Il meraviglioso mondo del lavoro deregolamentato
di Jean-Luc Debry
Al momento in cui la «gestione sociale della crescita» non viene più ritenuta necessaria per il buon andamento degli «affari», il lavoro creatore di valore finanziario - parzialmente ridistribuito nel quadro delle politiche socialdemocratiche di ispirazione keynesiana - diventa un modello che, sotto la pressione di una devastante mutazione capitalista, i poteri pubblici si sforzano di sopprimere nel nome dell'indispensabile adattamento alle necessità della «globalizzazione felice»[*1]. Allo stesso tempo, l'obiettivo enunciato e perseguito, con tutti i mezzi possibili, consiste nel ripristinare il processo di creazione del valore comprimendo, da un lato, la massa salariale attraverso l'intensificazione delle politiche di austerità, e dall'altro per mezzo del prelievo fiscale sulle imprese, fino a ridurlo ad un modesto contributo necessario al mantenimento dell'ordine (polizia, magistratura, esercito). Tutto questo si basa, politicamente, sulle aspirazioni ideologiche degli strati medi, superiori ed intermedi della società.
Attraverso la formazione ed il "coaching", le riunioni ed i rituali di iniziazione, l'ideologia manageriale moltiplica gli incantesimi relativi al pragmatismo [*2]. Fa appello al buon senso dei lavoratori salariati affinché questi rinuncino ai loro «privilegi» (sic) e si diano anima e corpo alla «cultura aziendale 4.0» per guadagnare in performance seguendo i precetti dello «Human Inside» [*3].
Questo discorso manageriale - che si basa sul collocare «l'Uomo al centro di tutto» inculcandogli uno «stato d'animo volontaristico» ed una «mentalità da vincitore» - mira, in ultima analisi, a sottometterlo, con il suo consenso, all'ordine delle cose imposto dalla logica capitalistica del nostro tempo. A questo si accompagna un cambiamento maggiore di paradigma in quella che è una pratica sociale (il lavoro) sempre più spersonalizzata (benché fortemente individualizzata) - e in tutto quest'affare, questo non è sicuramente il più piccolo dei paradossi. Senza pietà e senza compassione, i perdenti vengono abbandonati sul ciglio della strada. Tutti coloro che, sempre più numerosi, «non sono niente», non indossano abiti firmati, vengono definiti «analfabeti», tutti coloro che non possono contribuire in un modo o nell'altro alla creazione del valore verranno considerati, in ultima analisi, come superflui ed inevitabilmente colpevoli di esserlo. Gli esclusi e gli emarginati di tutti i tipi si trovano allora di fronte alla prospettiva di «creare la loro propria scatola». Poiché, e su questo non ci sbagliamo, l'evoluzione strutturale ci ancora, in Europa e negli Stati Uniti, ad un avvenire post-industriale in cui le occupazioni produttive sono destinate a scomparire insieme alla chiusura dei siti industriali o alla riduzione drastica degli effettivi a coloro che, anno dopo anno, rimarranno. Applicando la parola d'ordine della Giovane Guardia dell'Efficienza, l'ufficio di collocamento ed i consulenti per la riclassificazione consiglieranno senza dubbio agli «operatori», quei naufraghi dei quali alla fine avranno più bisogno, sia per diventare, secondo uno «spirito da start-up», «auto-imprenditori»[*4], sia si prendere in considerazione una formazione di assistenza domiciliare, sia di diventare factotum per i fortunati residenti che vivono in una zona privata e sicura, sia di proporsi come locatori di servizi e di camere con vista per i turisti che visitano i parchi a tema che sono diventati i grandi siti dedicati al loro tempo libero, soprattutto i centri storici e, nella stagione estiva, la riva del mare. Saranno quindi dei lavoratori stagionali definitivamente precari condannati, inoltre, a divenire mobili in funzione dei bisogni del «mercato del lavoro». Quelli che saranno sfuggiti ai vari piani sociali e alle ristrutturazioni aziendali dovranno quindi ritenersi «fortunati» e, di conseguenza, ritenersi soddisfatti di quelle che saranno le loro condizioni.
