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il rasoio di occam

Il rovescio della libertà

di Massimo De Carolis

Si può stabilire con l'attualità recente e con il neoliberalismo che sembra contrassegnarla in profondità un confronto speculativo, capace di farne balenare il senso? Ha provato a farlo Massimo De Carolis nell'appena uscito "Il rovescio della libertà. Tramonto del neoliberalismo e disagio della civiltà" (Quodlibet). Ringraziamo l'autore e l'editore per averci concesso di pubblicare l'introduzione

rovescio liberta 499 3Nella storiografia economica si è diffuso da tempo il vezzo di designare i tre decenni successivi alla seconda guerra mondiale con l’espressione les trente glorieuses: una formula coniata in origine per il miracolo francese del secondo Dopoguerra, che col tempo è stata progressivamente estesa all’intero mondo occidentale. Per chi sia abituato a privilegiare, nella storia, la dimensione strettamente politica, l’attribuzione disinvolta di un titolo così onorifico può forse destare qualche perplessità, pensando alle tensioni generate in quegli anni dalla guerra fredda, dalla minaccia nucleare o dall’asprezza dei conflitti ideologici e sociali. Se ci si concentra però sui soli parametri economici, è difficile negare che l’economia di mercato abbia messo a segno, in quei decenni, un risultato a dir poco straordinario. La crescita è stata consistente e ininterrotta, il tenore di vita della stragrande maggioranza della popolazione occidentale è considerevolmente migliorato e le disuguaglianze sociali si sono ridotte in modo significativo.

Al confronto, la fase storica successiva offre, a uno sguardo retrospettivo, uno spettacolo decisamente meno incoraggiante. Quelli che si succedono, a partire dagli anni Ottanta, sono anni senza gloria, afflitti da crisi continue, da effimeri entusiasmi e grandi delusioni, destinati a sfociare in una crisi di lunga durata e nella drastica esplosione delle disuguaglianze. Per di più, in questo caso, il bilancio negativo non sembra affatto limitabile alla sola sfera dell’economia.

Nell’insieme, anzi, il disagio sociale si è talmente accentuato e diffuso da aver reso plausibile l’immagine di un’epoca «delle passioni tristi»[1]. E, come se non bastasse, negli anni più recenti la proliferazione dei conflitti e la loro crescente intensità, sullo scacchiere globale, stanno riportando alla memoria il monito severo di Carl Schmitt su una possibile «guerra civile mondiale».

L’inversione di tendenza, insomma, è impressionante. Ed è resa anche più evidente dal fatto che, a suo tempo, il passaggio da una fase all’altra non si sia consumato in modo indolore e graduale ma sia stato accompagnato, quasi ovunque, da una frattura brusca: una trasformazione drastica dei rapporti sociali e politici destinata, in pochi anni, a culminare nell’implosione dell’Unione Sovietica e nella rapida conversione di molti paesi dell’Est europeo all’economia di mercato. Certo, crea qualche imbarazzo l’allusione a un legame diretto tra lo scenario preoccupante della crisi attuale e una catena di eventi che all’epoca, almeno in Europa, aveva suscitato a buon diritto aspettative molto più ottimistiche. Eppure, per chiunque abbia seguito con partecipazione, giorno dopo giorno, l’evoluzione sociale e politica degli ultimi decenni, la vaga percezione di un filo logico unitario, sotteso da un capo all’altro della parabola, ha per molti aspetti la forza persuasiva dell’esperienza vissuta, per quanto possa risultare tuttora difficile tradurla in una visione chiara e coerente della storia.

La ricerca condotta in questo libro nasce in fondo proprio da una simile difficoltà. È mossa, in altre parole, dal desiderio di misurarsi senza pregiudizi con i nostri anni «ingloriosi», per provare a ricostruirne la logica interna e per mettere a fuoco, nei limiti del possibile, i motivi che ne hanno dettato la parabola, imponendo un bilancio che, almeno a prima vista, appare oggi tanto allarmante. L’intenzione di fondo, in parole povere, è sforzarsi di capire cosa stia succedendo, per ubbidire all’impegno elementare cui si è votata tutta la filosofia moderna: quello di provare a essere, prima di ogni altra cosa, «il proprio tempo appreso con il pensiero».

Non bisogna aspettarsi, però, un qualche elenco di fatti concreti, corredato eventualmente da grafici, tabelle e calcoli statistici. Non è in questione, insomma, una ricostruzione storiografica di tipo tradizionale, che del resto sarebbe difficilmente concepibile per un’epoca ancora in corso d’opera e, in ogni caso, esigerebbe ben altro genere di competenze. Quello a cui il libro vorrebbe offrire un contributo è un confronto speculativo con l’attualità recente, che si sforzi, anche in misura minima, di farne balenare il senso. E un progetto di questa natura non può in nessun caso risolversi in un’elencazione dei fatti, per almeno due buoni motivi. Il primo è che, per distillarne il senso, i fatti vanno comunque ordinati, selezionati e inscritti in uno schema concettuale. Occorre insomma una chiave di lettura, che solo fino a un certo punto può essere ricavata dall’osservazione empirica. La seconda difficoltà, più sottile, è che non c’è modo, in pratica, di tematizzare il senso di un’epoca storica determinata, senza vedersi prima o poi costretti a ripensarne i presupposti, ad ampliare la prospettiva e a rimettere così in questione il senso della storia in generale. Un simile cortocircuito tra la dimensione contingente e quella generale, nell’esperienza storica, è noto da sempre. Un tempo lo si esprimeva ricordando che ogni epoca, a suo modo, «è in rapporto immediato con Dio»[2]. Nel caso specifico, però, della nostra epoca, il cortocircuito in questione è a sua volta parte integrante della storia e occupa, fin da principio, un posto di primo piano sulla scena.

All’inizio degli anni Ottanta, in effetti, la svolta effettivamente percepibile, almeno in Occidente, non sembrava toccare che la dimensione relativamente superficiale delle ideologie e delle narrazioni dominanti. Nessuno dei veri e propri pilastri strutturali della società moderna ne risultava realmente compromesso: non l’economia monetaria, né il monopolio statale della violenza legittima, né tanto meno l’organizzazione scientifica delle conoscenze. Eppure, negli stessi anni, divenne moneta corrente, nel dibattito teorico, l’idea che a essere seriamente in pericolo fosse l’intera civiltà moderna, nel suo insieme e nelle sue stesse fondamenta. Si accese così una polemica tra chi annunciava l’avvento di una società postmoderna e chi riteneva invece necessaria una difesa a oltranza dei principi e delle forme di organizzazione tipiche della modernità. Si trattò, per molti aspetti, di una discussione caotica, di cui è difficile fissare con precisione i termini e che non ha prodotto, a quanto pare, un risultato univoco. Fu anche però – ed è bene ricordarlo – l’ultimo esempio di un dibattito prettamente «filosofico» capace di coinvolgere e di polarizzare l’interesse di tutte le componenti più vive della società globale. Ed ebbe il merito di segnalare fin da principio la radicalità della svolta in atto, lasciando presagire le incertezze e i rischi che sarebbero puntualmente emersi nei decenni successivi.

