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Domenico Losurdo, “Il marxismo occidentale”

d Alessandro Visalli

indigena3Il libro del filosofo Domenico Losurdo è del 2017, e rappresenta una densa e coraggiosa carrellata su tutti i motivi più sensibili della tradizione marxista, al contempo con uno spirito militante e rigore storico. A metà tra la storia delle idee e l’interpretazione della dinamica storico-sociale la tesi del filosofo marxista, assolutamente al centro dei dibattiti che agitano la contemporaneità nel campo del pensiero critico, è che abbiamo avuto in sostanza negli ultimi cento anni non un paradigma marxista internazionale, ma almeno due: quello occidentale e quello orientale.

All’origine della divergenza, che a tratti è stata scontro, è una differenza essenziale di priorità, prima ancora che di posizione e ruolo:

Il termine “marxismo occidentale”, certamente una etichetta sommaria, è ripreso da Losurdo da un libro del 1976 di Perry Anderson e da un intervento di Merleau-Ponty che individua con esattezza una divaricazione tra una tendenza a immaginare un progressivo decadimento dell’apparato statale ed una concreta azione per rafforzarlo, al contrario, per utilizzarlo al fine di opporsi all’assoggettamento coloniale. Una utopia verso una pratica concreta, mossa dalla necessità.

Per entrambe le tendenze divaricantesi la data di nascita è il movimento originatosi dalla prima guerra mondiale, quindi dal 1914, e poi ovviamente dal ’17. Il clima spirituale nel quale questi eventi, in occidente, si verificano è del tutto diverso da quello che contemporaneamente sovraintende ai movimenti che in oriente si cristallizzano nella crisi cinese:

Secondo le parole di Losurdo: “a ovest il comunismo e il marxismo sono la verità e l’arma finalmente trovata per far terminare la guerra e divellerne le radici, a Est il comunismo e il marxismo-leninismo sono la verità e l’arma ideologica capaci di porre fine alla stagione di oppressione e di ‘disprezzo’ imposto dal colonialismo e dall’imperialismo” (p.12). Emerge, in queste virgolette, lo schema interpretativo hegeliano dell’autore, il motore dell’azione della storia è il riconoscimento, ed il suo opposto, il disprezzo. Le lotte sono tali per il riconoscimento (una delle versioni contemporanee di questa interpretazione è in Honneth).

Dunque mentre in occidente il patriottismo è letto con crescente sospetto, visto come sentimento connesso con le guerre interimperialiste e bandiera della reazione contro il movimento internazionale dei lavoratori (anche, e soprattutto, su due arene strategiche ed esemplari come la Germania e l’Italia), in oriente al contrario è la bandiera che chiama alla riscossa. Ne è espressione, ad esempio, il primo Ho-Chi Minh.

Dall’altra parte in occidente prevale lo spirito utopico, ad esempio espresso dall’auspicio blochiano della fine dell’economia del denaro, mentre in oriente, si pone quello dello sviluppo economico e delle forze produttive, come indispensabile leva per poter difendere le conquiste sociali dall’aggressione concreta delle forze organizzate del capitale occidentale. Chi sostiene questa posizione, nel punto di passaggio è già Lenin. Mentre Bloch esprime quest’auspicio della fine dell’economia mercantile nel 1918, o Walter Benjamin nel 1920, il capo della rivoluzione russa sposta progressivamente il tiro, e sulla spinta della necessità ridefinisce la priorità dalla posizione della distruzione dello Stato (ai fini della sua ricostruzione) di “Stato e rivoluzione”, del 1917, con la NEP del 1921, in cui lo sviluppo economico di un paese ancora arretrato è il tema cruciale.

Nel 1923, nella famosissima “Lettera al Congresso”, un Lenin ormai morente scrive, infatti:

“sarei pronto a dire che per noi il centro di gravità si sposta sul lavoro culturale, se non fossimo impediti dai rapporti internazionali, dall’obbligo di lottare per la nostra posizione su scala internazionale … davanti a noi si pongono due compiti fondamentali, che costituiscono un’epoca. Si tratta del compito di trasformare il nostro apparato statale, che proprio non vale nulla e che abbiamo ereditato al completo dall’epoca precedente”.

E prosegue:

“il nostro secondo compito consiste nel lavoro culturale fra i contadini. E questo lavoro ha come scopo economico appunto la cooperazione” (in questo riecheggiano i temi dell’ultimo Marx stesso).

Ma, e questo è cruciale:

“questa rivoluzione culturale comporta delle difficoltà incredibili, sia di carattere puramente culturale (poiché siamo analfabeti) che di carattere materiale (poiché per diventare colti è necessario un certo sviluppo dei mezzi materiali di produzione, è necessaria una certa base materiale”.

Questa della “certa base materiale” è l’ultima parola della Lettera. L’ultimo lascito.

