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Perché il lavoro di cittadinanza

di Chiara Zoccarato

New Deal artistsLa proposta di un lavoro di cittadinanza nasce dalla necessità di offrire un’alternativa sostenibile alla disoccupazione e all’inattività, purtroppo in crescita, andando a garantire un reddito a chi ne è attualmente privo. Contemporaneamente, si consente la fornitura di servizi che altrimenti sarebbero fuori mercato, aumentando il benessere della comunità, cioè la ricchezza reale condivisa di beni e servizi, diminuendo la spesa pubblica assistenziale e aumentando il Prodotto Interno Lordo.

Perché è necessario affrontare la disoccupazione? Perché è un problema rilevante dal punto di vista economico, sociale e politico: il disoccupato non ha di che vivere e dipende interamente dai sussidi pubblici, dalla carità o dai parenti; non partecipa all’organizzazione economica e sociale del paese; rappresenta uno spreco di risorse produttive, perché non viene impiegato nella forza lavoro e il suo contributo, grande o piccolo che sia, viene comunque perso. Disoccupazione, sottoccupazione e inattività deprimono la domanda interna e costringono a fare affidamento sulla domanda estera, che non possiamo, e nemmeno vogliamo, controllare; esse, infine, aumentando «l’esercito industriale di riserva», indeboliscono il potere contrattuale nei rapporti di forza capitale-lavoro.

La proposta di attuare programmi di lavoro non è nuova, ha una storia illustre – il New Deal dell’amministrazione Roosevelt, per citare l’esempio più noto – e vanta un pedigree accademico di tutto rispetto, dal momento che a teorizzare l’intervento dello Stato per la creazione di posti di lavoro in modo diretto in fase di recessione economica furono economisti come J.M. Keynes e Hyman Minsky; oggi a spingere per questa proposta è soprattutto la scuola della Teoria della Moneta Moderna (MMT), i cui principi sono alla base delle proposte di Bernie Sanders del Programma di Lavoro Garantito Federale e del Green New Deal.

La necessità della creazione diretta nasce dell’evidenza che il mercato non può risolvere il problema della disoccupazione, ma ne è anzi alla radice. Un’attenta analisi delle dinamiche del capitalismo moderno, altamente finanziarizzato e instabile, porta a considerare il programma di lavoro di cittadinanza non solo come provvedimento temporaneo anti-ciclico per rilanciare la domanda interna, ma come uno strumento permanente di stabilizzazione macroeconomica irrinunciabile in una economia moderna e aperta. L’innovazione tecnologica, gli scambi commerciali con l’estero, la ricerca di profitto di mercato e di estrazione di rendita, la deregolamentazione della finanza e i vincoli di bilancio alla spesa pubblica – non solo ma soprattutto nella qualità, cioè nella sua destinazione finale – la spesa pubblica ha sussidiato l’impresa privata e le banche per anni, il risultato è stato un aumento della disuguaglianza e della precarietà – sono un mix letale per l’occupazione.

Un paese dotato di capacità di spesa autonoma, quindi di sovranità monetaria e politica, può realizzare un programma di creazione di lavoro universalistico – cioè rivolto a tutti coloro che vogliono e possono lavorare – come prevede la proposta di Sanders, offrendo uno stipendio decoroso che diventa il salario minimo effettivo. Questa misura può certamente comportare un elemento di momentanea, ma certamente necessaria, ristrutturazione del mercato interno. I lavori del settore privato mal pagati vengono messi fuori mercato dalla concorrenza dello Stato – senza conseguenze per i lavoratori, che sono messi in sicurezza dall’esistenza dei programmi stessi. Le imprese poco efficienti che non riescono a stare sul mercato a queste condizioni dovranno chiudere, le altre trarranno vantaggio dalla capacità di spesa dei cittadini coinvolti nei programmi. I salari sono una componente imprescindibile della domanda interna, un’economia sana non può reggersi sullo sfruttamento: la stagnazione, le crisi, la povertà diffusa, sono conseguenze di questa scelta scellerata. L’interrogativo è sempre la stesso: può lo Stato permettersi di assumere l’onere di pagare stipendi per lavori fuori mercato? Sono le imprese private che creano lavoro? L’economia e il mercato coincidono? Il settore pubblico dipende dal settore privato?

L’esperienza storica, scomoda per molti versi e per questo scomparsa dal dibattito politico corrente, ci ricorda che l’intero blocco delle repubbliche socialiste sovietiche ha fatto economia pianificata senza mercato per decenni. Ci sono stati altri problemi, innegabili, e nessuno qui propone quel modello, ma non si può affermare che non sia effettivamente possibile. La Cina si è aperta al mercato e tuttavia è ancora un paese nel quale la partecipazione pubblica anche nelle imprese private è molto alta.

La moneta è un monopolio delle istituzioni pubbliche, non è una risorsa scarsa. Sono le risorse reali, semmai, ad esserlo. Per dirla con Keynes: «se ci sono mattoni, acciaio, cemento, operai e architetti, perché non trasformare in case tutti questi materiali? Insomma possiamo permetterci tutto questo e altro ancora. Una volta realizzate le cose sono lì e nessuno ce le può portare via.»

Il mercato è una creatura della legge e se non produce ciò che serve, le istituzioni lo possono/devono by-passare. Il lavoro non è solo reddito, ma il vero reddito è il lavoro. Avere beni e servizi reali. La moneta serve a movimentare le risorse disponibili e il lavoro. Se non lo fa, è una moneta gestita in modo disfunzionale. Come accade nel sistema istituzionale dell’eurozona, dove i vincoli alla capacità di spesa del settore pubblico sono pressochè insormontabili – ex-ante dai trattati ed ex-post da mercati e BCE – almeno fino ad una ridefinizione degli stessi. In questo contesto, lo Stato non ha gli strumenti sufficienti ad affrontare una vera e propria ristrutturazione del mercato interno, ma può comunque operare dei miglioramenti all’interno del quadro normativo vigente.