All’epoca, al netto della polemica, gli alfieri delle due fazioni condividevano comunque il presupposto che la crisi della modernità fosse in corso già da tempo, e che i suoi primi sintomi andassero retrodatati quanto meno fino agli ultimi decenni del diciannovesimo secolo. Del resto, sotto il profilo strettamente politico, Carl Schmitt aveva individuato da tempo nella Conferenza sul Congo del 1890 l’ultimo atto significativo del diritto pubblico europeo, dal quale già trapelavano le crepe profonde che, col tempo, avrebbero condotto l’ordine globale al suo inevitabile crollo. Indagando, ora, la storia delle idee, moderni e postmoderni finivano per giungere a una datazione analoga, fissando di comune accordo nelle opere di Nietzsche il punto di svolta a partire dal quale la crisi della civiltà moderna diventa, per la grande cultura europea nel suo complesso, il tema basilare e ineludibile.

Illuminata da una luce interpretativa tanto intensa, la brusca frattura che, negli anni Ottanta, stava trasformando gli equilibri politici globali entrava così in una specie di segreta risonanza con una svolta epocale annunciata già un secolo prima e finiva per assumere, logicamente, un significato che andava di gran lunga al di là delle contingenze politiche immediate. Anche lasciando da parte gli eccessi pittoreschi di chi annunciava l’avvenuta fine della storia, la tendenza generale fu quella di riconoscere, nei processi in corso, una risposta alla crisi secolare della modernità, forse persino l’inizio del suo compimento, in ogni caso la soglia a partire dalla quale il disfacimento della civiltà moderna tracimava definitivamente al di fuori della sfera simbolica, delle rappresentazioni e dei concetti, per investire direttamente le forme di organizzazione sociale e, con esse, la vita collettiva nel suo insieme.

Può essere considerata, credo, una parziale ma significativa conferma di una simile visione delle cose il fatto che, in quegli anni, gli attori politici più direttamente coinvolti nella svolta in corso, quasi senza eccezioni, adottassero come modello ideologico un complesso di teorie che era, in effetti, tutt’altro che nuovo; che era in ombra, anzi, da quasi mezzo secolo e occupava, con scarso clamore, uno spazio relativamente marginale nelle istituzioni economiche e politiche; e che era stato elaborato, in origine, proprio con l’ambizione esplicita di offrire una risposta alla crisi della civiltà moderna nel suo insieme. Con tutta probabilità, fu Alexander Rüstow il primo a usare il termine neoliberalismo per designare l’orientamento teorico e politico in questione, con l’intento di marcare nettamente le distanze rispetto al liberalismo tradizionale, di cui già negli anni Trenta sembrava ragionevole constatare l’acclarato fallimento.

Nella letteratura a carattere divulgativo, il neoliberalismo è associato di norma all’azione di leader politici molto recenti, come Ronald Reagan e Margaret Thatcher o, tutt’al più, alla coorte di esperti che ne affiancò l’opera in campo economico, a cominciare da Milton Friedman e dagli altri esponenti della scuola di Chicago. Con l’unica, importante eccezione degli studi direttamente influenzati dall’insegnamento di Michel Foucault, l’origine remota delle teorie neoliberali, negli anni compresi tra le due guerre mondiali, è di solito ignorata o liquidata come un dettaglio scarsamente rilevante, benché la filiazione diretta da una generazione all’altra del neoliberalismo sia del tutto fuori discussione. È chiaro che ricostruzioni simili restano inevitabilmente parziali. Eppure, non si tratta di una banale trascuratezza, ma di un’omissione che ha i suoi buoni motivi.

A partire dagli anni Ottanta, infatti, il termine «neoliberalismo» ha finito col designare, a torto o a ragione, non solo il progetto politico egemone, in quegli anni, a livello globale. Ci si è abituati, con lo stesso termine, a indicare anche la catena di trasformazioni oggettive che l’attuazione del progetto andava via via innescando, a profondità sempre maggiori, nel tessuto istituzionale, nell’apparato produttivo e nella rete di relazioni comunicative che definiscono la società civile. Trasformazioni eterogenee, ma profondamente connesse tra loro e accomunate, in ogni caso, da un tratto del tutto evidente anche alla superficie: la centralità crescente dei parametri economici e dei meccanismi di mercato in ogni segmento significativo della vita sociale. Non si è trattato, dunque, di semplici teorie, ma di processi reali che hanno inciso profondamente, nel bene e nel male, sulla vita di milioni di persone e che, all’apice del loro successo, si sono spinti a far balenare persino il disegno di un «nuovo ordine globale».

Se confrontiamo, ora, la potenza impressionante di questi processi sociali di portata planetaria con le difficili condizioni storiche in cui ha preso forma, in origine, il nucleo fondativo del neoliberalismo, la differenza non potrebbe risultare più stridente. Non solo, in questo caso, abbiamo appunto a che fare con pure e semplici teorie, spesso talmente generali da sembrare difficilmente applicabili a una finalità pratica precisa. Per di più, almeno nella fase fondativa, si trattò di teorie maturate in condizioni di sostanziale marginalità, senza legami diretti con l’autorità politica e senza alcuna prospettiva, quindi, di poter incidere immediatamente a livello politico e sociale[3].

Non intendo, ora, enfatizzare oltre misura la condizione marginale e vagamente «eroica» dei neoliberali negli anni che, in Europa, erano dominati dallo spettro del totalitarismo. È il caso, anzi, di sottolineare che i maggiori esponenti della scuola non persero in effetti mai di vista il legame diretto con l’azione di governo, né prima del periodo bellico né, soprattutto, dopo, quando molti di loro arrivarono a ricoprire incarichi di primo piano, a diretto contatto con i maggiori artefici della ricostruzione in ambito economico. Il fatto, però, che le discussioni più incisive e gli spaccati teorici più radicali si siano consolidati proprio nella parentesi intermedia – la più drammatica e, allo stesso tempo, la più vuota di efficacia pratica – potrebbe avere avuto un peso non indifferente su quella che, dall’esterno, appare come una genesi in due tempi, separati da un relativo periodo di latenza. È a causa di questa frattura interna, ad esempio, che gli studi sul neoliberalismo esclusivamente interessati a ricostruire i processi globali degli ultimi decenni tendono, in fondo comprensibilmente, ad accantonare un prologo così remoto e così astratto. Ed è, viceversa, proprio in virtù di questa doppia genesi che la parabola del neoliberalismo, nel suo insieme, si presta a fornire la chiave ideale per un confronto speculativo con l’attualità recente, come quello che ci ripromettiamo in questa sede.

Come vedremo più in dettaglio nella prima parte della ricerca, è difficile in effetti pensare che le teorie neoliberali debbano il loro tardivo successo alla fortuna, all’efficacia della propaganda o al semplice favore delle classi dominanti. Se, delle tante impostazioni teoriche maturate nel corso del Novecento, proprio questa ha fornito il paradigma in base al quale, a conclusione della guerra fredda, la società globale si è trovata a ridefinire la propria identità, è quanto meno logico supporre che una tale impostazione sia riuscita, di più e meglio dei suoi concorrenti, a intercettare il corso degli eventi. Per essere più chiari, è lecito supporre che il neoliberalismo abbia offerto una risposta a un qualche problema profondo, di cui evidentemente non si riusciva a venire a capo in altro modo.

