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Reddito e salario: la vera posta in gioco

di Marta Fana e Simone Fana

Per il blocco neoliberista il principale problema del Reddito di cittadinanza è di essere troppo generoso rispetto alle retribuzioni italiane. Emerge allora il vero oggetto dello scontro: continuare a svalutare il lavoro

Salario minimo Differenza tra reddito minimo garantito e salario minimoDa mesi si parla dei due cavalli di battaglia dell’ultima legge di stabilità: quota 100 e Reddito di cittadinanza. L’audizione alla Commissione Lavoro del Senato sul decreto legge 4/2019 che li introduce si è dimostrata la sede privilegiata in cui vengono scoperte le carte delle parti sociali chiamate a esprimersi. È stato in quel momento infatti che i veri nodi politici sono venuti al pettine: il problema principale del Reddito di cittadinanza è di essere troppo generoso rispetto ai salari italiani: la distanza tra i due è minima e questo comporterebbe che i lavoratori potrebbero rinunciare ai magri salari preferendo il sussidio.

In particolare, Tito Boeri, presidente (in scadenza) dell’Inps, spiega che «secondo i dati Inps, quasi il 45% dei dipendenti privati nel Mezzogiorno ha redditi da lavoro netti inferiori a quelli garantiti dal Reddito di cittadinanza» e che pur considerando il 50% dei trasferimenti meno generosi questi rimangono più alti «dei redditi da lavoro del 10% più basso della distribuzione dei redditi da lavoro». Sulla stessa barricata si trova Confindustria, preoccupatissima della potenziale riduzione dell’offerta di lavoro da parte dei poveri disgraziati, accusa il «livello troppo elevato del beneficio economico. I 780 euro mensili che percepirebbe un single, privo di altro reddito dichiarato, potrebbero scoraggiarlo dal cercare un impiego, considerando che in Italia lo stipendio mediano dei giovani under 30, al primo impiego, si attesta sugli 830 euro netti al mese: 910 al Nord (820 per i non laureati) e 740 al Sud (700 per i non laureati)».

La critica, avanzata dal blocco liberista italiano, che si estende al Pd e a Carlo Calenda, è nei fatti infondata dal momento che il Reddito di cittadinanza obbliga i lavoratori ad accettare una delle prime tre offerte di lavoro a prescindere dalla retribuzione, pena la decadenza del diritto al sussidio. Tuttavia, la psicosi provocata dal decreto mette in chiaro quello che fin qui in molti non avevano voluto vedere: l’oggetto dello scontro in atto non è il reddito in sé, ma il diritto del padronato italiano a perseverare nella svalutazione del lavoro e dei salari. Bassi sono e bassi devono restare altrimenti addio competitività.

Sono proprio loro, i liberisti, a sbatterci in faccia la realtà: la competizione delle imprese italiane si basa storicamente, e dai primi anni Novanta sempre più intensamente, proprio sulla compressione del costo del lavoro. Meccanismo che deresponsabilizza le imprese dagli investimenti in innovazione, in qualità, permettendogli di rimanere a galla sul mercato. Da qui nasce la costante richiesta di sgravi fiscali, avallata dai governi che si sono succeduti fino all’attuale. Rivendicazione che Pierangelo Albini, Direttore Area Lavoro, welfare e capitale umano di Confindustria, ci tiene a riproporre anche in sede di audizione sul Reddito di cittadinanza: «pur nella consapevolezza che la domanda di lavoro dipende principalmente dalle condizioni dell’economia, si possono prevedere incentivi efficaci che incoraggino le imprese ad assumere gli individui che si stanno cercando di inserire al lavoro». La riduzione del costo del lavoro non basta mai e allora bisogna scongiurare l’aumento dei salari.

