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lacausadellecose

Natura del sindacato ieri e oggi

Michele Castaldo

IMAG1027Prendo spunto dall'arresto e dalla scarcerazione di Aldo Milani per affrontare un tema molto complesso.

Premesso che era da difendere il compagno Aldo Milani come militante comunista da sempre schierato per la causa degli oppressi e sfruttati; premesso ancora che il suo arresto e le motivazioni che stanno dietro sono da ritenere una ignominiosa macchinazione degna di un moderno Stato democratico, veniamo alla questione seria da affrontare, cioè il rapporto tra la militanza rivoluzionaria comunista e il movimento di massa nella doppia relazione: sindacale e politica.

Nella storia del movimento proletario questa questione ha da sempre riscaldato i cuori dei militanti di ogni livello e grado, senza riuscire a venirne a capo. La ragione è molto semplice: siamo stati e siamo tuttora troppo legati all’aspetto formale della rappresentanza, piuttosto che farla derivare dallo stato reale dei rappresentati. Per cercare di farmi capire meglio cito proprio Aldo Milani che disse – a proposito dei lavoratori della Logistica: «sono stati loro che ci hanno cercati e ci hanno chiesto di metterci alla loro testa per organizzarli perché nessuno dava loro ascolto, mentre le loro condizioni di lavoro erano proibitive, non ce la facevano più».

Ora, per un militante comunista sentirsi chiamato a difendere la causa dei lavoratori rappresenta il riconoscimento più alto e più nobile che la vita gli possa riservare. Un sentimento profondo di cui ci si alimenta e per cui vale la pena di vivere. Da qui dobbiamo partire, ma proprio da qui cominciano i problemi che con calma dobbiamo analizzare.

Che si trattasse di una lotta sindacale, quella dei facchini della Logistica, è fuori da ogni dubbio. Innanzitutto perché non è vero che durante tutto il corso del modo di produzione capitalistico tutto è sempre politico. Questa sarebbe una visione poco materialistica, che non terrebbe conto di cosa divengono le classi e il proletariato in particolare, cioè merce come tutte le altre merci sul mercato. E al mercato si contratta tra domanda e offerta, tra costi di produzione e rapporto con la concorrenza dell’insieme delle tre componenti: capitale costante, capitale variabile, capitale monetario, cioè il padrone dell’impresa. Dunque un settore di lavoratori – nello specifico i facchini della Logistica – essendo più discriminati rispetto ad altre categorie cercano di vendersi ad un costo superiore rispetto alle condizioni oggettive – cioè di mercato – che il capitalista cerca di imporre.

Perché i lavoratori più sfruttati e oppressi si rivolgono a un minuscolo sindacato piuttosto che a una grande e storica Confederazione, come per esempio la Cgil? Non certamente per coscienza politica, e neppure sindacale, ma semplicemente perché non sono riusciti a trovare ascolto presso la “grande Confederazione”, appunto. Dunque per costrizione si affidano a un piccolo sindacato estremista e esposto all’isolamento e alla repressione. Cerco di essere didascalico.

 

Cosa sperano i facchini della Logistica?

Di essere diretti con onestà da parte di chi vien posto alla loro testa. Questi lavoratori hanno piena consapevolezza di ciò a cui vanno incontro quando intraprendono la lotta (col il SI cobas, nello specifico)? No, nessun operaio sa in che modo si svilupperà la lotta, a quali conseguenze va incontro ecc., semplicemente perché in lui prevale – a un certo punto - la necessità di rivendicare una migliore condizione di lavoro, normativa e salariale. Le gravose necessità prevalgono in una prima fase sul calcolo del rischio.

 

Da cosa dipende il fattore rischio?

