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Diario economico-politico – Primo Maggio

di Christian Marazzi

Ciclo, bolle e comune. Un articolo di Peter Coy e Roben Farzad apparso sul settimanale BloombergBusinessweek (“The Bubble This Time”, 18-24 aprile) ripropone, “come se il 2008 non fosse mai accaduto”, il tema delle bolle finanziarie, del loro ruolo all’interno del ciclo capitalistico e, aggiungiamo noi, il loro rapporto con il comune. Un altro articolo di Ashlee Vance, sempre sullo stesso numero di BB (“Are social Netweorks Gonna Blow?”), analizza il lascito, ossia quel che resterà dopo l’esplosione della bolla dei social media consumer-oriented. “Once again, 11 years after the dot-com-era peak of the Nasdaq, Silicon Valley is reaching the saturation point with business plans that hinge on crossed fingers as much as anything else. We are certainly in another bubble. And it’s being driven by social media and consumer-oriented applications” (…) “It’s a safe bet that sometime in the next 20 months, the capital markets will close, the music will stop, and the world will look bleak again”.

Cerchiamo di riassumere per punti:

1) Dopo l’esplosione della bolla dei subprime, i mercati globali sembrano oggi una coppa di champagne piena di bollicine. Robert Shiller, economista professore alla Yale University (che aveva previsto con largo anticipo la bolla internettiana e quella successiva dell’immobiliare), ha calcolato che lo Standard & Poor’s 500-stock index rappresenta 23 volte i guadagni normalizzati degli ultimi 10 anni, mentre la media storica è di 16 volte. Secondo Doug Nolan, del Federated Prudent Bear Fund, “I fear this is the granddaddy of them all, an almost-encompassing bubble right at the heart of monetary systems”;

2) Secondo alcuni analisti, il rischio di bolla va ascritto alla politica monetaria della Federal Reserve, ai tassi d’interesse troppo bassi e alla quantitative easing (agevolazione quantitativa, ossia l’acquisto di buoni del Tesoro in grandi quantità da parte della Fed per aumentare la liquidità in circolazione), all’origine di guadagni speculativi a breve termine ovunque ciò sia possibile (“What we have created is beyond moral hazard”). Il rischio di bolla è tanto più grave quanto più le ferite dell’ultima bolla dei subprime non si sono  rimarginate, in particolare la disoccupazione, considerata da alcuni ormai “strutturale”, ma anche il mercato immobiliare statunitense, che non si è ripreso (anzi!) malgrado gli stimoli keynesiani dell’amministrazione Obama (vedi Floyd Norris, “No shortage of distress in housing”, International Herald Tribune, 1 aprile-1 maggio). Secondo l’Economist (“What’s wrong with America’s economy”, 30 aprile-6 maggio), i problemi della debole e lenta ripresa dell’economia americana sono di natura strutturale (finanza pubblica mal gestita e, in particolare, mercato del lavoro incapace di assorbire forza-lavoro poco qualificata), salvo poi suggerire una politica monetaria “without excessive short-term tightening”. Paul Krugman, dal canto suo (“The intimidated Fed”, IHT, 30 aprile-1 maggio), sotiene che il vero problema sta nel continuare a perseguire politiche monetarie espansive per debellare il vero problema, la disoccupazione appunto, senza preoccuparsi del rischio inflazione che, in realtà, non esiste, dato che l’aumento delle materie prime non è di tipo speculativo,  ma dipende dall’aumento della domanda dei paesi emergenti (e questo è probabilmente vero, nella misura in cui le scorte di materie prime sono diminuite dall’estate scorsa, il che significa che non sono state “tesaurizzate”, come accade nel caso degli acquisti speculativi);

3) In prima approssimazione, si può sostenere che il rapporto tra ciclo capitalistico e rischio di bolla è di tipo circolare, si avvita cioè su se stesso: le misure di stimolo, in particolare quelle monetarie, per uscire dalla recessione non sono efficaci. La ripresa è dunque destinata ad essere debole per parecchio tempo (vedi Giovanni Rickenbach, “Quanto durerà il ciclo economico USA?”, La RegioneTicino, 26 aprile). Nel frattempo, le politiche monetarie (creazione di liquidità e tassi d’interesse) creano le condizioni per l’apparizione di bolle finanziarie, dato che la liquidità creata non entra nel circuito economico (il credito all’economia è ancora relativamente contenuto, gli investimenti in capitale fisso molto bassi, per non parlare degli investimenti nella forza-lavoro, che ovunque sta conoscendo una compressione salariale e una crescente instabilità occupazionale), ma resta all’interno dei mercati finanziari. L’aumento dei tassi d’interesse, ad esempio in Cina o nella zona-euro, non fanno altro che alimentare il carry trade, il processo speculativo che si basa sui differenziali dei tassi (dai più bassi ai più alti), un processo che aumenta il riscxhio di crisi monetaria (se la fed dovesse a sua volta aumentare i tassi d’interesse, vi sarebbe un ritorno di capitali sugli USA, con effetti devastanti sulle monete dei paesi a tassi d’interesse oggi più elevati);