Un intelligente e sensibile esponente italiano del “marxismo occidentale”, nel suo ultimo libro “La città del lavoro”, del resto attaccherà Lenin proprio per questo: la certa base materiale si è sovrapposta all’obiettivo della cooperazione, travolgendolo.

La “disciplina di fabbrica”, estesa all’intera società, che il Lenin di “Stato e rivoluzione”, prefigurava (davvero profeticamente) nelle sue ultime pagine del 1917, da “tappa necessaria”, ma da superare, in vista della scomparsa della “necessità di qualsiasi amministrazione”, e anche della democrazia, ormai anche essa “diventata superflua”, si è al contrario affermata e consolidata. In vece “della estinzione di ogni Stato” si è avuta la sua iperaffermazione.

Non si è avuto, cioè, mai il passaggio alla “fase superiore della società comunista”, quella in cui si ha la “completa estinzione dello Stato”, non più necessario perché il controllo e la misurazione del contributo di tutti per gli interessi di ognuno si è “fatto costume”.

Ancora più netto di Lenin è Mao, per il quale c’è diretta identità tra la lotta nazionale e la lotta di classe (L., p.16), e per il quale, in modo in questo non dissimile da Lenin, la tecnologia e la metodica occidentale diventa subito uno degli obiettivi della rivoluzione, e non il moloch che vede Benjamin.

Questa marcata differenza origina da due fonti, per Losurdo: dalla differente tradizione culturale (il messianesimo giudaico-cristiano) e dalle diverse condizioni materiali.

La rivoluzione anticoloniale si impone per chi rischia di esserne schiacciato, mentre più astratti temi di lotta alle ineguaglianze e di critica culturale segnano la differenza nelle condizioni dell’occidente. Lo scontro tra i due marxismi si incarna in quello tra Trockij (che tiene la posizione “occidentale”) e Stalin (che è il campione del “marxismo orientale”).

Nelle posizioni di questi ultimi emergono categorie come “i popoli oppressi” e una netta posizione antimperialista, nei primi faticano ad affermarsi. Al contempo i campioni statuali della reazione, la Germania e l’Italia, si impegnano in un rinnovato imperialismo colonialista. La Germania è sin dall’inizio un progetto di colonizzazione (dell’Est europeo e poi di ogni altra area debole disponibile). Un progetto di colonizzazione imperniato sul razzismo e la più bieca violenza.

Di fronte a questa sfida, letteralmente per la sopravvivenza, emerge allora, e si consolida, un “marxismo orientale” che è indissolubilmente lotta anticoloniale, antimperialista e affermazione di Stati forti e riusciti (come indispensabile mezzo per organizzare una resistenza e affermarne le condizioni materiali). Nel “dilemma di Daniel’son”, se affermare il Mir o puntare su un rapido sviluppo industriale, distruggendolo, alla fine insomma il marxismo orientale (allontanandosi dallo stesso Marx finale), sceglie di vivere. Sceglie il socialismo come concreto progetto di affermazione della propria indipendenza come nazione, e quindi di sopravvivenza come popolo, rispetto a quello idealizzato come palingenesi dell’umanità, proprio della versione occidentale.

I più forti interpreti del marxismo “occidentale”, scelgono invece di non vedere, o non mettere al centro, la questione delle colonie e di farvi astrazione (p. 51).

Ne è esempio per Losurdo il dibattito tra Norberto Bobbio e Togliatti, in cui Della Volpe finisce per inclinare per la valutazione della superiorità dell’occidente nella tradizione della libertà formale lockiana. La circostanza che questa forma di libertà non abbia mai impedito la concretezza dell’assoggettamento, della schiavitù, e del colonialismo più violento, non turba i nostri. Sarà il solo Togliatti a ricordarlo.

Ma va in questa direzione con ancora maggiore determinazione l’operaismo (bersaglio polemico del nostro) e lo strutturalismo, in pratica tutte le più influenti correnti del marxismo occidentale. Così la Scuola di Francoforte nei suoi principali esponenti (Horkheimer e Adorno). Il primo è addirittura accusato da Losurdo di essere filo-colonialista nel momento in cui il suo antiautoritarismo a senso unico lo porta a condannare, dopo il 1942, la rivoluzione Russa perché ha inteso costruire uno Stato per resistere alle invasioni occidentali.

Ma ancora più profondamente si trova in Adorno una sorta di “universalismo imperiale”, che vede la necessità in direzione della storia di un mondo infine unificato nella “umanità ormai visibile” dell’ideale kantiano. L’epoca dei “conflitti mondiali e del potenziale di organizzazione mondiale del mondo”, è letta nel 1966 come occasione per liquidare il nazionalismo dei popoli provinciali ed arretrati.

