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moneta e credito

Il neomercantilismo tedesco alla prova della guerra*

di Joseph Halevi

Questa breve nota di riflessione cerca di cogliere le possibili conseguenze del conflitto russo-ucraino sulle prospettive di sviluppo di lungo periodo dello spazio economico che abbiamo definito blocco tedesco. Dopo un excursus storico che ne descrive la formazione, vengono esaminate le caratteristiche dei paesi che lo compongono, osservando che le forze dinamiche che lo caratterizzano si proiettano particolarmente verso la Cina, con un ruolo cruciale della Russia

1 E vTjwVmh2LtciX4rp7GVgIn questa breve nota di riflessione tratterò alcuni aspetti dell’economia tedesca nell’ambito europeo, cercando di cogliere le possibili implicazioni delle rotture causate dal conflitto russo-ucraino sulle prospettive di lungo periodo che si andavano delineando nell’ambito di detta economia e della zona con cui è direttamente connessa.

A tal fine verrà descritto uno spazio economico che chiameremo blocco tedesco, termine privo di qualsiasi connotazione politica, utilizzato solo per definire un livello di rapporti settoriali e di scambio molto più interconnessi della semplice egemonia economica.

La nota inizia con un excursus storico il cui obiettivo consiste nel definire il passaggio dall’egemonia della Germania in Europa alla formazione di un gruppo di paesi ad essa strettamente connessi.

In tale quadro verranno esaminate le caratteristiche di alcuni stati dell’Europa orientale. Verrà poi osservato che le forze dinamiche del blocco tedesco si proiettano particolarmente verso la Cina, ma che tale proiezione non può essere mantenuta senza il coinvolgimento della Russia. In tal caso si renderebbe possibile una crescita europea trainata dalle esportazioni nella maniera concepita da Nicholas Kaldor.

Dopo aver sottolineato che recenti studi effettuati in Germania mostrano piena consapevolezza del problema, la nota si conclude con una visione piuttosto pessimista a causa della guerra russo-ucraina.

 

  1. Dall’egemonia della Germania al blocco tedesco: le fasi

La Germania raggiunse l’egemonia economica sull’Europa Occidentale nell’arco del decennio 1969-1979, sancita dalla formazione del Sistema Monetario Europeo (SME) alla fine del 1978 per iniziativa franco-tedesca (Parboni, 1981; Valli, 1981).

Tale sistema era basato su un meccanismo di cambio denominato Exchange Rate Mechanism (ERM), teso ad incanalare le monete dei paesi della CEE verso un insieme di tassi di cambio fissi. La sterlina britannica vi aderì molto tardi, nel 1990, due anni prima del crollo dello stesso SME.

Il contesto dell’epoca era caratterizzato da due fenomeni: inflazione elevata, con ritmi molto diversi tra i vari paesi europei; una notevole fluttuazione del dollaro, in ascesa dal 1979 al 1985 e poi nuovamente declinante.

In questo contesto la Germania fu il paese che, sin dagli anni Settanta, più si impegnò a mantenere basso il tasso di inflazione, anche a scapito della propria crescita economica e che quindi diventò maggiormente dipendente dalla dinamica delle esportazioni e dalla capacità di realizzare sostanziali eccedenze nette nel conto corrente della bilancia dei pagamenti. La formazione dello SME col suo meccanismo di cambio creò una salda cintura protettiva intorno alla Germania, ossia, più specificatamente, intorno alla politica finanziaria di Bonn, allora capitale della Repubblica Federale, diretta ad ottenere sistematicamente dei surplus esteri netti.

Appartenendo infatti ad un sistema orientato verso cambi fissi all’interno della CEE, la Germania, avendo uno dei più bassi tassi di inflazione in Europa, vedeva rivalutarsi le monete degli altri Stati, soprattutto quelle dei tre maggiori paesi: Francia, Italia e Spagna. In tal modo la produzione industriale tedesca acquistava dei vantaggi dal lato della competitività in termini di prezzo senza che le sue imprese fossero, in alcun modo, costrette a cambiare le strategie di markup e quindi di accumulazione oligopolistica.