 

Salari da fame

Stando ai dati dell’Eurostat, in Italia nel 2014, le retribuzioni mediane lorde non superano i 12 euro l’ora, il 10% dei lavoratori ne guadagna massimo 7. La politica di compressione salariale generalizzata ha nella storia italiana recente i suoi snodi storici, come quel lontano 1992 di cui si è parlato nel primo numero di Jacobin Italia. Una politica salariale che però si è scagliata solo ed esclusivamente sulle fasce basse dei redditi da lavoro, quelle che prima hanno subito il ricatto tra ristrutturazione e delocalizzazione e che proprio in seguito agli accordi del 1993 hanno visto l’istituzionalizzazione della politica dei redditi. Come riportato dai ricercatori Bloise et al. «fino al 1992 le retribuzioni reali crescono per tutti i percentili, anche se in misura fortemente differenziata, favorendo i redditi più alti; dopo tale periodo, i lavoratori che si collocano nel 75% più alto della distribuzione dei redditi mantengono il loro tenore di vita reale, mentre la coda bassa della distribuzione sperimenta una cospicua caduta dei redditi reali, […] Rispetto al valore del 1985, nel punto di minimo (che si verifica nel 2012) le retribuzioni reali di tali due percentili si riducono di 35 e 20 punti percentuali, rispettivamente». La drammaticità dei dati riportati sottostima la giungla retributiva associata alle decine di contratti atipici: dai tirocinanti alle finte partite iva, dagli stagisti a tutti coloro obbligati a lavorare gratis, dallo Stato o dal ricatto padronale.

Tuttavia, solo un’analisi settoriale del mercato del lavoro ci consente di inquadrare le tendenze di medio periodo che spiegano la riduzione dei salari in Italia. In un recente studio dell’Ocse la compressione della quota salari sul reddito nazionale si ricollega a due fattori precisi: da una parte la liberalizzazione del mercato del lavoro e dall’altra la riduzione sistematica del reddito da lavoro nel settore pubblico. Tendenze che si affermano, come detto, nel primo decennio del millennio, con le politiche di flessibilizzazione del mercato del lavoro in entrata e in uscita, garantita rispettivamente dalla possibilità di assumere con contratti precari, da un lato, e dalla riduzione dei vincoli sui licenziamenti, dall’altra. Due processi che creano le condizioni per imporre continue ristrutturazioni nell’organizzazione della produzione e che peseranno sui rapporti di forza tra capitale e lavoro. A cui si aggiunge la riduzione della spesa pubblica con il conseguente blocco del turn over nella pubblica amministrazione. In questa fase le imprese italiane possono contare su misure di riduzione del costo del lavoro come leva di controllo del ciclo economico. Come emerge dall’analisi sull’andamento dei comparti produttivi fatta dall’Istat il periodo post-crisi è segnato da una contrazione del valore aggiunto generato dall’impresa manifatturiera (con una perdita del 4,4% contro una crescita del 14,5% in Germania nel periodo dal 2009 al 2014) e da un progressivo slittamento dell’occupazione dall’industria ai servizi. La crescita delle ore lavorate nei settori dei servizi a basso valore aggiunto (alloggi, ristorazione) va di pari passo con la crescita di fasce di lavoro povero, che solo nel 2016 vede circa 4 milioni di lavoratori coinvolti in rapporti di breve durata. Se la caduta dei salari nel settore privato è l’esito di una politica di espulsione di forza lavoro dai settori più dinamici fino ai segmenti più poveri, la spirale dei salari è particolarmente evidente nella contrazione dell’occupazione e dei redditi nel settore pubblico. Le politiche di blocco del turn over consolidate dal 2011 hanno ampliato la forbice tra la forza lavoro occupata nella pubblica amministrazione in Italia rispetto al resto delle economie avanzate a cui si aggiunge un processo di precarizzazione dei rapporti di lavoro interni alla pubblica amministrazione e di esternalizzazione che trae la sua ragion d’essere proprio dalla svalutazione salariale.

 

I salari seguono produttività e ideologia dominante

Poche credenze hanno avuto tanto successo quanto quella che attribuisce all’alto costo del lavoro la responsabilità della bassa dinamica della produttività dell’economia italiana e alla scarsa produttività l’esigenza di ridurre il costo del lavoro. Come un cane che si morde la coda. Una tesi sostenuta dai governi che si sono succeduti nella Seconda Repubblica e che è diventata una verità incontestabile nel dibattito pubblico. Un vero e proprio mantra con cui le classi dirigenti italiane hanno costruito la loro fortuna. Tuttavia, la storia ha dimostrato quanto questa idea fosse figlia di un’impostazione ideologica che poco o nulla ha a che fare con i problemi strutturali del paese.