Certamente da una serie di fattori che prescindono dalla volontà immediata dell’entrata in lotta dei lavoratori. Non si tratta di un rischio a senso unico, cioè valido solo per i lavoratori, ma anche per il padrone o padroncino che sia. E’ del tutto chiaro che il rischio maggiore è dei lavoratori, ma si tratta di un rischio diverso da quello dell’impresa. Ora è vero che da comunisti ci occupiamo delle condizioni dei lavoratori e dei loro rischi, ma gli stessi lavoratori sanno perfettamente di vivere un rapporto mercificato tra domanda e offerta, sennò non subirebbero come hanno subito e continuano a subire da decenni o da secoli. Saremmo ipocriti però se non ammettessimo che mentre i comunisti privilegiano l’aspetto della lotta, i lavoratori sono frenati dall’aspetto del rischio.

 

La Grande Confederazione e i comunisti.

Stiamo ancora con i piedi per terra e diciamo che la grande confederazione, seppure contratta in nome e per conto di una delle tre componenti – il capitale variabile, cioè il proletariato – tiene presente l’insieme del rapporto delle tre componenti (in modo del tutto opportunista, si dirà; si, ma non cambia la sostanza della questione). Diversamente, i comunisti tendono a privilegiare, in modo autonomo, le necessità e gli interessi del proletariato. Sicché si presenta a priori la contraddizione non soltanto con i vertici burocratizzati dei grandi sindacati confederali, ma con la stragrande maggioranza dei lavoratori che sanno di far parte – dunque di dipendere – dalla legge della complementarietà che tiene insieme le tre componenti di cui si diceva sopra.

 

Il sindacato e il rischio.

Purtroppo come comunisti abbiamo coniato dei neologismi di natura ideologica proprio perché siamo legati a quell’impostazione formalistica dei rappresentanti piuttosto che dei rappresentati di cui si diceva all’inizio. Meglio mi spiego. Una di quelle paroline di uso corrente è “concertativo”, e viene usata per definire le maggiori confederazioni sindacali: Cgil, Cisl, Uil. Ancora più dei comunisti la usano le organizzazioni sindacali che si definiscono di “base”, come lo stesso Si cobas. Ora “concertare” vuol dire decidere insieme. Si pongono alcune domande: si tratta di volontà aprioristica? Stanno sullo stesso piano di concertazione tanto i padroni quanto i sindacati? Hanno le stesse facoltà economiche, politiche e sociali, cioè lo stesso potere contrattuale e decisionale? A queste domande si dovrebbe rispondere: le grandi confederazioni sindacali rappresentano lo stato reale dei lavoratori nel rapporto di forza che la fase di accumulazione offre. Altra cosa è sostenere che esse sono corrotte e/o istituzionalizzate. Ma attenzione bene, perché il vero punto in questione è proprio questo: se i maggiori sindacati sono corrotti e istituzionalizzati, e per questo “concertativi”, vuol dire che c’è chi li induce alla corruzione. Ora, pur ammettendo che i sindacalisti siano un corpo totalmente separato dalla massa dei lavoratori, e perciò si offrano alla corruzione, si pongono i seguenti quesiti: chi è corrotto è più concertativo o più corrotto? E’ concertativo perché è corrotto o è corrotto perché è concertativo? Chi è corrotto non è concertativo, è corrotto, che è un’altra cosa; è asservito, ma è un’altra cosa; si adopera per scoraggiare le lotte e trama contro i lavoratori minando i tentativi di unità a cui faticosamente tendono di lavorare i comunisti; ma si tratta di strumenti innescati e utilizzati dal padrone che dispone di potere economico e politico.

 

L’esito di una lotta dipende dalla contrattazione?

Il ruolo vero e reale dei rappresentanti è di saper contrattare o di saper rappresentare la forza messa in campo dai rappresentati all’interno dell’insieme dei rapporti di forza fra le classi? In questa domanda si nascondono molte questioni dovute alle difficoltà della fase. Va qui ricordato di passaggio che la rivoluzione francese – di cui con tanto spirito libertario si ricordano i valori: Liberté, Fratenité, Egalité – tra il 14-17 giugno 1791 produsse una legge con la quale proibiva ai lavoratori di organizzarsi e di darsi delle strutture stabili dietro l’ipocrita alibi dell’abolizione delle corporazioni; mentre era consentito agli industriali di farlo. La differenza con l’oggi è che si possono facilmente costituire sindacati sul piano formale, ma latita la lotta dei rappresentati, cioè la lotta operaia. Domanda d’obbligo: ma i lavoratori non lottano perché sarebbero frenati dai sindacati confederali, in quanto “consociativi”? Non scherziamo.