Lo SME svolse per la Germania un ruolo fortemente protettivo anche nei confronti della fluttuazione del dollaro, in quanto impediva agli altri paesi europei di ottenere dei vantaggi rispetto al marco tedesco. Infatti quando con gli accordi del Plaza a New York – raggiunti nel settembre del 1985 dal gruppo dei cinque principali paesi riguardo alla riduzione dei tassi di interesse – il dollaro riprese il sentiero della svalutazione, i paesi europei esibirono in poco tempo delle riduzioni nei saldi attivi con gli Stati Uniti, il cui deficit estero corrente si spostò verso i rapporti commerciali col Giappone, con la Corea meridionale e con altri paesi del sud- est asiatico.

La riduzione dei saldi attivi con gli USA colpì anche la Germania, tuttavia la posizione tedesca all’interno delle CEE risultò rafforzata grazie allo SME. La decade 1980-89 si concluse con la Germania Federale che raggiungeva il più elevato livello di saldi netti rispetto al PIL registrato fino ad allora. E dire che il decennio era cominciato proprio male, con il secondo shock petrolifero aggravato dalla forte rivalutazione del dollaro e dall’aumento dei tassi di interesse decretato da Volcker, presidente della Federal Reserve.

Possiamo affermare che l’egemonia della Germania significava principalmente l’accumulazione di surplus esteri nei confronti del resto dell’Europa. Accumulazione garantita dall’ordinamento monetario costituito dallo SME. È pertanto comprensibile la preoccupazione espressa da Romano Prodi (1990) in un saggio, apparso sulla BNL Quarterly Review, circa l’effetto destabilizzante della persistenza e dell’ampliamento dei surplus esteri della Repubblica Federale. La Germania riusciva a far funzionare lo SME in suo favore grazie alla concentrazione industriale e, come sottolineato da Prodi, grazie alla saldatura tra grandi imprese e sistema bancario. L’elemento centrale che permise alla Germania di beneficiare dello SME nonostante gli shock petroliferi, gli alti saggi di interesse reaganiani e la svalutazione del dollaro, fu la forza del settore dei beni di capitale tedeschi.

Un saggio dell’epoca di Elvio Dal Bosco (1992), dirigente dell’ufficio studi della Banca d’Italia e studioso dell’economia tedesca, mostrò come, al 1989, il surplus commerciale tedesco fosse composto prevalentemente da esportazioni nette nel settore dei beni di investimento, mentre l’eccedenza nelle esportazioni di beni industriali intermedi risultava quasi annullata dal deficit nelle importazioni di materie prime e prodotti agricoli.

Inoltre, un lavoro francese dello stesso periodo (Schneilin e Schumacher, 1992) riscontrò per gli anni 1980-89 la prevalenza della crescita del settore dei beni di capitale sul resto dell’industria, in un clima piuttosto stagnante se rapportato alle considerazioni di allora, che ancora avevano come riferimento una piena occupazione stabile, vale a dire senza posti di lavoro precari e/o con contratti di sotto-occupazione.

 

  1. La duplice rottura

Il crollo nell’autunno del 1989 della Germania orientale – l’allora Repubblica Democratica Tedesca (RDT) – portò nell’arco di tre anni alla crisi dello SME, il cui ordinamento faceva gravare il peso degli aggiustamenti sui paesi più deboli dal lato della bilancia dei pagamenti: Italia, Spagna, Portogallo e Regno Unito – entrato nello SME sulla base di una sterlina volutamente sopravvalutata.