Con il toyotismo, che è un compromesso fra la corsa al guadagno di produttività e la gestione finanziaria dei flussi, i principi del metodo della "produzione snella" [*5] hanno permesso alle organizzazioni industriali, attraverso tutta una serie di corsi di formazione, di metodi e di procedure, di ottenere il concorso degli operai stessi (riqualificati come «operatori») per «per ottimizzare permanentemente il loro posto di lavoro». In altre parole, per accrescere la loro produttività. Questo ha giustificato un trasferimento di responsabilità tecniche (processo, manutenzione e gestione dei materiali di consumo), dalla gestione qualitativa della produzione (auto-controllo, conformità ai modelli), e dalla produttività pura (tasso di rendimento sintetico) ed «umana» - per quanto siano degli interinali da inquadrare - verso il personale di produzione, attribuendo a tale passaggio i ritardi ed i malfunzionamenti generali a causa dell'impostazione stessa. A sentire i proseliti, sarebbe stato questo il mezzo per «valorizzare». In parallelo, la messa in atto del "Just in time" e della produzione secondo il flusso ha teso ad aggiustarsi alla domanda «in tempo reale», diventando le condizioni necessarie per accelerare la rotazione del flusso finanziario e, soprattutto, ha permesso di ridurre considerevolmente lo spazio di stoccaggio, e quindi di ridurre le somme immobilizzate necessarie all'acquisizione e alla manutenzione di tale spazio. La logica dei flussi delle merci rappresenta una delle maggiori scommesse nella ricerca dell'aumento della redditività. È questo il motivo per cui la moltiplicazione delle piattaforme logistiche viene spesso presentata, da parte delle autorità pubbliche, come una soluzione «per l'occupazione».
Amazon ci offre uno scorcio abbastanza agghiacciante di quelle che saranno le condizioni del lavoro nel mondo "new-look" della logistica globalizzata. «Ci si traveste per Halloween e a volte si invitano dei magni in sala ricreazione... Si distribuiscono Smileys ai dipendenti del mese...»[*6]. In attesa che un giorno, indubbiamente vicino, questi depositi logistici vengano interamente automatizzati, il lavoro viene controllato fino all'assurdo. Il minimo dettaglio viene analizzato, tutti i gesti vengono decomposti, ottimizzati in maniera quasi ossessiva. Delle telecamere sorvegliano ogni movimento, tracciando ogni andirivieni. In nome della performance, il tempo di spostamento che intercorre fra due azioni viene cronometrato , misurato, calibrato. Formata per questo, una gerarchia insidiosamente pressante, molesta, valuta il comportamento del personale. Il buono, e ancor di più, il cattivo spirito dei lavoratori salariati trattati come delle macchine che vengono stanati, ricompensati e sanzionati in un infantilizzante gioco di incoraggiamento-punizione. In nome del valore lavoro, i manutentori si accaniscono a soddisfare dei «clienti» che ordinano i loro pacchetti dalla loro poltrona, meravigliandosi per il «progresso» che quest'epoca offre a coloro che sognano solo la «felicità».
Più moderni, sempre più moderni, e in uno stile ostentatamente informale, gli "start-up", adepti della smaterializzazione, costituiscono una sorta di "lavori in corso" - alcuni lo chiamano un «laboratorio delle nuove forme di lavoro». Quello della modernità post-salariale, insomma. Mathilde Ramadier dipinge un ritratto agghiacciante di questo management «del vuoto», dal quale emergono solo ambizione e mediocrità [*7]. Universo basato sull'atteggiamento, annaffiato da una neo-lingua - che va maneggiata con convinzione - laddove i pomposi titoli dei post celano a mala pena la violenza poliziesca delle relazioni gerarchiche perfettamente chiuse a doppia mandata. Vi regna una forma particolarmente ipocrita di ricatto affettivo. I contratti non superano i tre mesi e «l'assistente talent manager» è uno stagista. Se le caramelle e le birre servono da compensazione infantile, questo avviene «perché le risorse umane restano in ufficio il più a lungo possibile». In questo meraviglioso mondo in cui «la cultura del "LOL"»[*8] permette, va da sé, di non remunerare gli straordinari, la prospettiva di «avere delle scadenze» (in ritardo) fa parte, come stress, dell'esaltazione generale di tutta un generazione di start-urp(er) felici.