 

Il grande e pericoloso equivoco.

Proprio perché oggi è facile sul piano formale costituire un sindacato, anche prescindendo dalla forza espressa dai lavoratori, diversamente da come succedeva tra la fine dell’800 e il primo quarto del ‘900, si è portati a ritenere che la sola convinzione ideologica, unitamente all’onestà individuale, basti; ma – e qui cominciano le difficoltà - che sia necessario avere degli iscritti, molti iscritti, quale forza contrattuale. Dunque la forza contrattuale quale espressione di due congiunti fattori: l’ideologia e il numero degli iscritti. In assenza degli iscritti il padrone ci domanderebbe «chi siete, quanti siete, chi rappresentate»? Il grande tranello nel quale la borghesia ci attira è questo; si tratta di una trappola mortale. Se i comunisti ci cascano come ingenui adolescenti finendo per rincorrere l’accumulo di tessere per essere “degni rappresentanti” dei lavoratori e riconosciuti da sua maestà il padrone, cioè il capitale, sono destinato a essere risucchiati nell’opportunismo. In totale buona fede, si finisce per fare cose diverse di quel che ci si era proposti di fare e che non giovano alla causa dei lavoratori che si voleva rappresentare. Che fare al riguardo? La risposta è semplice: un lavoratore di nome Mario Rossi, a nome degli altri, chiede al padrone di essere coadiuvato nella trattativa dal rappresentante del sindacato Pincopallino. Nella storia ci sono innumerevoli casi di trattative serie condotte anche senza l’istituto sindacale. E per essere più seri dovremmo dire che le prime trattative erano prive di sindacai, eppure si contrattava e spesso si imponeva la volontà dei lavoratori.

 

Che cosa è la contrattazione?

Chi fa il venditore della forza lavoro è esposto a due rischi in mano alla controparte: l’arma della corruzione e l’arma della repressione. Per corruzione non si deve necessariamente intendere solo il passaggio dei famosi 30 denari dalle mani del padrone a quelle del sindacalista. La corruzione consiste in un insieme di fattori che il modo di produzione offre a seconda della fase che attraversa nel suo processo di accumulazione. Sicché la capacità di contrattazione è l’espressione della forza che è in grado di mettere in campo un settore, una categoria anche una singola azienda all’interno di un più generale rapporto di forza del modo di produzione capitalistico. Può succedere, ed è successo, che un’intera categoria mantenga l’unità per tutto il corso della lotta, ma viene sconfitta perché isolata da tutte le altre categorie di lavoratori, come successe nel 1985 in Inghilterra con i minatori. Oppure che l’insieme dei lavoratori di un’intera nazione viene sconfitto perché isolato dalle restanti nazioni, come successe in Polonia negli anni ’80. Figurarsi il rapporto di forza tra i facchini e le imprese della Logistica; altro che Davide contro Golia. Ciononostante alcuni importantissimi risultati sono stati raggiunti e proprio per questo si è arrivati all’omicidio sul lavoro prima e all’arresto di Aldo Milani poi.

 

Francia 1791 e oggi.

