza del sistema feudale, come prima potenza dotata di un intrinseco diritto56.

Si trattò per Hegel di una straordinaria fioritura materiale, spirituale ed etica: non appena «i comuni si furono rafforzati, tutti i diritti furono comprati presso i signori», che li detenevano come monopoli privati, nella gelosia del proprio interesse individuale o di casta, oppure, quando necessario, «furono loro estorti con la violenza. Le città si comperarono a poco a poco il diritto a una giurisdizione propria e si liberarono del pari da qualsiasi imposta, dazio, canone»57. A tutto questo si accompagnò, non senza contraddizioni e conflitti, «la massima fioritura dell'industria, del commercio per terra e sull'acqua»58. Ma questi bagliori di mondo moderno crollarono sventuratamente con il riaffacciarsi sul piano storico delle signorie. Impietoso risulta il giudizio di Hegel su questo sistema sociale: se con la civiltà comunale assistiamo al sorgere di «città dotate all'inizio di diritti municipali», questi stessi diritti verranno «più tardi perduti sotto la signoria»59. Si tratta, quest'utlimo, di un sistema nel quale «non vale più il potere della legge e del diritto, bensì solo la violenza casuale, la caparbia rozzezza del diritto particolare, protesa contro l'uguaglianza dei diritti e delle leggi»: un regno governato dalla «sfera dell'accidentalità» nella quale domina «una disuguaglianza di diritti»60. A ben vedere, con il governo delle signorie, «ogni diritto svanì al cospetto del potere particolare» non esistendo alcuna «uguaglianza dei diritti», ovvero alcuna «razionalità della legge, avente per fine l'insieme, lo Stato»61. Al contrario, «interesse capitale dei prìncipi», sia pure nella loro diversità, era la «pretesa a farsi indipendenti dallo Stato»62. Donde la stessa contraddizione interna nella lotta dell'imperatore contro il potere ecclesiastico e la conseguente incapacità di realizzare un'unità politica nazionale. Bandito il diritto, tornano a governare leggi primordiali: «il principio della signoria feudale è l'esteriore autorità di singoli individui, signori dinastici, privi di un principio giuridico interno» sicché «i diritti del signore feudale» non sono altro che «qualcosa di estorto con la violenza, che a sua volta può mantenersi compiuto e attuato solo grazie a una continua violenza»63. La signoria costituisce così poco una realtà vicina alla realizzazione dello Stato in senso hegeliano che quest'ultimo può inverarsi soltanto previa cancellazione di quella. A tal proposito Hegel elogia Il Principe di Machiavelli: quel pamphlet anziché essere una teorizzazione «della tirannia più crudele», come superficialmente veniva interpretato dai suoi contemporanei, va «inteso nel senso elevato della formazione necessaria dello Stato» e quindi come una esposizione dei principi «in base ai quali era giocoforza, in quelle circostanze, formare gli Stati»: in primo luogo, per realizzare questo obbiettivo, «bisognava che i singoli signori e le singole signorie fossero schiacciate»64. In tutta la trattazione hegeliana la signoria costituisce il principale ostacolo che si oppone alla formazione dello Stato unitario. La ragione dell'una si trova, per Hegel, in contrapposizione alla ragione dell'altro, sicché soltanto eliminando la prima si può procedere in direzione del secondo.

Diametralmente opposto, a riguardo, si dimostra il giudizio di Gentile: per questi l'«uomo operante secondo la logica del Principato crea lo Stato», il quale deriva dall'atto del volere umano, «anzi è questo atto», sicché «la Signoria è una trasformazione del Comune», ma una trasformazione non involutiva, bensì evolutiva, giacché «la Signoria rispetto al Comune ha un vantaggio essenziale: essa introduce l'unità del potere e risolve l'atomismo degl'individui e delle classi nella personalità dello Stato, che vuole attuarsi compiutamente come autocoscienza»65.