Se è così, è chiaro che un confronto adeguato col neoliberalismo dipenderà sostanzialmente dalla possibilità di circoscrivere con precisione il «problema» in questione, ed è proprio su questo che la sfasatura tra la prima e la seconda fase può offrire un contributo decisivo. Nella fase «operativa», inaugurata alla fine degli anni Settanta, la scena in realtà è regolarmente occupata, di volta in volta, dalle urgenze pratiche e dalle continue emergenze attraverso le quali si snoda la progressiva «neoliberalizzazione» della società. La teoria, tendenzialmente, si riduce a un arsenale tecnico, avvolto in un involucro propagandistico spesso talmente grossolano da non fornire quasi nessun indizio sul senso profondo dei processi in atto. L’impressione, anzi, è che la dimensione profonda, di anno in anno, sia avvertita sempre più come un fastidio, rimossa perciò come un ostacolo e infine sottratta alla vista non solo del pubblico, ma degli stessi attori coinvolti nel dramma.

Per ovviare a questa specie di autoaccecamento, può essere quindi decisivo chiamare in soccorso le teorie elaborate nella prima fase, in una bolla di relativo distacco dall’azione ma sotto la sferza di una catastrofe epocale ancora in corso. In questa fase, come ho già ricordato, il neoliberalismo cresce in diretto confronto con la crisi della modernità, che era all’epoca il tema dominante cui l’intera cultura europea si sentiva chiamata a reagire. Le teorie, perciò, sviluppano un respiro antropologico: si sforzano di spingere le proprie radici fino al nucleo basilare dell’azione umana e di indagare addirittura la costituzione dell’ordine cosmico, su cui poggia ogni possibile consesso civile. Cercherò di dimostrare, nelle prossime pagine, che questa dimensione antropologica del neoliberalismo è tutto fuorché un’appendice ideologica di scarso valore. È, al contrario, il solo terreno su cui possa situarsi un confronto davvero intenzionato a capire cosa stia succedendo nei nostri anni senza gloria: anni il cui marchio più evidente, come si sarà capito, è proprio la rapida ascesa del neoliberalismo, seguita a ruota dal suo attuale, irreparabile tramonto.

Solo su questo terreno è davvero possibile avvicinarsi al problema cui il neoliberalismo ha offerto una risposta: l’unica risposta, come si vedrà, che sia stata in grado di tradursi, all’atto pratico, in un congegno di governo vero e proprio, deciso a far emergere e a sfruttare le potenzialità positive dei grandi processi sociali che, da almeno un secolo, stavano erodendo le fondamenta dell’ordine civile moderno. Dovrebbe venire alla luce, così, anche quella che è stata, con tutta probabilità, la vera carta vincente del neoliberalismo: la chiave del suo potere di fascinazione, prima ancora che del suo successo politico. È l’evidente propensione a cogliere la virtuale valenza positiva degli stessi processi che i filosofi europei tendevano in quegli anni a registrare sotto rubriche come «nichilismo» o «alienazione», accentuandone così (spesso loro malgrado) la valenza più cupa e minacciosa. Il significato della «crisi», in questo modo, ne veniva capovolto o, se vogliamo, ricondotto al suo calco originario: quello di un bivio, un’alternativa, una sfida carica di incognite e di rischi, ma anche ricca di opportunità creative.

Va detto che, negli anni senza gloria, questa attitudine si è spesso atrofizzata nell’ideologia imprenditoriale più corriva, nel mito della creatività di cui si fregia un sistema di mercato sempre più dominato, in realtà, da mastodontici e ottusi agglomerati di potere. Nelle sue versioni nobili, però, lo spirito neoliberale di fatto ha contrastato con efficacia un limite uguale e contrario, di cui la letteratura sulla crisi offre fin troppi esempi: la tendenza a fissare lo sguardo quasi esclusivamente sulla scena del disfacimento dell’ordine moderno, rischiando così di trascurare i possibili segni di un ordine civile alternativo, latente forse fin da principio nella modernità, e che, sotto la spinta delle trasformazioni sociali più recenti, potrebbe essere divenuto ormai definitivamente incontenibile[4].

Mettendo a confronto, insomma, le teorie maturate negli anni fondativi, in diretta risposta alla crisi generale della modernità, e i processi reali innescati a partire dagli anni Ottanta su scala planetaria, cercheremo di portare alla luce la dimensione più profonda del neoliberalismo, ignorata per lo più tanto dai critici quanto dagli apologeti. Il che ovviamente non vuol dire affatto volerne nascondere i limiti o minimizzare il fallimento. È vero invece l’esatto contrario. La tesi che emergerà dalle prossime pagine, infatti, è che a spingere, ai nostri giorni, il neoliberalismo verso il suo inesorabile tramonto non siano le urgenze economiche o gli equilibri politici fluttuanti, ma principalmente la sua incapacità di riconoscere, capire e governare fino in fondo proprio la dimensione antropologica primaria che esso stesso ha contribuito a far emergere. La neoliberalizzazione della società, in altre parole, ha finito col generare un mondo che né le teorie, né i metodi di calcolo né le strategie politiche messe a punto dal neoliberalismo sono minimamente in grado di descrivere e capire. E non per un qualche difetto contingente, ma per un limite intrinseco, un vero e proprio «punto cieco» da cui il progetto neoliberale era segnato fin dal primo momento.

Lo scopo principale del confronto speculativo che tenteremo nelle prossime pagine è portare alla luce questo punto cieco, creando così le condizioni per una lettura alternativa della società presente, capace di muovere almeno qualche passo al di là del ristagno in cui sembra essere caduta, in questi anni, la riflessione teorica nel suo complesso. Quello che stiamo per ingaggiare, insomma, è un confronto radicalmente critico col modello di ordine civile che ha dominato gli ultimi trent’anni. Allo stesso tempo, cercheremo di evitare qualsiasi residuale nostalgia per una sedicente età «gloriosa», nella quale di fatto la crisi della civiltà moderna era già dilagante, tamponata a fatica e riconosciuta più nelle parole che nei fatti. Come in un film di genere che si rispetti, insomma, gli inglorious bastards non si trasformano affatto, alla fine, in eroi positivi. Proprio per questo hanno però qualcosa da insegnarci su noi stessi.

* * * *

Come si sarà capito, la ricerca ruota essenzialmente intorno a due interrogativi. In primo luogo: qual è il problema epocale che i neoliberali riescono a intercettare e a cogliere, con uno sguardo forse parziale e indiretto ma comunque più efficace, alla prova dei fatti, rispetto a ogni altro soggetto politico attivo, all’epoca, sullo scenario globale? E, in secondo luogo, qual è il punto cieco, il limite di questa visione, tanto profondo, a quanto pare, da condannare oggi il neoliberalismo a un inglorioso tramonto?