Fissiamo alcune differenze strutturali tra ieri e oggi: la prima differenza strutturale è sulla natura dell’industria: piccola e media azienda; la seconda differenza strutturale è sulla natura della classe lavoratrice: nel 1791 era prevalentemente artigianale, dato il livello di sviluppo del capitalismo, mentre oggi prevale quasi dappertutto il taylorismo e la robottizazione; la terza differenza ancora strutturale sta nel fatto che nel 1791 il capitalismo era ascendente, in modo particolare nei paesi europei, mentre oggi è in fase di crisi. Pertanto le armi nelle mani della borghesia, pur rimanendo le stesse, cioè corruzione e repressione, si articolano diversamente nei confronti dei lavoratori. Per essere più chiari diciamo che in una fase come quella che stiamo attraversando promettere di non delocalizzare l’azienda e far accettare condizioni capestro ai lavoratori è un atto di corruzione nei confronti dell’insieme dei lavoratori di una fabbrica o di un settore; infame quanto si vuole, ma è corruzione. Si dirà: no, è un ricatto; si, ma la corruzione è un ricatto, è un imporre le proprie condizioni attraverso la forza dello strumento che si ha a disposizione. Nei limiti del possibile, tanto il sindacalista, quanto l’operaio preferirebbero sempre essere sconfitti dalla corruzione piuttosto che dalla repressione. Ma non lo stabiliscono né i sindacati né i lavoratori, bensì i fattori di forza reali. Si guardi il paradosso: nel 1791 la riduzione della giornata e della settimana lavorativa voleva dire migliorare la vita lavorativa di un operaio; mentre oggi la riduzione della settimana lavorativa vuol dire impoverimento della condizione operaia. E oggi gli operai sono sempre più ricattati e i sindacati confederali non fanno che sanzionare l’arretramento. Sono corrotti? Sono concertativi?

 

Qual è il limite tra la corruzione e la repressione?

E’ un limite purtroppo molto labile, che non è dato a priori e a prescindere, come a dire che se una lotta è diretta dai riformisti si tenta di corrompere i dirigenti, se invece è diretta dai rivoluzionari la si reprime. Esempi di aggressioni di squadracce pagate dai padroni per intimidire sindacalisti o agitatori politici attraverso vili aggressioni e uccisioni non è possibile contarli. Sbaglieremmo se da comunisti dicessimo che le maggiori organizzazioni sindacali sono ormai un aggregato di venduti al sistema, ragion per cui bisogna fare leva sulla coscienza dei lavoratori perché se ne separino e costituiscano altre organizzazioni non concertative e non vendute al sistema. Mostreremmo in questo modo di non capire lo stato d’animo dei lavoratori che è quello del minimo sforzo e dell’acquiescenza. Tutto quello che ruota intorno al mondo degli apparati sindacali non è altro che corruzione di un modo di produzione che in Occidente ha permeato gli operai prim’ancora che i suoi rappresentanti. Tanto è ciò vero che i lavoratori di tutte le categorie delle generazioni precedenti sono entrati in un definitivo letargo. Di conseguenza i sindacati da loro espressi si sono comportati e si comportano di conseguenza: ruspano quel che possono. Si pone la domanda: che vorrebbe dire l’espressione “sindacato conflittuale” nei confronti della letargia operaia? Siamo seri! Non nascondiamoci dietro il dito ideologico. Peggio ancora sarebbe condannare il corrotto rimuovendo le ragioni del corruttore, innalzando cioè a eroe negativo del libero arbitrio il malcapitato tra le fauci di un sistema e dei suoi artigli, cioè i padroni. Gli operai saranno degli uomini veri allorquando in presenza di una chiara corruzione di un sindacalista o un delegato lo scanseranno ed entreranno nell’ufficio del padrone o del di lui manager per prenderlo a calci in culo e imporre le proprie rivendicazioni; piuttosto che nascondere dietro il corrotto il proprio opportunismo.

 

Perché il rapporto è doppio: sindacale e politico?