L'universo altamente ideologizzato dell'«impresa» diventa quello dell'ingiunzione paradossale [*9]. Per mezzo del "reporting" (la mania della relazione) e dei vincoli burocratici degni del Big Brother di Orwell, l'espansione delle nuove tecnologie in quanto mezzi di controllo in «tempo reale» è dominata dalla «necessità imperativa» di un pensiero positivista ed utilitarista che, come prova di adesione alla cultura del «mercato», venga ostentato attraverso i comportamenti quotidiani (interviste, riunioni di servizio ed in sala ricreazione). I metodi di gestione obbedienti a delle procedure che mescolano affettività e strumenti di gestione ad essa associati, pongono continuamente i dipendenti di fronte a delle ingiunzioni paradossali, fino al punto di far loro perdere perfino il senso di ciò che fanno.
In un contesto simile, il lavoro ormai viene pensato e vissuto come una «attività di servizio» che avrebbe bisogno di un adattamento rapido e permanente alle nuove condizioni che gli sono state imposte: disponibilità, flessibilità, produttività continuamente in crescita, adattamento a cambiamenti continui, instabilità cronica, importanza delle procedure, modifica continua delle regole e degli organigrammi, riduzione del mezzi ed accrescimento degli obiettivi, ricomposizione capitalistica, acquisto e vendita di tutto o parte delle unità di produzione e di gestione, fusioni e riconfigurazioni. Tali sono i contorni di questo neo-sistema di sfruttamento che ci viene venduto come un modello di organizzazione flessibile e modellabile all'infinito.
Caratterizzato da un'instabilità cronica e da una concorrenza a volte feroce e spesso strisciante [*10], questo cambiamento strutturale implica necessariamente una trasformazione profonda dei rapporti sociali, i cui effetti di natura antropologica si rivelano psicologicamente distruttive per gli interessati. Lo attesta, ad esempio, lo sviluppo del narcisismo come sintomo di normalità e di adattamento alle nuove esigenze produttive.
Allo stesso tempo, questa «rivoluzione copernicana» rende obsoleto qualsiasi inquadramento politico e sociale del lavoro attraverso una legislazione che cerchi di equilibrare i rapporti di forza fra il committente (già «datore di lavoro») ed il fornitore (già «il salariato»). Ormai si tratta di perturbare il meno possibile il ciclo di produzione e di consumo su cui si basa la circolazione dei suoi flussi di valorizzazione del valore.
Nota a margine
La volontà manifesta del moderno legislatore tende ad adattare la legge - come sostengono i partigiani di quest'operazione - ai cambiamenti dei rapporti sociali della produzione globalizzata. Trasformando la vendita socialmente determinata della «forza lavoro» in un'azione commerciale basata su una relazione consensuale (di tipo «cliente-fornitore», il moderno legislatore tiene ovviamente conto del rapporto di forza attuale fra il capitale ed il lavoro, particolarmente sfavorevole per il secondo, e allo stesso tempo cerca di ratificare la sconfitta storica delle forze che erano schierate sotto le bandiere della difesa degli interessi dei lavoratori salariati, e le cui lotte costituiscono la storia del movimento operaio. Nel movimento di rifiuto in cui - si spera - si impegneranno gli eredi di tale storia, poiché - e questa è moneta corrente - una volta in ginocchio, è certo che verrà bastonato il cane che affoga. Quando si conosce la violenza del risentimento che anima i sostenitori della deregolamentazione a 360°, il loro fissarsi sull'immagine del capro espiatorio (il sindacalista, il pigro, il dubbioso,...), non c'è bisogno di avere delle doti divinatorie particolarmente acute per immaginare che lo Stato e la Confindustria non si faranno sfuggire una così bella occasione per farla finita con ogni forma di resistenza collettiva. Perciò, quel che è in gioco davanti ai nostri occhi è la continuazione - assai aggravata - di quel che è cominciato con il precedente governo «di sinistra». Sappiamo con quale brutalità la polizia abbia represso le manifestazioni della primavera del 2016 contro la "loi El Khomri", e c'è da scommettere che farà meglio [*11]. Sperando che, sul terreno della resistenza, siano state tratte le conclusioni relativamente alle ragioni delle sconfitta dello scorso anno.