Per quanto si tratti, almeno in apparenza, di questioni precise e relativamente chiare, affrontarle è tutt’altro che semplice, sotto il profilo del metodo come dei contenuti. Come si è già osservato, infatti, sarebbe un’ingenuità voler estrarre una risposta convincente dalla sola analisi dei fatti, valutando ad esempio l’esito delle misure economiche e politiche promosse dal neoliberalismo, senza sforzarsi di indagare fino in fondo il progetto che andava prendendo forma alle spalle di tali misure, e su cui solo le teorie più generali possono offrire qualche indizio. Ma sarebbe altrettanto ingenuo affidare l’indagine al solo confronto astratto con le teorie a carattere più speculativo, quando in realtà solo la prova dei fatti può davvero portarne alla luce tanto l’imprevedibile efficacia quanto l’eventuale limite. La ricerca si è dovuta perciò muovere continuamente tra l’uno e l’altro polo, saltando in più di un caso da un’epoca all’altra, azzardando un continuo gioco di rimandi tra la dimensione prettamente tecnica, cui rispondono ad esempio gli odierni meccanismi di mercato, e l’orizzonte genericamente antropologico dischiuso, fin dal titolo, in opere come Human Action o Civitas humana. Per forza di cose, un procedimento del genere è costretto a situarsi in una terra di nessuno, al confine fra discipline e tradizioni culturali eterogenee, con un margine molto alto di sperimentazione, di arbitrio e di possibile errore.

Per tutte queste ragioni, è inverosimile che l’esito di un percorso così poco lineare si lasci condensare in poche tesi chiare e definite, come di norma ci si aspetta che avvenga in un’introduzione. Cercherò comunque di offrire subito, sull’uno e l’altro dei due interrogativi, qualche accenno indicativo, che potrà forse risultare oscuro in questa fase preliminare ma aiuterà quanto meno a orientarsi, poi, nella lettura vera e propria.

Per cominciare, dunque, credo si possa dire che il problema di riferimento del neoliberalismo – quello che ne fa una risposta significativa non solo a una crisi sociale o a una sfida politica, ma addirittura al disagio della civiltà moderna nel suo insieme – vada cercato in un vettore che accomuna, nel profondo, i maggiori processi sociali innescati dalla modernità avanzata. Tutti questi processi, per quanto profondamente eterogenei, convergono infatti in quella che, nella seconda parte del libro, verrà etichettata come una tendenza alla dinamizzazione dell’ordine sociale.

L’espressione va presa alla lettera, e rinvia a uno dei concetti più sfuggenti e complessi della metafisica antica, la dynamis, il cui valore semantico copre uno spettro variegato di termini affini, almeno in italiano, trattati però in genere come concetti distinti uno dall’altro: la potenzialità (o virtualità), il possibile, il potere. La formula, in breve, vorrebbe indicare la trasformazione progressiva, a partire dal tardo Ottocento, dei meccanismi cui è affidata l’istituzione dell’ordine sociale, che sono andati via via spostandosi dalla dimensione dei «fatti» veri e propri a quella delle possibilità in quanto possibilità, a monte del loro realizzarsi o meno. L’ipotesi, in parole più semplici, è che nella tarda modernità la vita collettiva abbia accentuato a tal punto il proprio carattere di possibilità, virtualità o potenza, da portare inevitabilmente il calcolo e la gestione strategica delle possibilità, delle opportunità e dei rischi al cuore di tutte le forme di vita emergenti.

Per un confronto col neoliberalismo, la specifica «dinamizzazione» dei meccanismi del mercato riveste sicuramente una centralità particolare e non è un caso, ad esempio, che, in Human Action, Mises senta la necessità di ribadire con insistenza che «i numeri applicati dagli agenti nel calcolo economico non si riferiscono a quantità misurabili» (dunque a dati reali: a «fatti», insomma, nell’accezione più corrente) «ma ai valori di scambio che – sulla base della reciproca intesa – ci si aspetta che saranno realizzati sul mercato del futuro». Il valore di mercato di un titolo o di un’impresa, in altre parole, riflette delle pure possibilità: mediate e, per così dire, «reificate» da una convenzione condivisa, che propriamente è il mercato stesso a generare[5].

Da allora ad oggi, come avremo modo di vedere, il processo designato, forse impropriamente, col termine «finanziarizzazione» non ha mai cessato di spostare progressivamente il fulcro dello scambio di mercato dalla dimensione del reale a quella del possibile, conferendo così una centralità sempre maggiore, nella formazione del valore economico, ai meccanismi convenzionali del mercato e al loro frutto più tipico: la liquidità dei titoli e dei prodotti finanziari, nel senso più ampio dell’espressione. Un processo che avremo modo di approfondire nella seconda parte del libro e che, ovviamente, non è stato inventato dal neoliberalismo, ma di cui i neoliberali hanno saputo intuire, prima e meglio di chiunque altro, l’enorme valore potenziale per l’allestimento di un vero e proprio congegno di civilizzazione alternativo a quello classicamente «moderno».

Per cogliere la valenza più profonda della dinamizzazione, è importante comunque non limitarne la portata alla sola sfera dell’economia. Nelle prossime pagine, perciò, ne seguiremo le tracce anche in dimensioni forse più vicine alla semplice vita quotidiana, come l’evoluzione della tecnica o le forme di costituzione dell’identità, sul piano individuale come su quello collettivo. Nel mondo ipermoderno, come si vedrà, ciascuno di noi è essenzialmente «il proprio poter-essere», impegnato nell’amministrazione di un ampio ventaglio di capacità, potenzialità e attitudini, che possono essere valorizzate o tacitate, volta per volta, in base alla convenienza del momento. E le comunità imperfette, che popolano una grande società pluralista e virtualmente globale, sono intrinsecamente fluttuanti, perché logicamente vincolate al calcolo strategico condotto ogni giorno dai singoli membri, e in molti casi al loro puro e semplice opportunismo[6].

Avremo modo, in seguito, di illustrare con calma i dettagli di questa ipotesi interpretativa, che al momento posso solo anticipare in forma riassuntiva e inevitabilmente criptica. Per avere comunque l’esatta misura del salto evolutivo consumatosi negli ultimi decenni, è il caso, credo, di mettere in chiaro fin da ora che, in se stesso, il peso della «potenzialità» nelle forme di vita individuali e collettive non è di sicuro il portato esclusivo di un’epoca particolare o di uno specifico modello di organizzazione civile. Almeno nei suoi lineamenti più generali, può essere anzi considerato a buon diritto un tratto genericamente umano, connesso al tipo di razionalità pratica e di attitudine cooperativa che definisce la nostra specie fin dalle tappe più antiche dell’ominazione. La vera novità, che marca in modo esclusivo l’epoca recente, è invece il crescente valore pubblico di questo primato della potenzialità: il fatto, cioè, che l’ordine sociale venga a poggiare su tale primato, anziché basarsi, al contrario, sul suo contenimento e sulla sua negazione, come regolarmente avveniva in passato. In pratica, insomma, un aspetto della natura umana che, tradizionalmente, era negato e represso come una minaccia all’ordine pubblico, tende ora a diventarne addirittura il fondamento.