Semplicemente perché il modo di produzione capitalistico è un sistema che si fonda sullo scambio capitale lavoro, e nello scambio si contratta sulla base dei livelli di accumulazione che consistono nel riprodurre continuamente il processo D-M-D’ (cioè Denaro Merce Denaro) all’infinito; ma si contratta anche sulla base della spinta delle necessità delle masse lavoratrici in rapporto con la forza complessiva del modo di produzione; cioè i rapporti di forza. Siamo all’abc del Capitale. Questa semplice verità viene vissuta da parte dei lavoratori con l’arrendevolezza che si traduce in sopportazione fino a quando le necessità non superano i livelli determinati e rompono gli argini. Ma siamo ancora nella parte sindacale. Quand’è che il rapporto all’interno della complementarietà capitale-lavoro diviene politico? Su questa questione è bene chiarirsi fino in fondo. Con il permanere del modo di produzione capitalistico il proletariato non può in alcun modo aspirare a posizioni di autonomia e potere politico che non siano consentiti dai processi di accumulazione del capitale. Anzi, la storia sta dimostrando sempre di più che da un certo punto in poi non solo non è più possibile avanzare, ma si incomincia ad arretrare. Sicché parlare di potere politico durante la crisi del modo di produzione capitalistico è un non senso. Chi arretra cerca di difendersi; e necessariamente all’insegna del “si salvi chi può”. I più esposti al massacro sono gli ultimi, cioè i più deboli. Unitamente all’insieme degli immigrati, è il caso dei lavoratori della Logistica, che messi alle strette non possono fare altro che lottare per cercare di ottenere il minimo indispensabile, di natura sindacale, in un settore molto particolare che è quello dell’accelerazione ai massimi livelli di quel famoso rapporto D-M-D’ per battere la concorrenza e tentare di stare in piedi come azienda o categoria. Sicché si tratta di un settore, quello del facchinaggio, fatto per la maggior parte di lavoratori di colore e più esposti a ogni tipo di rischio per i motivi facilmente intuibili.

 

Perché lavoratori così precari affrontano lotte così difficili mentre le altre categorie arretrano senza ribellarsi?

Semplicemente perché le altre categorie sono composte da lavoratori indigeni per la maggior parte con una serie di guarentigie ereditate dal ciclo precedente: casa, doppio salario in famiglia, capacità artigianali, pensione di un coniuge, pensione del padre o della madre o dei nonni ecc. Questo per le vecchie generazioni di lavoratori, mentre per quelle giovani c’è totale sfiducia, per un verso, e la spasmodica ricerca della soluzione individuale, per l’altro verso. Per quanto riguarda il primo caso si tratta comunque di un “cittadino” all’interno di un tessuto complessivo privilegiato rispetto ai lavoratori immigrati o quelli più emarginati delle periferie metropolitane. Non c’è nulla di cosciente o incosciente nel comportamento operaio, solo la forza delle necessità che spinge ad agire oppure no. I lavoratori della Logistica sono spinti da impellenti necessità. Gli operai indigeni non sono ancora assaliti dai morsi della miseria e della fame, ma stanno sulla buona strada.

 

Vecchio sindacalismo.

Siamo così alla differenza tra il vecchio e il nuovo sindacalismo. Dopo aver detto della nascita del sindacato in Francia, non molto diversamente andarono le cose in Inghilterra, negli Usa, in Germania, Italia e nel resto d’Europa. Da artigiani organizzati in corporazioni contro chi si offriva a un prezzo inferiore in Francia, o come società di mutuo soccorso in Inghilterra o come i Khnigts negli Usa, operai qualificati che puntano a organizzarsi come categoria per contrattare la vendita della propria forza lavoro. Comunque si trattava di forza lavoro in una fase di sviluppo e crescita dell’accumulazione capitalistica. Un percorso che trasforma l’artigiano o in un piccolo imprenditore o in un operaio dipendente. Detta crescita faceva intravedere alle classi che divenivano proletarie la possibilità di migliorare complessivamente la propria condizione; si sviluppavano lotte di categorie che riuscivano a strappare rivendicazioni sia sulla riduzione della giornata lavorativa che sugli aumenti salariali, fino a mutualismi nazionali organizzati in enti statali: infortuni sul lavoro, cassa malattia, istituti pensionistici ecc. Si poteva saltare dal sindacale al politico e porre la questione del potere? E’ una domanda priva di senso, come sopra detto, perché finché regge il modo di produzione capitalistico il potere ce l’ha il capitale e se c’è il capitale non possono non esserci i capitalisti (per dirla con Marx), e se ci sono i capitalisti il proletariato non può assurgere al potere: è una contraddizione in termini.