Così, quando la Bundesbank innalzò i tassi di interesse per frenare le spese pubbliche derivanti dall’assorbimento della regione orientale, i summenzionati paesi deboli si trovarono scoperti di fronte alle speculazione finanziaria, e lo SME si sgretolò in due riprese: nel 1992 e nel 1993. Anche la Francia sarebbe stata tra i paesi deboli – e infatti il franco fu messo sotto pressione – se non fosse sopravvenuta una dichiarazione congiunta della Bundesbank e della Banque de France concernente la difesa a oltranza della parità tra il franco francese e il marco. Nel frattempo erano caduti tutti i regimi est europei, era avvenuta la dissoluzione dell’Unione Sovietica e si stava violentemente disgregando la Jugoslavia. Le spese connesse all’assorbimento della ex RDT, nonché la rivalutazione del marco che seguì allo sgretolamento dello SME, fecero perdere alla Germania l’avanzo di parte corrente che così assiduamente Bonn era andata accumulando per tutto il decennio, al punto da congelare sia la Repubblica Federale che, soprattutto, il resto della CEE in una configurazione stagnazionistica dal punto di vista occupazionale.

A questo punto la Germania si trovò ad affrontare due problemi: (a) riconquistare il saldo netto sull’estero – obiettivo sempre prioritario nella politica dell’esecutivo, pienamente condiviso da decenni tanto dalle associazioni industriali quanto dai sindacati –; (b) rilanciare su una base modificata i rapporti economici con l’est europeo e con la Russia e le sue aree di influenza.

Il primo obiettivo fu raggiunto dopo circa un decennio, intorno al 2002, tre anni dopo il varo dell’eurosistema. Il tasso di cambio di entrata del marco nel paniere delle monete che formarono l’euro avvenne tramite una svalutazione considerevole della moneta tedesca, soprattutto rispetto a paesi quali Italia, Spagna e Portogallo.

Assieme ai tassi di interesse in ribasso il nuovo assetto del cambio implicito – e pertanto immutabile – aiutò la posizione estera della Germania, in particolar modo nei confronti dell’Italia. La creazione della moneta unica chiuse definitivamente il fronte occidentale, eliminando il pericolo di possibili svalutazioni competitive e di crisi nella bilancia dei pagamenti dei paesi deboli, anche per via della creazione nell’ambito dell’eurosistema del meccanismo di clearing europeo TARGET.

Dati i vincoli monetari e di bilancio che spingevano – e tutt’ora spingono – verso l’aggravamento della stagnazione, resa endemica dal livello di maturità economica oligopolistica (Sylos Labini, 1962), l’Europa occidentale non era più un grande affare per le industrie tedesche. È vero che essa rimaneva lo spazio principale sia per l’ammontare del flusso di esportazioni lorde che per il livello di surplus netto realizzato; tuttavia, la dinamica ivi contenuta era ormai ridotta rispetto alla capacità produttiva del sistema economico tedesco.

L’Europa orientale poteva invece presentare prospettive assai diverse, a patto di effettuare gli opportuni investimenti. L’Europa orientale non era affatto uno spazio chiuso e ignoto alle società tedesche: già nel 1980 Bonn copriva la maggioranza delle importazioni effettuate dal Comecon (l’associazione commerciale dei paesi socialisti) al di fuori del proprio blocco, quota che aumentò ulteriormente e in maniera considerevole nel corso di quel decennio.

Negli anni del crollo del sistema socialista, benché l’area stesse subendo un’implosione produttiva, i quadri industriali e politici della Germania erano convinti, più che in qualsiasi altro paese occidentale, che l’est europeo avesse le capacità scientifiche e tecniche per sviluppare delle sinergie con la Germania, purché la composizione e specificazione merceologica della produzione venisse mutata in funzione delle aziende tedesche, che avrebbero inevitabilmente guidato il processo di integrazione. Il livello di industrializzazione e di istruzione della popolazione erano tali che l’Europa orientale poteva diventare, come in effetti è diventata, la destinataria dei processi di ristrutturazione dell’industria tedesca, dalla quale avrebbe ottenuto le nuove tecnologie e nuovi macchinari, possedendo inoltre la capacità industriale di integrarle e di produrre ulteriori beni di capitale.