Potrebbe non essere del tutto un caso che, negli ultimi anni, si siano moltiplicati gli studi sperimentali sulla razionalità strategica, basata appunto sulla valutazione incrociata e ricorsiva delle possibilità. C’è una tendenza ampia e crescente a riconoscere il valore antropologico di questo paradigma comunicativo, che non è limitata all’antropologia o alla sociologia, ma tocca anche le scienze economiche e persino le ricerche sull’evoluzione del linguaggio. Per di più, credo che tali studi recenti possano vantare un precedente illustre in un concetto che, a suo tempo, ha avuto un peso decisivo sulla genesi dell’idea di «civiltà» tipicamente moderna: quello che Hobbes definisce lo stato di natura e che, nel Leviatano, è presentato per l’appunto come un momento antropologico primario, da cui è segnata solo la nostra specie e che, in modo latente o esplicito, resta inevitabilmente al fondo di qualsiasi esperienza politica cui gli esseri umani possano accedere. E il tratto dominante dello «stato di natura», nella descrizione di Hobbes, è appunto il primato della potenzialità, l’apertura alla contingenza illimitata con cui le nostre forme di ragionamento pratico e strategico sono costrette inesorabilmente a misurarsi, perché, almeno nella sfera dell’azione collettiva, ciascun essere umano muove di fatto dal presupposto logico che tutto sia possibile.

Nella prima parte del libro, il quadro antropologico tratteggiato da Hobbes sarà esplicitamente evocato, in modo sommario ma, spero, sostanzialmente fedele. E non per trascinare la riflessione nel labirinto della storia delle idee, ma per rendere chiara fino in fondo la radicalità della svolta azzardata dal neoliberalismo. Nel Leviatano, infatti, lo stato di natura è presentato come il maggiore ostacolo alla convivenza civile, una specie di maledizione che minaccia di trascinare qualsiasi tentativo di cooperazione tra gli esseri umani nel gorgo di un conflitto senza fine di tutti contro tutti. E per un motivo assolutamente logico: perché nessuna promessa, nessun accordo, nessun patto può basarsi sul presupposto che tutto sia possibile, compreso il tradimento, la frode e l’aggressione. In condizioni «naturali», patti del genere non hanno alcun valore, e restano vuote parole, finché tra i membri della comunità non prende forma una convergenza molto più profonda, «un’unità reale di tutti loro in una sola e medesima persona», capace di porre un limite alla contingenza, di negare lo stato di natura e di renderlo di fatto inoperante, a dispetto del suo radicamento nella natura della nostra specie. La civiltà coincide appunto con questa negazione, e la sua sola garanzia plausibile, secondo Hobbes, è il potere incondizionato di un unico sovrano, ai cui decreti nessuno possa ragionevolmente opporsi senza sapere di condannarsi, in questo modo, alla completa e inevitabile rovina.

Sarebbe stato impossibile, nel libro, dare il giusto rilievo a tutte le sfumature di cui è corredata la visione antropologica e politica di Hobbes, espressa peraltro in una forma talmente chiara e netta da velarne persino, alle volte, l’effettiva complessità. Sta di fatto comunque che, per secoli, non è nata in Europa alcuna concezione politica coerente che, in un modo o nell’altro, non finisse per ricalcarne lo schema. Il liberalismo classico non fa eccezione, per quanto vi si affermi la necessità di limitare il potere sovrano, vincolandolo alla forma universale della legge. Venendo infatti alla domanda cruciale su come possano garantirsi l’affidabilità dei contratti, la fiducia reciproca dei cittadini e la loro fedeltà alla res publica, non vi si trovano, all’atto pratico, che due risposte, entrambe largamente prefigurate nel quadro hobbesiano. La prima è il ricorso al potere armato dello Stato; la seconda l’appello a un «contratto» del tutto speciale, capace di garantire da se stesso la propria inviolabilità perché vincolato a Dio, alla ragione, alla natura, insomma a quello che l’antica metafisica definiva l’ens necessarium. Un patto sacro, quindi, e perciò intrascendibile. Il problema è che, già alla fine dell’Ottocento, cominciava a farsi strada il sospetto che la crescente dinamizzazione dell’ordine sociale stesse togliendo solidità all’una e all’altra delle due risposte. Non che fossero diventate, da un giorno all’altro, del tutto inefficaci; ma il loro costo, in termini sociali, andava crescendo vertiginosamente, come sarebbe poi risultato evidente, qualche decennio dopo, con l’avanzata dei totalitarismi.

I neoliberali furono tra i primi a convincersi non solo dell’irreversibilità dell’evoluzione in atto, ma anche della necessità di affrontare il problema alla radice, spingendosi a immaginare un meccanismo di civilizzazione davvero alternativo a quello di Hobbes, che non si concepisse più come una negazione dello stato di natura ma, all’opposto, come un suo progressivo governo dall’interno. E furono gli unici, a mio parere, a tradurre questa intuizione in un progetto coerente, capace di non ripiegare, di fronte alla prova dei fatti, su una versione più o meno edulcorata della macchina sovrana messa a punto nel Leviatano.

Sappiamo già che il progetto tende a fare della dinamica concorrenziale del mercato il vero perno su cui far poggiare tutte le relazioni civili. È questo, peraltro, l’elemento di continuità con il liberalismo classico – quello di Adam Smith, per intenderci – in cui lo scambio mercantile era già eletto a paradigma di ogni vero rapporto civile, in diretta opposizione alla barbarie del vassallaggio feudale. Il punto è che, nelle forme classiche del liberalismo, questa concezione «pacifista» (e tipicamente «borghese») della civiltà tendeva in genere semplicemente a oscurare il problema di fondo sollevato da Hobbes: quello di una prima, collettiva neutralizzazione dello stato di natura, necessaria perché patti, scambi e contratti potessero avere davvero valore. La società «civile» sognata dai liberali dell’Ottocento era presentata, in pratica, come un sistema di patti basati su altri patti, di leggi fondate su leggi, senza mai veramente affrontare di petto la questione dell’ordine o della convergenza primaria, capace di esorcizzare una volta per tutte lo spettro del puro e semplice tradimento. Come vedremo, invece, nel neoliberalismo – o almeno nelle sue voci più significative – questa differenza di livelli è costantemente riflessa, anche se con accenti a volte profondamente discordanti. Un conto è l’ordine vigente, un conto l’ordine cosmico, che s’impone di fatto, in modo incontrollabile e spontaneo; un conto sono perciò i contratti, sanciti e tutelati legalmente, un conto le convenzioni, le aspettative convergenti, su cui i contratti devono poggiare; un conto sono, infine, le norme, un conto la normalità da cui le norme traggono valore, e su cui deve quindi concentrarsi l’azione di governo. Il problema del neoliberalismo è stato capire a quali condizioni il meccanismo del mercato potesse, per la prima volta, accollarsi con successo entrambi gli oneri, senza dover cedere prima o poi quello più basilare a un’istanza «sovrana» resa ormai sempre più fragile dalla crescente dinamizzazione della società.