 

Che cos’è, allora, il nuovo sindacalismo operaio?

Siamo così di fronte al problema teorico e politico cruciale di questa fase. Premesso che il modo di produzione capitalistico non potrà vivere una nuova primavera, cioè non potrà innescare un nuovo processo di riproduzione semplice e allargato, dunque una nuova ripresa su vasta scala, dunque mondiale dell’accumulazione, lo scenario più probabile è un caos di tutti contro tutti, cosa che sta già avvenendo anche se siamo solo agli inizi. Uno scenario del genere perlomeno nella fase iniziale farà arretrare il proletariato sempre più verso la complementarietà corporativa di tipo aziendale, categoriale o nazionale, esattamente come sta avvenendo negli ultimi anni in Occidente, fenomeno destinato a crescere e ingigantirsi. Pensare a cose diverse vuol dire non capire in che modo si muove la materia sociale di fronte alle difficoltà generali del sistema. Dunque non si potrà sviluppare un movimento operaio che aspiri a migliorare la propria condizione, ma solo a preservare – riducendola – la propria condizione. Lo spirito di conservazione della classe operaia produrrà sempre di più uno spirito conservativo dell’attuale sindacalismo confederale. E per dirla ancora tutta e fino in fondo, mentre per la borghesia varrà sempre di più la legge “mors tua vita mea” sia nei confronti dei concorrenti che innanzitutto nei confronti del proletariato; all’interno del proletariato, di riflesso, si allargherà non solo la frattura fra generazioni, ma comincerà a prendere sempre più piede la legge delle tegole, quella cioè di scaricare dall’alto verso il basso sempre di più sul più debole. Dunque i più deboli saranno sempre più isolati ed esposti tanto alla corruzione– sempre meno però – quanto alla repressione. Insomma riducendosi le briciole c’è solo il manganello. Il vecchio sindacalismo – cioè gli operai delle vecchie generazioni che lo hanno espresso – arriverà disarmato e incapace di affrontare la nuova fase. Una regola che si è già dimostrata tale in Polonia, in Romania, nella ex Jugoslavia, in Inghilterra, in Francia, negli Usa, nonché nella stessa Russia, e non potrà fare eccezione in Italia.

 

E il vecchio sindacalismo di base (italiano)?

Diciamo innanzitutto che si è trattato di un fenomeno di strascico di tipo ideologico che dalle lotte degli anni ’70, puntando su una critica ai sindacati confederali, riteneva di poter sviluppare un’alternativa più combattiva rispetto al “concertativismo” delle grandi organizzazioni confederali. In modo particolare si è trattato di spezzoni di categorie che si opponevano alle ristrutturazioni e alle privatizzazioni di comparti del pubblico impiego, con marginali rapporti nei settori del privato. Ma proprio la loro connotazione ideologica più che sindacale vera e propria li ha posti di fronte a problemi complessi, come il caso della Logistica, dove non bastava più la sola critica al “concertativismo” delle grandi confederazioni, ma era necessaria una risposta che proveniva direttamente e in maniera drammatica dai lavoratori. Parliamo di un settore estremamente minoritario e isolato da tutte le altre categorie, per di più a maggioranza di extracomunitari con gravi problemi familiari nei loro paesi d’origine. Un quadro drammatico su cui è molto difficile costruire una prospettiva di crescita di nuova aggregazione. Un quadro sociale che pone al vecchio sindacalismo di tipo ideologico problemi ben più ampi della critica al “consociativismo”, proponendosi come sindacalismo conflittuale, anche perché l’aggettivo conflittuale non può divenire di per sé sostantivo, perché la sostanza la devono esprimere i lavoratori e se questi non sono conflittuali non può esistere un sindacato conflittuale. Dunque il sindacalismo “basista” nato dalle lotte della base di alcune categorie operaie e proletarie di un determinato contesto storico sono poste di fronte al seguente problema: sostenere la lotta isolata degli ultimi, degli emarginati e dei precari senza possibilità di stabilizzazione e di crescita come organizzazione in grado di incidere nei rapporti di forza. In questo modo si pone la questione. E dunque: “Hic Rhodus, hic salta”.