Contrariamente al periodo sovietico, i beni di investimento dovevano essere finalizzati alla produzione di un insieme di beni corrispondenti alle esigenze dei mercati di consumo di Germania ed Europa occidentale, in un processo guidato direttamente dalle imprese tedesche, sia acquistando, ristrutturandoli, gli impianti dei paesi dell’est, sia creando filiere di produzione dipendenti.

Paesi come la Repubblica Ceca, la Slovacchia e l’Ungheria, appoggiati dalla Germania, si incamminarono su questa strada riuscendo, malgrado lo shock economico iniziale causato dal crollo dei loro regimi, ad evitare il peggio, cioè la terapia d’urto patrocinata dalle istituzioni internazionali sulla spinta di economisti come Jeffrey Sachs dell’Università di Harvard e dalla stessa amministrazione statunitense.

Diverso fu invece il percorso della Polonia, colpita in pieno, assieme alla Russia, dalla terapia d’urto promossa in loco da Jeffrey Sachs in persona. La Polonia subì un trauma economico con disoccupazione alle stelle e deficit commerciale, sia globale che specificatamente con la Germania. Tuttavia anche per la Polonia la via di uscita dalla crisi, che negli anni ’90 del secolo scorso sembrava aver causato un arretramento definitivo del paese, risiedeva nell’integrazione con la Germania. Tale processo di integrazione si accelerò con l’avvicinarsi della data di accesso del paese nell’Unione Europea nel 2004, avvenuta, come per la Repubblica Ceca e l’Ungheria, senza entrare nell’eurosistema e beneficiando dei contributi basati sui fondi strutturali dell’Unione Europea.

Una buona indicazione dell’intensità dell’integrazione della Polonia con la Germania si può evincere osservando l’evoluzione dei rapporti commerciali tra i due paesi in confronto a quelli tra la Germania e l’Italia. Ancora nel 2005, anno successivo all’entrata della Polonia nell’Unione Europea, l’import tedesco di merci dalla Polonia rappresentava, in valori correnti, meno della metà di quello dall’Italia (fonte: banca dati dell’ONU Comtrade). Nel 2021, grazie ad una crescita sistematica, l’import della Germania dalla Polonia superava il livello delle importazioni effettuate da Berlino nei confronti dell’Italia. Ugualmente dicasi per l’export tedesco, il cui flusso verso la Polonia nel 2021 superava il flusso verso l’Italia. In tal modo i 38 milioni di cittadini e residenti polacchi hanno per il commercio estero tedesco un ruolo economico più importante dei 59 milioni di cittadini e residenti italiani, malgrado il reddito pro capite polacco sia ancora di gran lunga inferiore a quello italiano.

 

  1. Eurozona, strutturazione del blocco tedesco e spinta dinamica euroasiatica

Pur non includendo unicamente i membri dell’UE, l’esistenza di un blocco tedesco è assai rilevante nell’ambito dell’Unione Europea, nonché nel contesto del ruolo che l’euro svolge per la Germania. Il blocco si configura in due parti. La parte occidentale è composta dalla Germania stessa insieme ai paesi che la circondano: Austria, Svizzera, Belgio e Olanda. Osservati da vicino, i rapporti commerciali di questi paesi con la Repubblica Federale ci informano che le suddette nazioni sono sostanzialmente regioni della Germania, con l’Olanda che assume una connotazione particolare per la sua trasformazione in piattaforma logistica europea e mondiale.

Ricordando quanto siano importanti per la Germania sia i flussi delle esportazioni che i saldi netti, notiamo che Austria e Svizzera sommate – 18 milioni di abitanti – costituiscono la maggiore destinazione dell’export tedesco, una situazione che dura da qualche decennio.