Le strategie, come già si è accennato, furono tutt’altro che unitarie, tanto da portare, all’inizio degli anni Sessanta, a una formale spaccatura fra le due principali correnti del gruppo, destinata a non ricomporsi mai più. Entrambe le correnti, in ogni caso, erano consapevoli dell’estrema radicalità del progetto. Non solo era richiesto, infatti, che l’autorità politica accettasse di basare sulle istanze del mercato la propria legittimità, e che di conseguenza il potere militare si riqualificasse come semplice «custode della concorrenza». Ben più in profondità, occorreva che il valore economico non si riferisse più alla sola sfera della produzione in senso stretto, ma riuscisse a riflettere le scelte di vita in quanto tali, a monte della loro eventuale capacità di produrre merci e oggetti di consumo. E che, di conseguenza, la vita sociale nel suo insieme venisse ripensata e ricongegnata dalle fondamenta, fino a potersi rispecchiare interamente nella figura della valorizzazione. La vera novità di portata antropologica introdotta dal neoliberalismo è proprio questa tendenziale fusione del mercato e della vita in uno stesso paradigma: un modello di gioco comunicativo, che Mises e Hayek propongono di designare col termine «catallassi». Ed è proprio qui, come vedremo, che si affollano le opacità destinate a segnare il tramonto del neoliberalismo.

In ogni caso, considerata la radicalità del programma, non c’è da stupirsi che la prospettiva neoliberale sia rimasta a lungo ai margini tanto del mondo accademico quanto delle principali istituzioni di governo. Allo scadere dei «trenta gloriosi», però, quando cominciò a franare irreparabilmente il modello di Stato sociale che ne aveva assicurato gli equilibri, il programma neoliberale s’impose a livello globale con una rapidità e una profondità davvero stupefacenti. Per diversi motivi, presumibilmente, tra cui spicca di sicuro la capacità di pressione dei grandi agglomerati di potere, cresciuti all’ombra dei mercati multinazionali. Nelle pagine che seguono comunque, almeno a titolo di ipotesi, si accennerà anche al possibile peso di un fattore ben più elementare: l’eventualità, cioè, che, di fronte all’urgenza della crisi, nessuno sapesse, all’atto pratico, cos’altro suggerire. Del resto, gli stessi nuovi alfieri del neoliberalismo, dietro l’arroganza di facciata, avanzarono spesso a tentoni, oscillando in modo discontinuo fra i diversi orientamenti che, in passato, avevano lacerato il gruppo fondatore.

Quello che prese forma, insomma, fu un vero e proprio esperimento, aleatorio e composito, che saranno forse gli storici del futuro a ricomporre in un’immagine coerente. Qui cercheremo solo di capire fino a che punto la nuova politica della vita, lanciata su vasta scala per favorire la «neoliberalizzazione» della società, sia riuscita effettivamente a smuovere il terreno su cui poggia, da sempre, ogni consesso civile tra gli esseri umani, mettendone a nudo alcune componenti finora scarsamente conosciute. E, nello stesso tempo, cercheremo naturalmente di capire in che senso e perché l’esperimento sia fallito, avvicinandoci così al secondo dei nostri due interrogativi, quello relativo all’eventuale «punto cieco» del neoliberalismo. Nell’epilogo, infine, raccogliendo i risultati emersi sull’uno e sull’altro versante, proveremo finalmente a capire che aspetto abbia il mondo illuminato dal crepuscolo del neoliberalismo: quello lasciatoci in eredità dagli anni senza gloria, nel quale stiamo vivendo ancora adesso.

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Ho già ricordato che dynamis è un termine sfuggente, ricco di sfaccettature, che si stenta a condensare in una parola sola. Si tratta di una complessità reale, non risolvibile con qualche accorgimento lessicale, che ha un suo puntuale corrispettivo nei grandi processi che concorrono alla «dinamizzazione» della società. Può darsi che la letteratura filosofica sulla crisi della modernità abbia avuto il difetto di restare a volte troppo vaga e, forse, inconcludente: di sicuro ha però il merito di aver sempre riconosciuto la complessità e l’ambivalenza dei processi in corso, anche se questo rendeva più difficile arrivare a delle conclusioni univoche, traducibili in iniziative pratiche.

A titolo di esempio si consideri quello che è stato, con tutta probabilità, il primo tentativo «filosofico» di offrire una risposta alla crisi: la teoria della volontà di potenza che Nietzsche si sforzò, senza successo, di mettere a punto nei suoi ultimi anni di lucidità. Rileggendo, ora, gli appunti postumi di Nietzsche, ci si accorge che la maggiore difficoltà della teoria è quella di dover cucire insieme due accezioni della «potenzialità» sicuramente legate tra loro, ma di fatto sostanzialmente diverse. Da un lato, l’accezione assoluta del termine «potenza», intesa come generica forza creativa, assimilabile alla «potenza di agire» di Spinoza; dall’altro, l’accezione relativa: la potenza esercitabile su qualcun altro, che nel linguaggio ordinario è espressa in genere con la parola «potere». È chiaro che le due cose non sono equivalenti, già solo per il motivo banale che una crescita del potere relativo, all’interno di una società, si accompagna, di regola, a una maggiore dipendenza di chi il potere lo subisce, per cui il risultato include una diminuzione – quanto meno relativa – della «potenza di agire» complessiva del sistema. D’altro canto, i due aspetti non sono nemmeno del tutto scindibili l’uno dall’altro, perché nel profondo rispondono a una stessa istanza basilare: aumentare il controllo sul mondo e ridurre, così, l’incertezza, il pericolo e l’imprevedibilità del futuro.

Possono sembrare questioni astratte e, in un certo senso, lo sono di sicuro. Assumono però un’importanza decisiva, nel momento in cui la «gestione del rischio» si afferma come la voce cruciale in ogni azione di governo, ogni iniziativa imprenditoriale e persino ogni concreto tentativo di costruirsi un’identità personale stabile e dignitosa. Si può capire, alla luce di queste osservazioni, che i neoliberali abbiano dovuto misurarsi a loro volta con problemi analoghi, mettendo in campo, almeno in qualche caso, strumenti analitici affilati e tutt’altro che ingenui[7]. Presumibilmente, però, nessuno di loro disponeva di un istinto speculativo paragonabile a quello di Nietzsche. Non stupisce perciò che abbiano finito per urtare contro la medesima difficoltà, cadendoci però, stavolta, in modo cieco e, soprattutto, ben più gravido di conseguenze pratiche.

In tutta la letteratura neoliberale, ciò che funge da principio, da criterio e da scopo per l’intero congegno civile è il potenziamento della società, nell’accezione assoluta: includendovi non solo l’ottimizzazione delle capacità produttive, ma anche la creatività, l’innovazione, la crescente capacità di offrire risposte nuove e originali alle sfide proposte dall’ambiente, insomma la potenza di agire in senso lato. È in questa direzione che dovrebbero procedere, in teoria, tanto le innovazioni selezionate dal mercato quanto quelle promosse dall’azione di governo. Alla prova dei fatti, invece, a essere sistematicamente tutelate sono le forme relative della potenza, e cioè l’insieme delle relazioni di potere cristallizzate all’interno della società, che impongono la propria salvaguardia anche contro il potenziamento generale e a danno della «potenza di agire» complessiva. E questo non per un qualche errore marginale e correggibile, ma perché l’intero progetto neoliberale si nutre, in fondo, della equivoca sovrapposizione tra i due momenti.