 

Che tipo di sindacato, allora?

Posti ormai in archivio scioperi generali per rinnovi contrattuali (di una certa consistenza), scala mobile, punto unico di contingenza, articolo 18 ecc. del bel tempo che fu, avremo dei movimenti a macchia di leopardo e a sbalzi: delocalizzazioni e licenziamenti a iosa, per un verso, e per l’altro verso tentativi disperati degli ultimi come quelli della Logistica. Di riflesso avremo un sindacalismo sempre più arrendevole come quello confederale e uno minoritario e a sbalzi, cioè non un sindacato che cresce e si stabilizza, come per il sindacato della fase di crescita dell’accumulazione. Siccome sarà a sbalzi la lotta degli ultimi sempre più isolati, ricattati e minacciati, chi si proporrà di difendere queste fasce di lavoratori non potrà che essere l’espressione di questo andamento fragile e poco refrattario. Beninteso che parliamo di movimenti squisitamente economici, di categorie e settori che non possono avere nessuna velleità di grandi sconvolgimenti. E, tanto per non apparire astratti, diciamo che l’istituzione di una cassa di resistenza da parte del nuovo sindacalismo – come ha tentato di fare il Si cobas - è un nobilissimo strumento di difesa contro l’isolamento a cui i lavoratori della Logistica e similari sono destinati; ma deve fare i conti proprio con quell’andamento a macchia di leopardo e a sbalzi della lotta degli ultimi anni, una tendenza destinata a rafforzarsi piuttosto che indebolirsi; pertanto certi strumenti, oggettivamente necessitati, impattano proprio contro le difficoltà oggettive degli sbalzi delle lotte che nascono e defluiscono senza la possibilità di una forte stabilizzazione. Brutalmente possiamo dire che mentre si indebolisce sempre di più il sindacalismo confederale del vecchio ciclo non ci sarà la possibilità di stabilizzarsi di una nuova tendenza sindacale.

 

Come attrezzarsi?

In che modo attrezzarsi nei confronti di questo tipo di tendenza? Il modo peggiore è certamente quello di affrontarla in maniera frazionata con una concorrenza fra sigle alla conquista delle deleghe per il tesseramento, come si diceva al punto F. Peggio ancora è ritenere di privilegiare in questo modo l’aspetto quantitativo di una impossibile crescita piuttosto che ricercare l’unità con le altre sigle per riuscire a tenere tra uno sbalzo e l’altro della lotta proprio dei settori più deboli e più esposti nella crisi. Più diminuisce la possibilità di corruzione, più aumenta la necessità che si traduce in volontà di reprimere le lotte dei disperati da parte degli organi dello Stato. L’arresto di Aldo Milani con una chiara quanto provocatoria macchinazione dà il senso della direzione verso cui si incammina lo scontro. Aumenta perciò la responsabilità di chi si sottrae a un processo immediato di unità di tutte quelle forze sindacali che tengono alla causa degli sfruttati. Diciamolo chiaro e forte, i tentativi operati negli Usa dagli IWW negli anni ’20 ci dovrebbero aver insegnato 2 cose: 1) che se il capitalismo è in una fase di crescita quel tipo di sindacalismo non ha nessuna possibilità di svolgere un ruolo storico nello scontro di classe; 2) che quando il capitalismo non cresce il proletariato entra in un imbuto complementare con la borghesia e le fasce più deboli sono più esposte alla repressione con scarsissime possibilità di equiparazione contrattuali delle vecchie generazioni. Per dirla con parole ancora più semplici: a) una sigla non fa un sindacato; b) un programma non determina una forza; c) la sola volontà dei migliori singoli rivoluzionari non muove foglia se il proletariato dormiglia.