4) E’ in questo circolo vizioso tra ciclo e bolle che occorre concentrare l’attenzione. Secondo Alberto Martin, della Universitat Pompeu Fabra di Barcellona, “bubbles are the price we pay for vigourous growth”. Le bolle finanziarie sono, insomma, il “motore della crescita” capitalistica, di una “régulation par les crises”, per dirla con i regolazionisti francesi: “Rising prices induce more hiring and investment. That generates even higher prices, and so on in a virtuous upward spiral”. Non è certo il caso di essere troppo ottimisti sulla capacità delle bolle di creare occupazione e investimenti, semmai è vero il contrario, e cioè che le bolle fungono da traino della crescita distruggendo occupazione e rallentando gli investimenti, originando quel processo a forbice tra tasso del profitto (in crescita negli ultimi trent’anni) e tasso di accumulazione (mediamente piatto nelle stesso periodo). Nella “pop-economy”, la crisi, l’eslosione delle bolle, è ormai considerata consustanziale alla crescita stessa (“It’s comical that we think we can regulate away future recessions or crises – sostiene James W. Paulsen della Wells Capital Management -. It’s scary to the extend that if we do, we will cruch the essence of capitalism, which is basically greed and animal spirits”). Le fasi delle bolle sono 6: 1) l’apparizione di una opportunità d’investimento; 2) l’espansione del credito; 3) l’euforia; 4) l’apprensione, la sofferenza (distress); 5) l’inversione della tendenza (revulsion); 6) il panico. Nel capitalismo finanziario, le bolle sono quindi destinate a ripetersi , in particolare in questo ciclo capitalistico: “Notons que jusqu’à maintenant, la crise a été principalement de nature financière et bancaire, Les autorités publiques ont réussi à la controler grâce au maniement vigoureux de l’arme monétaire. Pour le dire simplement, elles ont noyé les difficultés sous les liquidités avec l’aide active des banques centrales. Cependant, aujourd’hui, la masse des liquidites ainsi produites associées à la croissance vertigineuse des dettes publiques fait entrer la crise dans un nouveau stade où la question de la valeur des monnaies arrive sur le devant de la scène” (vedi André Orléan, “La crise, moteur du capitalisme”, in Le Monde, 30 marzo 2010);

5) E’ possibile individuare la prossima bolla? Come detto, secondo chi lavora all’interno della Silicon Valley, la bolla dei social networks è prossima all’esplosione. Da qualche tempo, però, eravamo convinti che il settore delle energie rinnovabili era il candidato più probabile alla bolla post-subprime. Difficile dirlo, dipende molto dai processi contagiosi tra gli investitori che si sviluppano sui mercati e sui movimenti autoreferenziali (autonomizzazione dei prezzi degli attivi relativamente ai valori sottostanti) che tipicamente caratterizzano le dinamiche delle bolle finanziarie. Ma il punto, mi sembra, è un’altro, e cioè: al di là dei disastri economici e sociali che ogni bolla lascia dietro di sé (fallimenti a catena, processi di concentrazione del capitale, disoccupazione, povertà, insomma i “costi umani della crisi” di cui parla Luciano Gallino nel suo Finanzcapitalismo, Einaudi, 2011), quale è il rapporto tra bolle finanziarie e commons? A me sembra che questa sia la domanda da porsi per meglio chiarire quell’intreccio tra riformismo e rivoluzione (o pensiero radicale) di cui parlava Benedetto Vecchi nella sua recensione al libro di Gallino su il manifesto (“L’uomo economico”, 23, 04) e che Toni Negri e Michael Hardt non hanno mancato di problematizzare nel loro Comune. Oltre il privato e il pubblico (Rizzoli, 2010). Mi rendo conto che si tratta di una questione di metodo, quindi relativamente poco importante a fronte di possibili e imprevedibili esplosioni di lotte su scala planetaria. Ma, dal momento in cui, da tempo ormai, abbiamo individuato nella dinamica del comune un “luogo” in cui investire politicamente per “fare composizione di classe”, dal momento in cui la natura stessa del capitalismo cognitivo-finanziario ci costringe ad andare oltre l’alternativa tra beni privati e beni pubblici, interrogarsi sul rapporto tra bolle (e la loro immanenza) e commons mi sembra necessario in una prospettiva di lunga durata.