Nella graduatoria per paese dei partner commerciali della Germania formulata da Destatis, gli Stati Uniti con 334 milioni di abitanti sono il primo paese, recentemente lo era ancora la Francia, nel valore dell’export tedesco che nel 2021 ammontava a 122 miliardi di euro (fonte: banca dati federale Destatis, Wiesbaden). Lo stesso anno l’export tedesco verso le due piccole nazioni alpine sommate è stato di oltre 132 miliardi. Tuttavia Austria e Svizzera sommate non sono in testa per ciò che riguarda il livello del saldo della bilancia commerciale tedesca, posizionandosi dopo gli USA e la Francia. Ciò è dovuto al loro altissimo e capillare livello di integrazione con la Germania da cui importano ed esportano moltissimo.

La Svizzera ha un’elevatissima densità tecnologico-industriale ed è dotata anche di importanti imprese tecnologiche per l’aeronautica, come la statale militar-civile RUAG, e ciò la trasforma in un’importante fonte di domanda di beni di capitale. Per l’Austria vale lo stesso discorso, con la precisazione che il paese si caratterizza per una rete diffusa di industrie non grandi, ma ad elevata tecnologia. Il Belgio è un po’ come la Svizzera ma con la ruggine, nel senso che ha subìto una significativa deindustrializzazione che ne ha rallentato la dinamica. Il Belgio non ha un deficit permanente con la Germania essendo la sua industria altamente connessa con quella tedesca. Un ruolo particolare assume l’Olanda, completamente integrata anch’essa alla Germania ma in maniera diversa, non essendo fonte di eccedenze commerciali. Ciò è dovuto alla trasformazione del paese in un hub logistico mondiale tramite il porto di Rotterdam. Mediamente l’Olanda ha un passivo commerciale con gli USA e un surplus commerciale con la Germania; è pertanto un punto focale di passaggio delle merci dirette in Germania e provenienti dalla Germania.

Questi sono i paesi più avanzati del blocco in termini di reddito pro capite. Inoltre secondo l’indice di complessità economica elaborato annualmente ad Harvard1 – che definisce la capacità dell’industria di generare tecnologie e di diversificare le esportazioni – Svizzera, Germania e Austria occupano rispettivamente il secondo (dopo il Giappone), terzo e sesto posto nella classifica della complessità.

L’altra parte del blocco è composta da paesi dell’Europa orientale – Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Slovenia e infine Polonia – tutti imperniati sulla Germania, mentre il resto dell’Europa è sostanzialmente residuale. In Repubblica Ceca e in Slovacchia, l’industria meccanica è funzionalizzata al settore automobilistico tedesco, che ne domina la produzione industriale. La Slovacchia ha una dimensione quasi monoproduttiva, dovuta proprio a questa industria. Prima della crisi del Covid-19 la Repubblica Ceca – con 10,5 milioni di abitanti – produceva un milione e mezzo di autoveicoli in fabbriche appartenenti alle multinazionali tedesche dell’auto. Idem per la Slovacchia, che con una popolazione di 5,5 milioni di persone ne produceva oltre un milione, sempre marche tedesche. L’economia ungherese è principalmente collegata all’industria dei beni industriali di consumo, come frigoriferi, televisori, condizionatori, aspirapolveri e simili.

Malgrado la loro stretta funzionalizzazione alle esigenze dell’industria tedesca – col rischio di diventare quasi monosettoriali come la Slovacchia – tre paesi dell’est europeo ricoprono una posizione elevata nell’indice di complessità economica: la Repubblica Ceca è sesta, mentre l’Ungheria e la Slovacchia appaiono rispettivamente in decima e quattordicesima posizione (l’Italia è quindicesima).

L’influenza dell’insieme del blocco sul traffico commerciale tedesco si riassume nel fatto che i suddetti otto paesi con una popolazione intorno a 105 milioni di persone hanno assorbito nel 2021 il 33% delle esportazioni tedesche mentre hanno coperto oltre il 34% del valore delle importazioni. Complessivamente l’area non è fonte di grandi surplus commerciali per la Germania che li ottiene con l’Austria, la Svizzera e la Polonia, mentre è in deficit con gli altri componenti del gruppo, in particolare con la Repubblica Ceca, la Slovacchia e l’Ungheria.