 

Attenzione!

Finora abbiamo posto l’attenzione sui settori emarginati e minoritari di lavoratori tra il vecchio e il nuovo movimento sindacale. Un capitoletto a parte meriterebbe il nuovo movimento dei disoccupati delle nuove generazioni. Si tratta di una percentuale piuttosto alta che non compare sui radar delle mobilitazioni proletarie già da molti anni, l’ultimo storico come quello napoletano lo si è fatto consumare come la candela. Ma le rivoluzioni ci hanno insegnato che certi movimenti sono improvvisi e sorprendono sempre quelli che predicano la rivoluzione secondo i propri programmi. In Italia il M5S è l’espressione di una bomba che esploderà fra le mani dei vari Grillo, Casaleggio, Di Battista, Di Maio e compagnia bella, un vero e proprio contenitore alla nitroglicerina composto di odio e rancore giovanile, perché di giovani disillusi da un sistema che solo 30 anni fa prometteva mari e monti. Si tratta di una miscela che nessun tipo di sindacato potrà assorbire e o strutturare. Quanto alle proposte politiche – di cui è necessario occuparsi in sede appropriata - diciamo solo che quello che offre il mercato, Lega salviniana, fratellanza italiana e similari, sono vecchi arnesi della destra forcaiola con lo sguardo rivolto al bel tempo che fu, a quando cioè il capitalismo cresceva. Trump, Le Pen e Salvini? Sono personaggi che esprimono tutta l’impotenza del capitalismo a riprodursi e rigenerarsi. Le questioni sono molto più complicate della povertà dei loro cervelli per un verso e della loro infamia per l’altro verso.

 

C’è un “Che fare?”

Come sempre nasce l’interrogativo cosiddetto leninista, e allora diciamo che il primo che fare dovrebbe essere: avere chiaro il quadro sociale della crisi e il suo senso di marcia; il secondo che fare dovrebbe essere: la comprensione della impossibilità che si dia la stessa impostazione sindacale del ciclo di una potente accumulazione capitalistica dei decenni precedenti; il terzo che fare dovrebbe essere: capire il consociativismo operaio che ha generato il consociativismo sindacale (oltre quello politico). Se si è capito tutto ciò la logica conseguenza politica dovrebbe tendere a unire tutte le forze disponibili e proiettarle verso un’unica struttura a sostegno delle lotte ancor prima di porsi e propagandarsi come “sindacalismo conflittuale”, perché al conflitto saranno chiamati i lavoratori, e se non sono conflittuali loro noi sogniamo a occhi aperti. I fondi per mantenersi? O arrivano dai lavoratori spontaneamente interessati o si accetta – come oggi – che il padrone li raccolga detraendoli dalla busta paga, si rincorrono i tesseramenti e lo spirito contrattualistico. Si tratta di due diversi modi di stare dalla parte degli sfruttati in questa fase. Ne dobbiamo avere piena consapevolezza.

 

Conclusioni

Per concludere diciamo che la fase è difficile e complessa, ma è una fase aperta, nel senso che il capitalismo oggi è in crisi come sistema, e se un sistema è in crisi le sue cellule tendono a sostenerlo piuttosto che a farlo cadere. Pertanto solo le componenti più emarginate, messe allo stremo, per difendersi sono costrette a opporsi, esponendosi loro malgrado alla dura legge della repressione e sul loro lastrico si incontrano solo con degli “irresponsabili” comunisti che non ne vogliono sapere di migliorare il modo di produzione capitalistico, perché vivono in funzione della sua totale deflagrazione.

Pertanto diciamo: Prigionieri SI’, ma del futuro!

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