L’asse portante di tutto il neoliberalismo è che vi siano, sostanzialmente, due sole modalità opposte di coordinazione tra gli esseri umani: da un lato, il comando, il dominio o la coercizione, dall’altro la coordinazione libera – Herrschaft e Freiheit, nel lessico degli ordoliberali – e il senso della civiltà, evidentemente, è rafforzare la libertà e combattere il dominio. Il problema è che le relazioni di potere, all’atto pratico, non coincidono con nessuna delle due caselle o, piuttosto, le includono entrambe. Fanno un uso comunicativo della coercizione, per promuovere una forma di dipendenza volontaria; e creano un tipo di asservimento che è però, allo stesso tempo, anche un genere particolare di condivisione e di scambio.

A differenza della coercizione o del puro e semplice dominio, una relazione di potere è portata, di norma, ad ampliare l’orizzonte delle possibilità e a favorire la dinamicità dei rapporti sociali. Il potere può crescere, infatti, solo se cresce la capacità di previsione e di governo delle possibilità. Condivide perciò la stessa radice profonda da cui germoglia la libertà di scelta invocata dai neoliberali, e si nutre della sua stessa linfa. Il punto è che, nelle relazioni di potere, la capacità di governo è ottenuta accentuando ad arte l’asimmetria e la dipendenza, allo scopo di rendere le scelte collettive sempre più controllabili, pur lasciandone crescere il numero e il raggio di azione. Ed è chiaro che un simile controllo può rafforzarsi solo neutralizzando la potenza di agire, atrofizzando la creatività diffusa e manipolando alla radice l’ipotetica spontaneità dei rapporti di scambio. Contrariamente a quanto lascia intendere lo schema neoliberale, a minacciare l’ordine civile non è insomma l’opposto della libertà ma il suo rovescio: la capriola con cui il governo delle possibilità si capovolge da se stesso nel controllo preventivo delle scelte, fino a esigere la garanzia dell’obbedienza e della fedeltà assoluta.

L’intreccio fra potenzialità e potere genera così un modulo comunicativo ibrido, che è insieme coercizione e scambio senza essere propriamente né l’uno né l’altro. È questo il vero punto cieco del neoliberalismo, che può trattare una simile ibridazione solo come una patologia marginale, da liquidare con gli opportuni mezzi tecnici. È quanto accade, ad esempio, con le lobby, con gli intrecci indebiti tra la politica e gli affari e, più in generale, con tutta la rete di relazioni torbide che gli ordoliberali registravano come pericolose forme di rifeudalizzazione del mercato, invocando l’urgenza di un’azione di controllo. Il problema è che i mezzi tecnici, impiegati oggi come allora a piene mani, non hanno avuto altro effetto che ampliare a dismisura questa terra di nessuno, fino a svelare una verità decisamente inquietante: che la catallassi promossa dal neoliberalismo, nella realtà dei fatti, coincide in tutto e per tutto con questa forma ibrida di comunicazione, nella quale valore e potere sono resi indistinguibili, perché il controllo preventivo delle scelte altrui ne è divenuta la misura comune.

Il risultato è condensabile in due concetti che, forse non a caso, segnarono a suo tempo il punto di massimo attrito fra le due scuole storiche del neoliberalismo: rifeudalizzazione e pluralismo. Il mondo dischiuso dal tramonto del neoliberalismo – questa, in sintesi, la tesi conclusiva – è dominato dalla tensione interna o, più precisamente, dalla bipolarità fra pluralismo e rifeudalizzazione. E, trattandosi del mondo nel quale dobbiamo vivere, credo sia bene cercare di mettere a fuoco, già in questa introduzione, almeno gli aspetti più significativi dello scenario che si sta delineando.

In primo luogo, parlo intenzionalmente di bipolarità e non di opposizione o conflitto. Oggi, in effetti, c’è una forte propensione – irriflessa ma ampiamente condivisa – a raffigurarsi la lotta fra pluralismo e rifeudalizzazione nella forma di uno scontro fra due soggetti opposti e nemici: le bandiere arcobaleno contro i drappi neri dell’oscurantismo, la civiltà contro la barbarie. Vedremo invece che il quadro è molto più contorto e che la bipolarità in questione è, di fatto, la traccia di un problema profondo, al quale, per il momento, nessuno dei soggetti in campo è davvero in grado di offrire una risposta univoca e definitiva. Di conseguenza, tutti i soggetti sono attraversati dalla bipolarità al proprio interno, anche se con esiti molto eterogenei, che possono respingere o attrarre le nostre simpatie, a seconda dei casi. Le simpatie, ovviamente, sono del tutto legittime. Purché non rendano ciechi, però, di fronte alla complessità delle cose, come avviene fin troppo spesso, invece, nelle situazioni di alta conflittualità.

Ed è fuori discussione, per l’appunto, che il tramonto del neoliberalismo comporti una drastica esasperazione dei conflitti, che può spingersi fino ad assomigliare, almeno in superficie, a una «guerra civile mondiale». A mio parere, ci sono comunque buoni motivi per aspettarsi che una tale conflittualità assoluta sia destinata a rimanere solo un lato del nuovo scenario, e per l’appunto quello più superficiale. Cercherò di dimostrare infatti che, nella sua dimensione più profonda, la stessa complessità antropologica della catallassi, che condanna il progetto neoliberale al fallimento, dischiude anche, forse per la prima volta, le condizioni generali per un tipo di alleanza politica di qualità radicalmente nuova: la sola che possa, almeno in prospettiva, lasciarsi davvero alle spalle la lunghissima crisi della modernità. A suo modo, la tradizione liberale non ha mai smesso di invocare un’alleanza di questa natura e Kant, in particolare, si è spinto al punto di sostenerne con profonda coerenza l’intrinseca necessità[8]. Eppure, un simile coronamento della civiltà è rimasto sempre solo una chimera, anche nel neoliberalismo, le cui due scuole hanno cercato entrambe, senza successo, di afferrarne la chiave.

Il termine che designa un tale orientamento ideale, nella tradizione, è cosmopolitismo, ma è importante non riferirlo solo, banalmente, a un ipotetico dissolvimento dei confini nazionali, che in se stesso non è di sicuro necessario e, probabilmente, nemmeno auspicabile. Almeno nel presente contesto, il termine va inteso invece in relazione a quello che, a mio parere, è il vero nocciolo speculativo del neoliberalismo: la distinzione tra l’ordine costituito, incardinato nelle istituzioni e strutturato nelle relazioni di potere, e l’ordine cosmico, generato spontaneamente dall’intreccio tra le scelte di vita, privo quindi di un autore e, soprattutto, irriducibile a un qualche progetto o anche solo a un calcolo preventivo.

L’intuizione più profonda del neoliberalismo – percepibile soprattutto negli autori più radicali di entrambe le scuole – è che una grande società, pluralista e virtualmente globale, possa tenersi unita solo a una precisa condizione: che il valore delle performance sociali, delle iniziative imprenditoriali e delle scelte di vita sia misurato sulla scala dell’ordine cosmico, e non dell’ordine semplicemente vigente o di quello fissato da una qualche autorità sovrana. È da questa intuizione che discende anche il passo più scabroso del neoliberalismo, quello che ne ha diretto a suo tempo la marcia trionfale e che oggi ne detta il declino. L’idea, cioè, che, a determinate condizioni, il sistema di valori generato dal mercato possa appunto svelare l’ordine cosmico ed esprimerlo in forma immediata. E che perciò non solo possa offrire il giusto riconoscimento a ogni performance, ma costituisca addirittura un polo di contropotere, portato a bilanciare e limitare il sistema degli interessi strutturati, cristallizzati e protetti dall’ordine costituito.