L’importanza della zona consiste prevalentemente nelle relazioni intersettoriali che la caratterizzano, volte nel complesso a sostenere e ad aumentare le capacità di esportazione sia dell’insieme del blocco che della Germania stessa, sfruttando opportunità dinamiche.

Cerchiamo ora di individuare le fonti da cui scaturisce la dinamicità export oriented verso est del blocco tedesco. In prima fila si colloca l’alta capacità tecnologica e di produzione di beni di capitale, che ha permesso di tenere testa alla concorrenza durissima, ormai pluridecennale, da parte del Giappone, della Corea del Sud e di Taiwan. Accanto troviamo la Cina, e questo grazie alla presenza delle grandi aziende tedesche, – dalla Volkswagen alla Siemens alla Thyssen – sin dai primi anni che seguirono il lancio delle quattro modernizzazioni da parte di Deng Xiaoping nel 1978. Le aziende tedesche hanno fatto da battistrada, partecipando alla ristrutturazione e modernizzazione dell’industria siderurgica della Repubblica Popolare – la cui produzione di acciaio, merce base naturale, ora sorpassa il miliardo di tonnellate annue (l’India, con quasi lo stesso numero di abitanti della Cina, è secondo produttore mondiale con circa 100 milioni di tonnellate2). Quando poi sono sopravvenute le riforme introdotte da Deng Xiaoping agli inizi degli anni ’90, la Cina è diventata per la Germania un polo di sviluppo in continua espansione. Nell’ultima decade del secolo scorso, le grandi aziende tecnologiche e di beni di capitale come Siemens parteciparono allo sviluppo delle ferrovie cinesi, specialmente alla costruzione del collegamento Pechino-Lhasa, capitale del Tibet. Si trattò di una vera e propria epopea, attuata con 100 mila lavoratori su un tracciato di 3700 km che passava attraverso centinaia di chilometri di paludi, di zone di permafrost ad altitudini dai 3500 a quasi 5000 metri. L’obiettivo era anche di costruire un asse di sviluppo con effetti di crescita e di diramazione nei territori contigui.

Date queste premesse storiche, non deve sorprendere che l’elemento più interessante e importante dei rapporti economici tra la Germania e la Repubblica Popolare Cinese risieda nelle esportazioni della prima verso la seconda e nei rapporti strutturali joint venture che si realizzano tra i due paesi. Oggi la Cina è il primo partner commerciale della Germania. Data la dimensione stagnante dell’Europa nel suo complesso, il vero asse dinamico è costituito dalle esportazioni verso la Cina. Se prendiamo come anno di riferimento il 2005, cioè l’anno immediatamente seguente all’entrata dei paesi dell’est nell’Unione Europea, e utilizziamo la banca dati dell’ONU Comtrade, il valore in dollari dell’export mondiale di merci della Germania, è cresciuto, al 2021, del 67%, mentre verso la Cina è aumentato 4,5 volte. Nello stesso periodo, l’export verso la Cina della Francia e dell’Italia, pur essendo più che triplicato, ha esibito una crescita assai inferiore rispetto a quello tedesco.

Per i paesi del blocco tedesco, l’accorpamento con la Germania ha contribuito ad una vera esplosione delle esportazioni verso la Cina, dato che è la Germania a fare non solo da battistrada ma a creare le interconnessioni settoriali e tra le imprese che stimolano l’export degli altri paesi del gruppo. Sul versante occidentale l’export diretto in Cina dell’Olanda è cresciuto, rispetto al 2005, di almeno 5 volte, e quello della Svizzera di 12 volte – facendone il secondo esportatore europeo – mentre le tendenze di Belgio e Austria sono state assai più contenute. Dal lato orientale, le esportazioni verso la Cina sono aumentate rispetto al 2005 di cinque volte e mezzo per la Polonia, di sei volte per l’Ungheria, di circa dieci volte per la Repubblica Ceca, di quasi 21 volte per la Slovacchia. È vero che questi paesi sono deficitari nell’interscambio con la Cina, ma la dinamica delle loro esportazioni è un dato strutturale connesso ai legami con la Germania.