Se dunque per Hegel il comune contiene in sé i germi dello Stato quale Universale concreto, e la signoria costituisce l'ostacolo che impedisce il realizzarsi di un tale Universale, per Gentile le cose stanno esattamente all'opposto: soltanto sopprimendo lo spirito antistatale del comune e lasciando spazio alla reazione delle signorie si procede verso la formazione dello Stato. Evidentemente per il tipo di assetto politico a cui sta pensando, Gentile – diversamente da Hegel – non scorge nella nascita delle libere costituzioni e nell'avvento della modernità un processo di avvicinamento rispetto allo Stato bensì di allontanamento. L'Universale di Gentile si dimostra ancora un Universale astratto, precedente alla «splendida aurora» di cui parla Hegel in riferimento alla Rivoluzione Francese. Quell'aurora per Gentile ha costituito, a ben vedere, un crepuscolo. Se con essa prende infatti avvio, per il filosofo tedesco, una nuova era dell'umanità, ponendo fine all'assolutismo monarchico e compiendo dunque un fondamentale passo in avanti in direzione della formazione dello Stato etico, viceversa per Gentile, proprio «quell'assolutismo» venuto a crollare «sarebbe l'ideale dello Stato»66.

Sulla scia di Hegel si colloca Gramsci. In primo luogo l'intellettuale sardo dedica ai processi storici un'attenzione ben maggiore rispetto a Gentile. Si tratta di una differenza di metodo che induce l'autore dei Quaderni ad accusare gli attualisti di empirismo. Se infatti «non si può mai dire che la soluzione» dei problemi attuali «dipenda geneticamente dalle soluzioni passate», giacché «la genesi di essa è nella situazione attuale e solo in questa», nondimeno «questo criterio non è assoluto, cioè non deve essere portato all’assurdo» alimentando un'ipostatizzazione del presente, altrimenti «si cadrebbe nell’empirismo: massimo attualismo, massimo empirismo». Importante risulta dunque «saper fissare le grandi fasi storiche, che nel loro insieme hanno posto determinati problemi, e fin dall’inizio del loro sorgere ne hanno accennato gli elementi di soluzione». Ma questa operazione appare ben diversa dalle narrazioni storiografiche compiute per fini pratici immediati, che si rivelano ben presto ideologicamente viziate: così per Gramsci «è puro romanzo intellettuale la costruzione attuale dei rapporti tra Stato e Chiesa...sullo schema dantesco “della Croce e dell’Aquila”». Invero, come «tra il Principe del Machiavelli e l’Imperatore di Dante non c’è connessione genetica», così non v'è connessione genetica «tra lo Stato Moderno e l’Impero medioevale». Questo tentativo di mettere insieme le due istanze, anziché a un criterio scientifico di ricostruzione storica, ubbidisce unicamente a una «“retorica” nazionale» in cui «la storia reale viene scambiata con le larve della storia» rivelandosi, più che un'interpretazione storiografica, «un elemento secondario e subordinato di organizzazione politica e ideologica di piccoli gruppi che lottano per l’egemonia culturale e politica»67.

In sintonia con Hegel e contro l'idealismo unilaterale di «Gentile», per il quale «la storia è tutta storia dello Stato»68, Gramsci legge «il comune medioevale come fase economico-corporativa dello Stato moderno»69. In esso, assieme all'ascesa economica della borghesia, vediamo nascere e svilupparsi «gli statuti delle “Società d’armi”» che «oltre al loro ufficio politico di difesa esterna del Comune, avevano il fine di assicurare a ciascun popolano la tutela necessaria a proteggerlo contro le aggressioni dei nobili e dei potenti». Ma non è tutto:

Per le funzioni stesse delle società si formarono poi cariche e consigli...che col tempo ebbero valore oltre i termini delle società e trovarono luogo nella costituzione del Comune.

Originariamente, in queste società entrano milites al pari di pedites, nobili e popolani, se anche in minor numero. Ma, a grado a grado, i milites, i nobili tendono ad appartarsene come a Siena, o, secondo i casi, ne possono essere espulsi, come nel 1270, a Bologna. E a misura che il movimento di emancipazione prende piede, oltrepassando anche i limiti e la forma di queste società, l’elemento popolare chiede e ottiene la partecipazione alle maggiori cariche pubbliche. Il popolo si costituisce sempre più in vero partito politico e per dare maggiore efficienza e centralizzazione alla sua azione si dà un capo, «il Capitano del popolo», ufficio che pare Siena abbia preso da Pisa e che nel nome come nella funzione rivela insieme origini e funzioni militari e politiche. Il popolo che già, volta a volta, ma sporadicamente, si era riunito e si era costituito e aveva prese deliberazioni distinte, si costituisce come un ente a parte, che si dà anche proprie leggi. Campana propria per le sue convocazioni «cum campana Communis non bene audiatur». Entra in contrasto col Podestà a cui contesta il diritto di pubblicar bandi e con cui il Capitano del popolo stipula delle «paci».