6) Nell’articolo citato di BloombergBusinessweek si distingue tra bolle buone e bolle cattive: “One reason it’s hard to pick between the bubbles-are-bad and bubbles-are-OK camps is that bubbles aren’t all alike. The best ones create assets whose value survives the crash. The Apollo program that put people on the moon, only to lose public support in the 1970s, was a ‘social bubble’ in which over-optimism advanced science (…) Bad bubbles generate worthless assets such as exurban subdivisions that are taken by squatters and mold”. Anche se le bolle finiscono sempre per far male, insomma, quel che conta è il loro lascito, per così dire. “In the 1980s, the rise of Microsoft, Compaq, and Intel puched personal computers into millions of businesses and homes – and the stcks of those companies soared. Tech stumbled in the late 1980, and the Valley was left with lots of cheap microprocessors and theories on what to do with them. The dot-com boom was built on infatuation with anything web-related. Then the correction began in early 2000, eventually vaporizing about $6 trillion in shareholder value. But that cycle, too, left behind an Internet infrastructure that has come to benefit businesses and consumers. This time the hype centers on more precise ways to sell”. La distinzione tra bolle buone e bolle cattive, va detto, non si limita all’evoluzione delle sole tecnologie dell’informazione e della comunicazione, dato che i commons si possono trovare o, meglio, possono essere prodotti, ovunque all’interno di un modo di produzione, quello post-fordista in particolare, che ha nelle “esternalità positive” e nel ricorso alla dimensione sociale-cooperativa-relazionale e linguistica della forza-lavoro la leva stessa della sua crescita e delle sue innovazioni (su questo rimando ancora al libro di Negri e Hardt, dove ci sono dei capitoli molto acuti sulla “corruzione dei commons” e sugli spettri di commons giacenti ad esempio nella metropoli o nella finanza stessa, che possiamo chiamare il “cattivo comune” per eccellenza). Diciamo che la distinzione tra bolle buone e bolle cattive attiene alle infrastrutture (…assets whose value survives the crash) che il ciclo delle bolle genera per la produzione dei commons. Ciò che allarga la sfera dei commons e delle sue possibilità è intrinseco alla dinamica stessa delle bolle: nella fase ascendente, il capitale attinge ai commons per la sua stessa crescita, ma nella fase discendente, nelle crisi, il crollo dei valori azionari lascia dietro di sé delle infrastrutture (la cui sovrapproduzione comporta sempre forti riduzioni dei prezzi), dei sistemi operativi, delle teorie, degli algoritmi che preparano la nuova ondata di interconnettività, cooperazione, scambi di saperi, relazioni, salti linguistici ecc.. Riferito ai commons, alla loro evoluzione all’interno del ciclo capitalistico, il problema della composizione di classe, come ben sappiamo, riguarda la capacità o meno di produrre auto-determinazione, “attivo sottrarsi”, esodo, istituzioni del comune, coalizioni, forme di democrazia orizzontale e partecipata, ecc. In questo processo, l’orizzonte rivendicativo definisce la dimensione riformista del nostro agire, mentre le forme istituzionali del comune definiscono la dimensione rivoluzionaria, radicale, del nostro stesso agire. Ad esempio, nella fase attuale, a me sembra che la rivendicazione del “diritto alla bancarotta” (a questo proposito si veda l’ottimo articolo di Gigi Roggero) definisca quell’orizzonte “riformista” (o di “transizione”) di cui abbiamo bisogno e di cui, peraltro, si parla con sempre maggior insistenza sui mercati finanziari nei termini della “ristrutturazione del debito sovrano” (che significa nient’altro che ridurre, e di  molto, i debiti pubblici contratti con le banche tedesche o francesi) per uscire dal pantano della crisi dei debiti sovrani. Ma un simile terreno di ricomposizione di classe deve necessariamente essere collettivo, istituzionale, per certi versi esemplare, deve cioè produrre dei luoghi di organizzazione democratica in cui far crescere in modo duraturo pratiche militanti di costruzione di questo stesso diritto alla bancarotta.

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