Il meccanismo è sempre quello della realizzazione di proposte dal basso, elaborate dalle comunità locali. Si differenziano dai lavori socialmente utili perché sono “progetti”, non sono lavoro coatto (che sarebbe in totale antitesi con lo spirito del lavoro di cittadinanza), ma sono costruiti sui bisogni più urgenti della comunità, sulle sue esigenze più schiette. È un modo per riappropriarsi di uno spazio collettivo, della decisione su cosa e come produrre.

Diritto di scelta. In modo più specifico il lavoro di cittadinanza consiste nell’offrire un’alternativa al sussidio di cittadinanza, che non abbia le condizionalità proprie di questo provvedimento, il cui salario verrà erogato dal ministero del lavoro e sarà pari al reddito minimo di cittadinanza + i contributi e assicurazione, senza obbligo di accettare altre proposte di lavoro, ma con la libertà di farlo. Significa creare programmi di lavoro sul territorio gestiti dalle amministrazioni locali a cui possono iscriversi i disoccupati che lo desiderano, quindi su base volontaria. Come sono e dove sono: non devono avere qualifiche professionali e non devono spostarsi per avere quel posto. Si lanciano dei bandi di gara che vengono vagliati da una commissione apposita, che deve verificare che abbiano i requisiti per essere approvati

Motivazioni. Come abbiamo già detto, il reddito percepito aumenta la capacità di consumo e quindi il sostegno alla domanda aggregata, il lavoro produce servizi socialmente utili fuori mercato a vantaggio di tutti, che aumentano la ricchezza reale a livello locale e l’effettiva partecipazione dei cittadini all’organizzazione economica e sociale della propria comunità. Rispetto a ipotesi alternative come quella del reddito garantito, il lavoro garantito presenta un certo numero di vantaggi.

Modalità. Il lavoro garantito sarebbe svolto svolto secondo le seguenti linee operative:

Progetti. I progetti devono essere focalizzati sulla fornitura di servizi di cura: cura dell’ambiente (naturale e storico), cura delle persone e cura della comunità. Devono essere servizi non professionali nel senso stretto del termine, fuori mercato, che non si sovrappongono a servizi pubblici già erogati, ma piuttosto a supporto di questi. Deve essere imposto un divieto di licenziamento agli enti pubblici per evitare assunzioni tramite il programma, i progetti devono fornire servizi accessori alla comunità, al di fuori di quelli che l’amministrazione pubblica deve garantire. Qualche esempio:

  1. Sistemazione di immobili pubblici da adibire a case di quartiere, dove organizzare attività gratuite e sorvegliate per le fasce più bisognose della popolazione, bambini e anziani, in orari scoperti rispetto ai turni di lavoro. Supporto allo studio, giochi da tavolo, lettura quotidiani o libri per ragazzi, attività ludico-ricreative e sportive, a seconda delle abilità e competenze dei lavoratori coinvolti nel programma.
  2. Catalogazione e digitalizzazione degli archivi di musei e biblioteche civiche. In Italia abbiamo un patrimonio immenso di documenti storici e manufatti il cui accesso è fortemente limitato.
  3. Servizio di sorveglianza e guida c/o musei, biblioteche, siti di interesse storico e artistico pubblici se attualmente privi di presidio e non fruibili dai visitatori del tutto o solo parzialmente.
  4. Servizio di spesa alimentare e farmaceutica a domicilio per gli anziani.
  5. Messa in sicurezza del territorio da rischio idrogeologico o gestione di emergenze locali.
  6. Coltivazione e cura di orti e giardini cittadini.

Personalmente credo che la partecipazione a questi programmi dovrebbe essere estesa ad una fascia di popolazione superiore a quella attualmente indicata dai requisiti Isee del reddito di cittadinanza, in particolare ai neet e agli over 50, categorie sociali estremamente fragili e bisognose di un supporto pubblico.

Alle obiezioni sul fatto che il lavoro di cittadinanza andrà a pagare uno stipendio maggiore rispetto ad altre attività lavorative legali, va ben specificato che €780 non sono uno stipendio minimo, ma ancora di pura sussistenza, nella consapevolezza che una ristrutturazione completa del mercato del lavoro in questo paese richiederebbe il ripristino della piena sovranità costituzionale. E tuttavia vale la pena far notare che le critiche alla potenziale distruttività sistemica di alcuni provvedimenti non si sono levate quando, di fatto, è stata compiuta una ristrutturazione del mercato interno con il Jobs Act e l’alternanza scuola-lavoro, fondati sulla flessibilità e lo sfruttamento di lavoro povero e addirittura gratuito. Provvedimento che è arrivato a stravolgere perfino il modello educativo. La competitività basata sulla svalutazione del lavoro è un vantaggio temporaneo. Tornare indietro a livelli di retribuzione più congrui ed economicamente sostenibili, non può che portare un giovamento a tutti.

L’abolizione del Jobs Act è condizione necessaria e irrinunciabile al ripristino di rapporti di forza capitale-lavoro più equilibrati e necessari allo sviluppo economico e alla crescita. Fu lo stesso Draghi a raccomandare un aumento dei salari, ancora nell’aprile del 2017, e la stessa BCE a fornire uno studio sull’alto livello di sottoccupazione in Eurozona.

Non dobbiamo attendere mirabolanti riforme dell’eurozona per proporre misure concrete per risolvere la piaga economica e sociale della disoccupazione. Possiamo fare qualcosa già adesso. Serve coraggio e volontà politica.

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