La conseguenza naturale di tale processo è la formazione di un’area economica euroasiatica, una vera e propria necessità per la Cina sia per l’approvvigionamento di materie prime dalla Russia, sia per la creazione di assi di sviluppo ferroviari attraverso Russia, Kazakhstan, Ucraina. Nell’ultimo decennio sono stati realizzati i primi convogli di treni merci dalla Cina a Dortmund, fino in Olanda, che sono stati persino pubblicizzati dal Financial Times.

I tedeschi avevano, almeno nei circoli industriali, l’intenzione di creare sinergie tra Cina, Russia, Kazakhstan, Ucraina e quindi Europa, Germania. Vale a dire, delle sinergie tra paesi e grandi aree integranti logistica, produzioni ed esportazioni energetiche (Russia, Ucraina, Kazakhstan) e importazioni di beni industriali sia dalla Cina che dalla Germania. Le ferrovie tedesche possiedono un’importante società di logistica, la DB Schenker, che studia la problematica in maniera approfondita.

Sempre in Germania sono stati prodotti dei lavori assolutamente originali riguardo le connessioni del sistema euroasiatico (Pepe, 2018). In questa crisi, preservare la fruibilità dello spazio euroasiatico – e quindi dei rapporti della Russia con l’Europa – è vitale per la Cina, la quale si sta accollando i costi per mantenere in funzione i trasporti ferroviari con la Germania e l’Olanda, ora in bilico (Tabeta, 2022). È vitale anche per la Germania e il suo gruppo (Halevi, 2019). In prospettiva – astraendo dalla crisi in atto causata dal conflitto russo-ucraino e russo- americano – la validità della proiezione euroasiatica della Germania e il suo blocco dipende dai rapporti con la Russia. Una proiezione che sia soltanto un collegamento tra Cina ed Europa saltando lo spazio intermedio – o usandolo solo come transito – finirebbe per avere il respiro corto. Malgrado la notevolissima espansione delle relazioni economiche tra la Cina e il gruppo tedesco – in cui il lubrificante principale, almeno dal lato europeo, è costituito dalle importazioni energetiche dalla Russia e dalla scioltezza dei pagamenti ora bloccati – tali sinergie non hanno rotto la cappa stagnazionistica che grava ormai da decenni sull’Europa. Di conseguenza, il processo teorizzato da Nicholas Kaldor (1966) di crescita aggregata trainata dalle esportazioni lorde – Kaldor non parlava di politiche neomercantilistiche – è ampiamente realizzabile nello spazio euroasiatico, ma non stava decollando.

Ed è solo dal gruppo tedesco nei suoi rapporti con l’Eurasia, quindi congiuntamente con Russia e Cina, che è possibile immaginare concretamente il lancio di una nuova export led growth, necessario per allontanare il declino e la stagnazione.

Gli altri grandi paesi europei – come la Francia, l’Italia, la Spagna – non hanno le capacità produttive, di investimento e di progettazione – né dispongono di idee, forza e autorità – atte ad effettuare il coordinamento tra i vari paesi. La valorizzazione effettiva dello spazio euroasiatico richiede però la formazione, in Russia e negli spazi ex sovietici, di una serie di hub e assi di sviluppo regionali, altrimenti, come correttamente osservato recentemente (Pepe, 2021), l’integrazione basata su due poli estremi come Europa e Cina, può trasformarsi in una concorrenza al ribasso. Oggettivamente la Russia è essenziale non solo come fornitrice di prodotti energetici, ma anche e soprattutto come area di sviluppo.