Andiamo con ordine. In un recente studio sull’andamento dei salari e della produttività l’Ocse mostra chiaramente come la produttività si sia mantenuta superiore alla crescita dei salari di circa il 13% tra il 1995 e il 2014. Quindi, mentre nel discorso pubblico si affermava la convinzione che il basso andamento della produttività fosse da imputare agli alti salari, nelle principali economie avanzate il valore aggiunto del lavoro andava sistematicamente a ingrassare la quota dei profitti a scapito delle retribuzioni. In questo contesto, l’Italia presenta dinamiche per certi versi differenti dall’insieme dei paesi Ocse. Infatti, l’andamento della produttività in Italia mantiene un trend abbondantemente al di sotto del resto delle economie avanzate già nel decennio 2001-2010, nonostante proprio in questo periodo si assista a continue sforbiciate del costo del lavoro, con una prima drastica caduta dei salari nominali. Insomma, la riduzione dei salari non produce come sperato un aumento della produttività del lavoro. Anzi, il risparmio ottenuto dalla compressione dei salari non si traduce nell’aumento agognato degli investimenti privati, che continuano ad avere un andamento nettamente al di sotto della media europea. Infatti, come rileva l’Istat l’aumento della produttività è in larga parte imputabile al fattore lavoro, mentre il contributo del fattore capitale resta molto basso. In sintesi, l’aumento della produttività in Italia è dovuto all’intensificazione del lavoro, all’aumento delle ore lavorate per addetto piuttosto che agli investimenti in capitale fisso delle imprese. I dati dicono una cosa semplice: la causa della scarsa produttività italiana è da imputare alle scelte degli imprenditori non ai lavoratori. E l’intensificarsi dello sfruttamento non è la strada giusta per dare respiro all’agognata crescita economica.

Si può affermare con una certa sicurezza che in Italia si è creato un circolo vizioso tra salari e produttività: i principali indicatori dell’economia dimostrano il fallimento empirico della politica di ancoraggio dei salari alla produttività, evidenziandone il tratto ideologico. Dire, infatti, che le retribuzioni devono seguire l’andamento della produttività significa sostenere una specifica configurazione dei rapporti di forza, assicurando alle imprese un ruolo di baricentro dentro un equilibrio di sotto-occupazione e bassi salari. Rovesciare questo paradigma significa riconoscere la dimensione politica di una specifica argomentazione che si nasconde dietro una falsa neutralità. Solo da questa prospettiva è possibile rilevare lo specifico punto di vista che presiede all’idea del salario come variabile dipendente della produttività. E solo e soltanto riconoscendo l’autonomia del punto di vista della classe lavoratrice è possibile opporre a questa falsa verità la funzione autonoma del salario sulla produttività.

 

La questione salariale, una questione internazionale

L’inganno tra crescita della produttività e iniqua distribuzione tra salari e profitti non si manifesta solo in Italia. E non a caso, a livello internazionale la questione salariale scuote l’agenda politica, imponendosi come la rivendicazione di massa del periodo successivo alla crisi del 2008. A partire dalla campagna statunitense Fight for 15 $ lanciata inizialmente dai lavoratori dei fast food tra cui McDonalds ed estesa a una miriade di settori. Lavoratori che denunciano lo sfruttamento nei luoghi di lavoro in cui i datori di lavoro tagliano i costi di produzione sulla loro pelle, per ingrassare i propri conti multimilionari. Non sorprende che questo movimento sia pienamente appoggiato da Bernie Sanders che denuncia e si impegna a favore dei lavoratori. «Milioni di americani – si legge sul suo sito – stanno lavorando per salari totalmente inadeguati. Dobbiamo garantire che nessun lavoratore a tempo pieno viva nella povertà. L’attuale salario minimo federale è la paga per fame e deve diventare un salario di sussistenza. Dobbiamo aumentarlo a $ 15 l’ora nei prossimi anni». Non sarà l’eden per i lavoratori, come ricorda Jonathan Rosenblum su Jacobin Mag, ma è un terreno di scontro che non è possibile abbandonare. Ne sa qualcosa Jeremy Corbin che propone un aumento del salario minimo dagli attuali 7,83 pounds l’ora a 10. In Spagna, proprio quest’anno il governo socialista appoggiato da Podemos ha aumentato del 22% il salario minimo. Per un Paese che, come e prima dell’Italia, ha governato la crisi imponendo massicce dosi di deflazione salariale, la mossa del governo assume la questione sociale come pilastro dell’ordine pubblico. Fino ad arrivare in Francia dove tra le rivendicazioni dei Gilets Gialli la questione salariale entra ben due volte: con la rivendicazione di un salario minimo di 1.300 euro netti (attualmente a 1.171), e con la richiesta che i salari (e le pensioni) siano indicizzati all’inflazione, riesumando niente poco di meno che la buona vecchia scala mobile, di cui proprio in questi giorni cade l’anniversario del Decreto di San Valentino del 1984 con cui il Governo Craxi la decimò.