Arriva fino a scrivere il seguente passo:

“Persino le invasioni dei conquistatori dell’antico Messico e nel Perù, che là devono essere state viste come invasioni da un altro pianeta, hanno contribuito sanguinosamente – in modo irrazionale per gli Atzechi e gli Incas – alla diffusione della società razionale in senso borghese fino ad arrivare alla concezione one world, che inerisce teleologicamente al principio di tale società”. 

Cioè, il colonialismo dell’occidente (quello di Cortés) ha contribuito ad avvicinare alla ragione? Ad un mondo unificato, che è obiettivo teleologico superiore?
Hernàn Cortés Monroy era dunque uno strumento della Ragione?
“Cortés non ha popolo: è un lampo freddo,
un cuore morto dentro l’armatura.
<terre feraci, mio Signore e Re,
templi ove l’oro viene coaugulato
dalle mani dell’indio>
E avanza, affondando pugnali, percuote
le basse terre, le rampanti
cordigliere dei profumi,
ferma le truppe in mezzo alle orchidee
e alle altre corone di pini,
e calpesta i gelsomini,
fino alle porte di Tlaxaca,
(o fratello terrorizzato,
non fidarti dell’avvoltoio rosa:
qui dal muschio io ti parlo,
dalle radici del nostro regno.
Domani verrà pioggia di sangue,
e le tue lacrime finiranno
per formare nebbia, vapore, fiumi,
finché i tuoi occhi si scioglieranno.)
Cortés riceve in dono una colomba,
riceve in dono un fagiano, una cetra
dai musicanti del monarca,
ma vuole altre concessioni: e tutto
entra negli scrigni dei voraci.
Il Re s’affaccia ai balconi:
<E’ mio fratello>, dice. I sassi
Del popolo volano in risposta,
e Cortés arrota i pugnali
sugli stessi abbracci traditi.
Torna a Tlazaca: il vento ha portato
Un rumore sordo di dolori”.
Pablo Neruda, “Canto general”,
III Los Conquistadores,

 

Ci sono, per la verità degli anticolonialismi anche nella tradizione del marxismo occidentale, Losurdo ne fa traccia in Marcuse (che, però, assume comunque una posizione di supporto su Israele, p. 84) e in Sartre, o Lukacs.

Ma “pur caratterizzato da una varietà di posizioni, che vanno da un anticolonialismo convinto ma dalla piattaforma teorica spesso fragile a un filo-colonialismo dichiarato, nel complesso il marxismo occidentale ha mancato l’appuntamento con la rivoluzione anticoloniale mondiale” (p.101).

Ha mancato di riconoscere, cioè, la barbarie dell’occidente.

Una delle parti più vibranti del testo è nell’attacco senza scampo che Losurdo compie al mito di Hannah Arendt, con la sua sistematica rimozione del nesso colonialismo-nazismo, ricondotto solo alla sfocata categoria di “totalitarismo” (ben utilizzabile contro i nemici della sua patria di adozione, l’America) e uno dei riferimenti principali di “Impero” di Negri e Hardt. La completa rimozione della barbarie del colonialismo, al punto di porre in ultima analisi sul banco degli imputati le vittime che si difendono.

Sarebbe da qui che, senza forse avvedersene, dal cuore della guerra fredda e del clima del maccartismo che Negri va a prendere la tesi secondo la quale colonialismo e imperialismo sono estranei agli USA e la dissoluzione dello stato in favore di un impero (generato per meccanica propria e sviluppo della ragione) sia il finale esito dello sviluppo della Storia (p.142).

Ma, certo, il testo se la prende anche con il ’68 e in specie con Foucault e la sua “rimozione dei popoli coloniali dalla storia”. O, abbassando alquanto il livello dell’obiettivo, con Zizek e con David Harvey (p.153).

Tutte queste sarebbero in fondo solo parole, e come Lenin con esse bisogna lottare. Il marxismo in posizioni come quella di Negri diventerebbe, in altri termini, sostanzialmente subalterno all’ordine esistente (in specie all’ordine imperiale esistente), perché “ridotto a religione d’evasione” (p.167).

Invece il marxismo può rinascere solo se si ricollega alla lunga lotta contro il sistema colonialista. Contro tutti i colonialismi. Se si ricollega a quella lotta per “un mondo multipolare”, alla quale chiama, ad esempio, Samir Amin. Una lotta che prevedere anche l’orgogliosa affermazione di una sovranità popolare, e la resa dei conti con il messianesimo. Non bisogna concentrarsi sul futuro remoto, ma sulle concrete possibilità e necessità del presente.

Sulle condizioni materiali e sulla loro carica emancipatrice.

Ovvero, come dice Losurdo, “filosofare piuttosto che profetare”, e sapendo che “la filosofia è il proprio tempo appreso con il pensiero” (Hegel).

Pensare il proprio tempo, dunque: questo qui, proprio ora.

Ritrovando in esso la carica per emanciparlo.

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