Tutto ciò sta diventando una chimera. La rottura con la Russia è radicale ed è altamente improbabile che Mosca ritorni o possa ritornare allo status quo ante. L’Europa da sola – compreso il gruppo tedesco, il cui dinamismo effettivo non risiede nel vendere Volkswagen in Francia né nel trafficare in scartoffie elettroniche alla City di Londra – è uno spazio senza dinamica, con disoccupazione, precarietà, impoverimento.

 

  1. Conclusioni

La guerra russo-ucraina non sarà keynesiana, non certo per l’Europa che, dal lato occidentale, subisce invece la stragrande maggioranza dei contraccolpi derivanti dalla interruzione della fluidità dei rapporti monetari e reali con la Russia. L’Europa viene colpita dalla decurtazione dei redditi – quindi della domanda che tali redditi esprimono – della popolazione occupata e dei pensionati, causata dalla nuova inflazione. La rottura con la Russia cambia inoltre le prospettive concernenti lo spazio euroasiatico e le aspettative ad esse associate. Negli ultimi anni l’export italiano andava perdendo trazione nei confronti della Germania che va spostando le sue importazioni verso i paesi dell’est. Dato che la Francia non può rappresentare in alcun modo un fattore di coagulo alternativo, la crisi delle prospettive euroasiatiche non può che ripercuotersi negativamente sull’Italia. In genere le industrie italiane, specialmente le piccole e medie aziende della meccanica – avendo le grandi abbandonato il campo da tempo ormai (Gallino, 2003) – riescono a inserirsi assai bene in processi guidati da forze effettive e sostanziali. In Europa l’azione delle forze facenti perno sulla Germania faceva emergere, non senza ombre soprattutto dal 2014, l’Eurasia come un nuovo orizzonte di sviluppo che, invece, si sta trasformando in una chimera. La situazione della crisi politico-militare non permette di individuare nuovi sbocchi.


* Da V. 75 N. 298, giugno 2022

Riferimenti bibliografici
Calendario Atlante De Agostini 2022, Novara: Istituto Geografico De Agostini, 2021.
Dal Bosco E. (1992), “La Grande Germania fra Est e Ovest”, Rivista di Storia Economica, 9 (3), pp. 249-53. Gallino L. (2003), La scomparsa dell’Italia industriale, Torino: Einaudi.
Halevi J. (2019), “From the EMS to the EMU and...to China”, INET Working Paper, n. 102, New York: Institute for New Economic Thinking; disponibile alla URL: https://www.ineteconomics.org/uploads/papers/WP_102- Halevi.pdf
Kaldor N. (1966), Causes of the Slow Rate of Economic Growth of the United Kingdom. An Inaugural Lecture, London: Cambridge University Press.
Tabeta S. (2022), “China opens wallet to keep trans-Eurasian express moving”, asianikkei.com, 28 marzo, disponibile alla URL: https://asia.nikkei.com/Spotlight/Supply-Chain/China-opens-wallet-to-keep-trans-Eurasian- express-moving
Parboni R. (1981), The Dollar and Its Rivals, London: Verso.
Pepe J.M. (2018), Beyond Energy: Trade and Transport in a Reconnecting Eurasia, Wiesbaden: Springer Verlag. Pepe J.M. (2021), Value Chains Transformation and Transport Reconnection in Eurasia: Geo-economic and Geopolitical
Implications, New York: Routledge.
Prodi R. (1990), “The economic dimension of the new European balances”, Banca Nazionale del Lavoro Quarterly Review, 43 (173), pp. 139-154.
Schneilin G. e Schumacher H. (1992), Economie de l’Allemagne depuis 1945, Paris: Armand Colin. Sylos Labini P. (1962), Oligopolio e progresso tecnico, Torino: Einaudi.
Valli V. (a cura di) (1981), L’ economia tedesca: la Germania Federale verso l’egemonia economica in Europa, Milano: Etas Libri.

Note
1 https://atlas.cid.harvard.edu/rankings
Fonte: Calendario Atlante De Agostini 2022, p. 200.

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