Quando il popolo non riesce ad ottenere dalle Autorità comunali le riforme volute, fa la sua secessione, con l’appoggio di uomini eminenti del Comune e, costituitosi in assemblea indipendente, incomincia a creare magistrature proprie ad immagine di quelle generali del Comune, ad attribuire una giurisdizione al Capitano del popolo, e a deliberare di sua autorità, dando inizio (dal 1255) a tutta un’opera legislativa...Il popolo riesce, prima praticamente, e poi anche formalmente, a fare accettare negli Statuti generali del Comune disposizioni che prima non legavano se non gli ascritti al «Popolo» e di uso interno. Il popolo giunge quindi a dominare il Comune, soverchiando la precedente classe dominante, come a Siena dopo il 1270, a Bologna con gli Ordinamenti “Sacrati” e “Sacratissimi”, a Firenze con gli “Ordinamenti di giustizia”70.

La borghesia comunale, tuttavia, non seppe uscire per Gramsci dalla sua fase economico- corporativa, e anziché allearsi con le classi contadine e con il popolo contro i ceti feudali, individuò la minaccia più grande provenire dal proprio fianco sinistro, sicché «l’origine delle signorie» si rivelò «ben diversa in Italia dagli altri paesi: in Italia nasce dall’impossibilità della borghesia di mantenere il regime corporativo, cioè di governare con la pura violenza il popolo minuto. In Francia invece l’origine dell’assolutismo è nelle lotte tra borghesia e classi feudali, in cui però la borghesia è unita al popolo minuto e ai contadini (entro certi limiti, s’intende)»71. Ma questo «passaggio ai principati e alle signorie» con il tramonto dei comuni, determinò una «perdita dell’iniziativa borghese» e una «trasformazione dei borghesi in proprietari terrieri». Nel complesso, dunque, «tutta la società italiana stava diventando reazionaria»72.

Queste trasformazioni storico-sociali sottendono altresì trasformazioni valoriali che si cristallizzano nella lingua: l'italiano, il latino, il volgare esprimono universi sentimentali e umani ben determinati. In questo senso, «il Petrarca, si può dire, è tipico di questo passaggio: egli è un poeta della borghesia come scrittore in volgare, ma è già un intellettuale della reazione antiborghese (signorie, papato) come scrittore in latino, come “oratore”, come personaggio politico»73.

La civiltà comunale, in sintesi, fase economico-corporativa dello Stato moderno, non seppe determinare una reale rottura con le forze del passato, ma vi convisse in un mutarsi continuo di equilibri fino almeno al 1789. Prima di allora non si può parlare di reale rottura. In questo senso, afferma Gramsci, «ha ragione Antonio Labriola nel suo brano Da un secolo all’altro che solo con la Rivoluzione Francese si sente il distacco dal passato, da tutto il passato e questo sentimento ha la sua espressione ultima nel tentativo di rinnovare il computo degli anni col calendario repubblicano»74.

A ben vedere, dopo essere stata alimentata per secoli, questa rottura, quando si verifica, non trova un immediato consolidamento: «realmente le contraddizioni interne della struttura sociale francese che si sviluppano dopo il 1789 trovano una loro relativa composizione solo con la terza repubblica...dopo 80 anni di rivolgimenti a ondate sempre più lunghe: 89-94-99-1804-1930-1848- 1870»75. Nondimeno, fin dagli scritti giovanili, Gramsci riconosce che «la Rivoluzione francese ha abbattuto molti privilegi, ha sollevato molti oppressi...ha lasciato un grande ammaestramento: che i privilegi e le differenze sociali, essendo prodotto della società e non della natura, possono essere sorpassate»76.