Oggi sappiamo per esperienza diretta (e non per un qualche pregiudizio ideologico) che i meccanismi del mercato sono intrinsecamente inadeguati a un tale compito. Tendono anzi regolarmente a produrne il rovescio. Quanto più a fondo le tecnologie di calcolo, misurazione e valutazione penetrano nella vita sociale, tanto più questa «vita» è messa al servizio delle relazioni di potere, schiacciando così l’ordine cosmico sull’ordine costituito. Vedremo, nella seconda parte del libro, quante e quali siano le opacità interne di un simile rovesciamento, che oggi sta appunto segnando il tramonto del neoliberalismo. In se stessa, però, l’intuizione di base non ne viene minimamente compromessa: viene anzi a indicare un compito inevaso, e perciò tanto più urgente. Di fronte alla crescente corporazione dei poteri, uniti nel comune obiettivo del controllo preventivo delle scelte, l’esigenza primaria resta infatti quella di dare espressione a un genere di contropotere che solo un’alleanza a carattere cosmopolitico è in grado di mobilitare.

Per di più, lo scatenamento della dinamizzazione, che negli ultimi decenni non ha più avuto freni, ha fatto emergere effettivamente le condizioni materiali perché l’ipotesi di una simile alleanza esca dal limbo delle astrazioni e acquisti dei lineamenti concreti. La prima di queste condizioni, come si vedrà, è il carattere radicalmente convenzionale dei processi di formazione del valore. La seconda è il definitivo superamento dell’antica distinzione tra il lavoro in senso stretto e l’azione in generale: tra un genere di attività produttiva, e perciò meritevole di figurare come un contributo al benessere sociale, e l’insieme delle attività vitali e comunicative che, per quanto significative, non generano di fatto un qualche prodotto misurabile e scambiabile e quindi, secondo i parametri tradizionali, non dovrebbero «meritare» una valutazione. Vedremo con calma, nel libro, in che senso queste due condizioni vadano considerate l’eredità più significativa della «neoliberalizzazione» della società, e perché le si debba ritenere il presupposto indispensabile per un’alleanza cosmopolita nel senso più proprio del termine. Al momento, mi limito a osservare – per inciso – che si tratta di aspetti della società ipermoderna particolarmente invisi alle forze politiche più rispettabili e tradizionali, che non hanno mai smesso di rimpiangere il bel mondo «moderno» di una volta e i suoi valori, rifiutandosi ostinatamente di riconoscerne la crisi, anche a costo di negare l’evidenza.

È evidente, in ogni caso, che da un genere di alleanza come quella che è qui in questione siamo al momento, di fatto, lontanissimi. Il fallimento del progetto neoliberale di un nuovo ordine globale e la crisi gravissima dell’Unione Europea non sembrano aver generato, finora, che un inasprimento delle forme di dipendenza neofeudale e un’accentuazione dei conflitti. Se e quando sarà mai lecito aspettarsi un’inversione di tendenza, e quali forme istituzionali avranno davvero la forza di innescarla, sono domande che sarebbe davvero ingenuo voler affidare a un’indagine speculativa. La filosofia, si sa, non fa miracoli. Per riprendere, anzi, una colorita espressione di Hegel, non fa nemmeno «uscire un cane da dietro una stufa». Può succedere, ovviamente, che abbia qualche effetto pratico e, nel profondo, un po’ si spera sempre che ciò accada. Ma di sicuro non è questo il suo compito.

Un’indagine speculativa, a suo modo, è una specie di testimonianza, un tentativo di ritrarre il proprio mondo, non troppo diverso da un testo letterario o da un buon film. L’unica differenza di rilievo è che, in questo caso specifico, si cerca apertamente, e con un minimo di metodo, di commisurare la propria forma di vita alla forma della vita in generale, per arrivare a farsene un’immagine esemplare. Non perché ci si aspetti, da questo, una speciale illuminazione, ma perché, semplicemente, è questo uno dei presupposti necessari per cercare di condurre una vita decente. A quanti condividono questo obiettivo esistenziale minimo, senza essere per questo filosofi di professione, spero che il libro possa offrire qualche spunto di riflessione e, magari, un paio d’ore di piacevole lettura.


NOTE
[1] Cfr. M. Benasayag, G. Schmit, Les passions tristes, La Découverte, Paris 2006 (trad. it. L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2007).
[2] La frase è di Leopold von Ranke.
[3] È difficile farsi un’idea dell’obiettiva marginalità in cui operavano all’epoca i neoliberali, se ci si limita a considerare il caso fortunato di Friedrich von Hayek, che ottenne fin da principio un ampio riconoscimento accademico in Gran Bretagna e negli Stati Uniti e fu perciò in condizione, negli anni successivi, di animare una fondazione influente come la Mont-Pèlerin Society. Il quadro cambia però notevolmente se si guarda alla biografia di altri autori, sicuramente non meno carismatici. Alexander Rüstow, ad esempio, concepì le sue opere maggiori negli anni dell’esilio a Istanbul. E Ludwig von Mises, al suo sbarco negli Stati Uniti, considerò seriamente l’ipotesi di cercare lavoro come portiere d’albergo.
[4] Questo limite interno della letteratura filosofica sulla crisi è stato recentemente approfondito, in chiave critica, in R. Esposito, Da fuori. Una filosofia per l’Europa, Einaudi, Torino 2016. Nello stesso contesto Esposito insiste anche, a più riprese, sulla necessità di un pensiero “affermativo” per rispondere alle sfide connesse alla parabola del neoliberalismo.
[5] Cfr. L. von Mises, Human Action, Fox & Wilkes, San Francisco 1963 (trad. it. L’azione umana, Rubbettino, Soveria Mannelli 2015), p. 210. È il caso di osservare che, per contestare il determinismo dell’economia neoclassica, Mises ricorre qui a una distinzione concettuale che, qualche decennio più tardi, si riproporrà a più riprese nelle scienze storiche e sociali “postmoderne”: la distinzione tra fatti ed eventi storici. I rapporti di scambio espressi dai valori monetari, a suo giudizio, sono appunto “eventi” (e non fatti), irripetibili e complessi, la cui valutazione ha inevitabilmente un carattere strategico e convenzionale.
[6] Avrò modo di chiarire più tardi, a conclusione della prima parte, il senso in cui va intesa, in questo libro, l’espressione «comunità imperfetta». Cfr. infra, pp. 129 sgg.
[7] Un esempio, in proposito, è la distinzione concettuale tra il rischio calcolabile e l’incertezza radicale, messa a punto da Frank Knight, che fu anche vice-presidente della Mont-Pèlerin Society.
[8] Cfr. I. Kant, Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht, in Id., Gesammelte Schriften, Akademie-Ausgabe, Berlin 1902 (trad. it. in Scritti di storia, politica e diritto, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 29-44).
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