 

Salario, una questione politica

Oggi, l’Italia è tra i pochissimi paesi in Europa senza un salario minimo per legge. Non è questa la sede per ricostruire le ragioni di tale anomalia che risiedono nella struttura delle relazioni industriali e nel rapporto tra sistema politico e forze sociali così come si è configurato nel secolo scorso. Tuttavia, la questione non sembra più eludibile tanto dai partiti che intendono rappresentare gli interessi della classe lavoratrice quanto dalle organizzazioni sindacali. Il motivo è molto semplice: una riforma dell’istituto salariale è uno dei principali obiettivi delle forze liberiste e dei grandi gruppi industriali. Non c’è quindi da meravigliarsi che le proposte di legge sul salario minimo troveranno a breve una maggioranza parlamentare in grado di sostenerle. La necessità di intervenire sul salario da parte delle organizzazioni del capitale è legata alla possibilità di imprimere un colpo durissimo alla forza contrattuale dei lavoratori, aggiustando i differenziali salariali verso il basso. In questa direzione si inseriscono le dichiarazioni di Tito Boeri, che propose di trasformare il valore dei voucher in minimo salariale o ancora le acrobazie ideologiche del Partito Democratico che nella scorsa campagna elettorale avanzò la proposta di un salario minimo di 9 euro all’ora al netto dei contributi previdenziali. Proposte esemplificative della posta in gioco: da una parte le imprese hanno bisogno di governare la dinamica salariale e spostare verso il basso la soglia di fluttuazione dei salari; dall’altra un basso salario minimo consente alle imprese di agganciare la dinamica della domanda ai bisogni dell’offerta. In poche parole, l’obiettivo è acquisire pieno controllo sulle spinte salariali per renderle compatibili con la crescita dei profitti. Controllare la classe lavoratrice per liberare da qualsiasi vincolo l’impresa. Se questo è l’obiettivo strategico della classe imprenditoriale e delle forze politiche che ne rappresentano gli interessi, non è comprensibile la sottovalutazione che il tema assume nelle forze della sinistra tradizionale. Come è stato osservato, l’estrema frammentazione del mondo del lavoro in Italia è la causa principale dell’indebolimento della sua forza politica. L’idea di un salario minimo deve rispondere esattamente a questo problema, riunificando le condizioni di lavoro e di vita di una classe lavoratrice costretta in una competizione selvaggia. Una necessità ancora più evidente viste le difficoltà della contrattazione collettiva ad assicurare standard salariali dignitosi a tutti i segmenti della forza lavoro. L’esplosione dei contratti pirata e l’indebolimento del ruolo anti-ciclico del contratto collettivo richiedono un’azione politica di rilancio del meccanismo salariale. Spostare in avanti il raggio d’azione per non restare sulla difensiva ad eludere i colpi dell’avversario è l’unica strategia per rimettere in sesto il potere della classe lavoratrice dentro e fuori i luoghi di lavoro.


*Marta Fana, PhD in Economics, si occupa di mercato del lavoro. Autrice di Non è lavoro è sfruttamento (Laterza). Simone Fana si occupa di servizi per il lavoro e per la formazione professionale. Autore di Tempo Rubato (Imprimatur). Scrive di mercato del lavoro e relazioni industriali.
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