Tale processo di emancipazione ha inoltre costituito un momento fondamentale anche per la costruzione dello Stato unitario in Italia, il quale non potrebbe spiegarsi senza l'89 francese. Nella nostra penisola

le forze tendenti all’unità erano scarsissime, disperse, senza legami tra loro e senza capacità di crearseli. Le forze contrastanti a quelle unitarie erano potentissime, coalizzate, e specialmente come la Chiesa assorbivano in sé una gran parte delle energie nazionali che altrimenti sarebbero state unitarie, dando loro un indirizzo cosmopolita-clericale. I fattori internazionali e specialmente la Rivoluzione francese stremando queste forze reazionarie e logorandole, potenziano per contraccolpo le forze nazionali in se stesse scarse e inefficienti. È questo il contributo più importante della Rivoluzione, molto difficile da valutare e definire, ma che s’intuisce di peso decisivo nel dare l’avviata al moto del Risorgimento77.

Da quanto osservato sin qui possiamo constatare non soltanto il giudizio diametralmente opposto che viene formulato da Gramsci e Gentile sui principali avvenimenti europei, e dunque le loro opposte filosofie della storia, ma anche la loro profonda differenza riguardo a ciò che costituisce il soggetto principale del divenire, il demiurgo del mutamento sociale: se per il filosofo attualista questo coincide con lo Stato, inteso idealmente, in modo astratto, ovvero indipendentemente dalle forze economiche e politiche di cui è espressione, per l'intellettuale sardo, al contrario, esso si incarna nella classe e nel conflitto tra le classi. Dunque non l'idea di Stato muove il mondo (Gentile), ma lo scontro tra gli interessi materiali delle forze storiche (Gramsci), quindi, marxianamente la lotta di classe o hegelianamente le lotte Servo-Padrone, vale a dire le lotte per il riconoscimento.

Il concetto di lotta di classe, che sta, come abbiamo visto, al centro della riflessione gramsciana – costituendone non soltanto il nucleo del pensiero filosofico ma anche il criterio interpretativo dei più significativi eventi storici –, viene invece profondamente disprezzato da Gentile per tutto l'arco del suo percorso intellettuale. Assieme ai concetti di sensibilità, economia e rapporti materiali, il concetto di lotta di classe è quello che l'attualismo è meno disposto ad accettare da Marx. Separando quindi l'autore della Fenomenologia dal filosofo di Treviri, Gentile afferma che mentre «per Hegel la forza dello Stato è forza etica...la classe, che Marx sostituisce allo Stato, è forza economica o forza senz'aggettivo»78. Vediamo allora il filosofo attualista scagliarsi con particolare veemenza contro quello che definisce «l'assurdo della lotta di classe»79, contro il «socialismo...saldo sempre nel suo atteggiamento intransigente, di lotta di classe e di internazionalismo»80, che difende «la profonda ignoranza e incoltura delle classi operaie e contadine» assieme alla loro «assoluta inettitudine politica»81. Così esprime il suo più sincero attaccamento a tutti gli «uomini di Governo, da Cavour a Giolitti» che «difesero, come seppero, lo Stato contro le più sfrenate forze disgregatrici» difendendo quindi «il vero concetto di libertà che non è contrario, anzi identico, al concetto dello Stato»82. Sì, per Gentile la classe e lo spirito di classe costituiscono una forza disgregatrice e particolare, mentre autentici universali sono lo Stato – inteso metastoricamente e in termini astratti, mai come espressione di un gruppo sociale, mai come Stato-classe –, e la guerra: «lo Stato infatti è l'universalità» e «la guerra» assolve «la funzione...di superare il contrasto e realizzare l'universalità nello Stato che guerreggia, evidentemente, per vincere, e sopprimere in conseguenza gli interessi» (delle classi inferiori interne che lottano per l'emancipazione e degli altri Stati) «che fanno da ostacolo a' suoi interessi»83.

Questo tentativo di occultare il problema del conflitto sociale attraverso un concetto apparentemente omogeneo e unitario di Stato, dunque attraverso un'astrazione metafisica, costituisce evidentemente per Gramsci un falso universalismo, un espediente con cui abolire «alcune autonomie» dello Stato moderno, rinate sotto forma di «partiti, sindacati, associazioni di cultura» e determinare «l'accentramento di tutta la vita nazionale nelle mani del gruppo dominante»84. Così per Gramsci le organizzazioni interne allo Stato a cui hanno dato vita i ceti subalterni non significano, come per Gentile, una sua disgregazione, giacché secondo l'intellettuale sardo, «ogni elemento sociale omogeneo è “Stato”, rappresenta lo Stato, in quanto aderisce al suo programma: altrimenti si confonde lo Stato con la burocrazia statale»85.

Per questa ragione, egli afferma, «l'intransigenza è il solo modo d'essere della lotta di classe. È il solo documento che la storia si sviluppa e crea valori solidi, sostanziali, non “sintesi privilegiate”, sintesi arbitrarie, confezionate di comune accordo tra la tesi e l'antitesi che hanno fatto comunella insieme, come l'acqua e il fuoco di buona memoria»86. Con una visione opposta a quella di Gentile, per Gramsci «la lotta di classe, morale perché universale, supera la guerra, immorale perché particolaristica, e fatta non per volontà dei combattenti, ma per un principio che questi non possono condividere»87.

In sintesi, i punti di partenza dell'intellettuale sardo restano la lotta e la coscienza di classe: parlare di Stato prescindendo da questi fattori produce soltanto astrazioni indebite. Diversamente da Gentile, per il quale la classe costituisce soltanto un'entità materialista suscettibile di disgregare gli spiriti unitari che si raccolgono intorno all'apparato statale, per Gramsci fare astrazione dall'esistenza delle classi significa capire poco o nulla dello Stato: sì, «scarsa comprensione dello Stato significa scarsa coscienza di classe»88.


Note
1 A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 2001, Q 8, 225, p. 1083.
2 Ivi, Q 10, 41, p. 1313.
3 Ivi, Q 4, 45, p. 471.
4 G. Gentile, La riforma della dialettica hegeliana, Le Lettere, Firenze, 2003, p. 192.
5 Ivi, p. 194.
6 Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften, in Id., Werke in zwanzig Bänden (d'ora in avanti W seguito dal numero del volume e dalla pagina) a c. di Eva Moldenhauer e Karl Markus Michel, sulla base dell'edizione del 1832-45, Frankfurt a. M.: Suhrkamp, 1969-1979, Bd 11, p. 213, § 424, tr. it., p. 358.
7 Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften, in Id., W 11, 80 § 24, tr. it., p. 139.
8 In questo, il Gentile mostrava una tacita convergenza ermeneutica con Lenin, il quale aveva scorto consistenti «germi di materialismo storico in Hegel», nonché, proprio nella Scienza della Logica, «un contenuto molto profondo, puramente materialistico», cfr. Lenin, Quaderni filosofici, in Id., Opere scelte in sei volumi, Vol III, pp. 452-453.
9 Gentile, Il pensiero come volontà, in Id., La riforma della dialettica hegeliana cit., p. 192.
10 Hegel, Wissenschaft der Logik, in Id., W 5, 200, tr. it. Vol. 1, p. 227.
11 Ivi, W 5, 203, tr. it., p. 231.
12 Gramsci, Q 16, 9, p. 1861.
13 Ivi, Q 10 I, 11, p. 1233. 
14 G. Gentile, La riforma della dialettica hegeliana, cit., p.227.
15 Ivi, p. 228.
16 Ivi, p. 89.
17 Hegel, Phänomenologie des Geistes, W 3, 38, tr. it., Fenomenologia dello Spirito, Bompiani, Milano 2000, p. 91.
18 A. Gramsci, Q 4, 41, p. 467.
19 Ivi, Q 11, 59, p. 1485.
20 Ivi, Q 10, 7, p. 1223.
21 G. Gentile, Sistema di logica come teoria del conoscere, in Id., L'attualismo, Bompiani, Milano 2015, p. 824.
22 Ivi, pp. 827-828.
23 Hegel, Principio di una filosofia nella forma di una proposizione fondamentale assoluta, in E. De Negri, I principi di Hegel, La Nuova Italia, Firenze 1949, p. 44. 
24 Ivi, p. 45.
25 A. Massolo, La storia della filosofia e il suo significato, in Id., La storia della filosofia come problema, Vallecchi, Firenze 1973, pp. 37-38.
26 A. Gramsci, Q 6, 64, p. 733.
27 Ivi, Q 9, 63, p. 1134.
28 Ibidem.
29 Ivi, Q 1, 92, pp. 91-92.
30 Ivi, Q 11, 6, p. 1370.
31 Ivi, Q 10 b, 7, p. 1223.
32 Ivi, Q 11, 48, p. 1470.
33 Ivi, Q 8, 221, p. 1081.
34 Ivi, Q 11, 6, p. 1370.
35 G. Gentile, I fondamenti della filosofia del diritto, Le Lettere, Firenze 2003, p. 45.
36 G. Gentile, Sistema di logica come teoria del conoscere. Vol. II, in Id., L'attualismo, cit., p. 643.
37 Ivi, p. 644.
38 G. Gentile, I fondamenti della filosofia del diritto, cit., pp. 75-76.
39 G. Gentile, La riforma della dialettica hegeliana, cit., p. 193.
40 G. Gentile, Genesi e struttura della società, in Id., L'attualismo, cit., p. 1264.
41 Ivi, p. 1309.
42 Ivi, p. 1361.
43 G. Gentile, Fondamenti della filosofia del diritto, cit., p. 102.
44 Ivi, p. 105.
45 Ivi, p. 103-104.
46 G. Gentile, Genesi e struttura della società, cit., p. 1267.
47 Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts, W 7, 140 § 66, tr. it., p. 165.
48 A. Gramsci, La tua eredità, in SP I, p. 76.
49 A. Gramsci, Q 6,82, p. 755.
50 Ibidem.
51 Ivi, Q 6, 10, p. 691.
52 Ivi, Q 6, 82, p. 755.
53 Ivi, Q 6, 24, p. 703.
54 Ivi, Q 11, 32, p. 1447.
55 Ibidem.
56 Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte, in W 12, 461, tr. it., Lezioni sulla filosofia della storia, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 316.
57 Ivi, W 12, 463, tr. it., p. 317.
58 Ivi, W 12, 464, tr. it., p. 318.
59 Ivi, W 12, 464, tr. it., p. 316.
60 Ivi, W 12, 447, tr. it., p. 306.
61 Ivi, W, 12, 448, tr. it., pp. 307-308.
62 Ivi, W 12, 466, tr. it., p. 319.
63 Ivi, W 12, 478, tr. it., p. 327.
64 Ivi, W 12, 482, tr. it., p. 331.
65 G. Gentile, Genesi e struttura della società, cit., p. 1304.
66 Ivi, p. 1305.
67 Gramsci, Q 6, 85, p. 758.
68 Ivi, Q 6, 10, p. 691.
69 Ivi, Q 6, 85, p. 758.
70 Ivi, Q 3, 16, pp. 301-302.
71 Ivi, Q 5, 123, p. 647.
72 Ivi, Q 7, 68, p. 906.
73 Ivi, Q 5, 123, p. 649.
74 Ibidem.
75 Ivi, Q 13, 17, p. 1582.
76 Ivi, Oppressi ed oppressori, in SP I, p. 6.
77 Ivi, Q 19, 3, p. 1972.
78 G. Gentile, Il marxismo di B. Croce, cit., p. 299.
79 G. Gentile, Scritti per il "Corriere" 1927-1944, Fondazione Corriere della Sera, 2009, p. 136.
80 G. Gentile, Guerra e fede, Ricciardi editore, Napoli 1919, p. 247.
81 Ivi, p. 340.
82 Ivi, Scritti per il "Corriere", cit., p. 75.
83 Ivi, Origini e dottrina del fascismo, Istituto Nazionale Fascista di Cultura, Roma 1934, p.
84 Ivi, Q 25, 4, p. 2287.
85 Ivi, Q 3, 61, p. 340.
86 Ivi, L'intransigenza di classe e la storia italiana, in SP I, p. 88.
87 Ivi, Lotta di classe e guerra, in SP I, p. 19.
88 Ivi, Q 3, 46, p. 326.
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