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intrasformazione

Crollerà o non crollerà?

di Gianni Rigamonti

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Non proprio da che mondo è mondo, però da che Il capitale è Il capitale, si è sempre discusso se in Marx ci sia o no una teoria del crollo inevitabile del capitalismo. Personalmente sono sempre stato per il no fin dai tempi della mia lettura integrale del Librone, più di quarant’anni fa; ma qui bisogna precisare, innanzitutto, a che cosa mi sento di rispondere “No”. Infatti se riflettiamo su una domanda come “In Marx c’è una teoria del crollo inevitabile del capitalismo?” vediamo subito che va divisa in due, abbastanza diverse:

A) Marx credeva nel crollo inevitabile del capitalismo?

B) Si può desumere dal testo del Capitale che il capitalismo inevitabilmente crollerà?

Sebbene io non legga nemmeno il pensiero dei vivi, figuriamoci quello dei morti, non vedo come non si possa rispondere affermativamente ad A. Tutto quello che sappiamo di Marx va univocamente in direzione del “Sì”. Ma per B le cose sono completamente diverse, e in questa noticina sosterrò che il testo invocato da buona parte degli interpreti per sostenere che Marx dimostra questa faccenda del crollo inevitabile non la dimostra affatto.

Piccola chiosa prima di andare avanti: questo è un problema di cui si discute, come ho già accennato, da quando (1895) grazie alle fatiche di Engels leggiamo tutti e tre i volumi del Capitale, ma fa un effetto un po’ strano riprenderlo oggi che in Europa (non in Asia, e io non so di autori che abbiano cercato seriamente di spiegarsi questa differenza) sono stati i regimi “socialisti” a crollare1. Sono convinto tuttavia – e qui cercherò di mostrare – che la questione conservi un notevole interesse.

 

2.

Preliminarmente ricorderò un punto sul quale, benché sia del tutto ovvio, è bene essere espliciti: la questione del crollo e della sua evitabilità o inevitabilità riguarda non il capitale individuale (la singola impresa capitalistica) ma il capitale complessivo sociale (un’intera società, con tanto di governo centrale, organizzata capitalisticamente: per esempio l’Italia, la Germania, gli Stati Uniti ecc.). Porsi il problema del crollo o non crollo del sistema capitalistico ha senso al secondo livello, non al primo: riguarda il capitale complessivo sociale, non la singola impresa, e l’analisi del capitale complessivo sociale (sviluppata da Marx soprattutto nella terza sezione del secondo volume, La riproduzione e la circolazione del capitale complessivo sociale, e nella seconda del terzo, La trasformazione del profitto in profitto medio) contiene novità importanti rispetto a quella del capitale individuale, affidata al primo volume. Illustrare queste novità non è possibile, in una nota volutamente breve; però è assolutamente necessario tener presente che qui non stiamo parlando della singola impresa capitalistica ma della società capitalistica nel suo insieme. E un punto molto importante, in questo contesto, è che per Marx in una società capitalistica i profitti delle singole imprese convergono verso un livello medio tendenzialmente uguale per tutte – trasformazione, appunto, del profitto in profitto medio.

 

3.

Gli economisti borghesi classici, da Smith in poi, avevano già osservato empiricamente che in un’economia capitalistica il saggio (medio) del profitto, ovvero la frazione P/C2, dove P è il profitto e C il capitale investito, tende a diminuire mentre la quantità assoluta del profitto P tende ad aumentare. Marx cita per esempio questo passo di Ricardo:

Sebbene il saggio di profitto del capitale possa diminuire in seguito all’accumulazione di capitale e all’aumento dei salari, ci attenderemmo un incremento dell’ammontare complessivo dei profitti. Così, supponendo che, per effetto di reiterate accumulazioni di 100.000 sterline, il saggio del profitto debba scendere dal 20% al 19, al 18, al 17, subendo così una diminuzione costante, attenderemmo che il profitto complessivamente ottenuto dai successivi possessori di capitale avesse un incremento costante: che per un capitale di 200.000 sterline esso fosse maggiore che per uno di 100.000, quindi maggiore ancora per uno di 300.000, e che seguitasse così ad accrescersi, pur diminuendo il saggio, ad ogni aumento del capitale3.

Ora, Ricardo si limita a registrare questa tendenza al calo del saggio del profitto e non tenta di dimostrarla; Marx invece cerca di dedurre che man mano che l’accumulazione del capitale prosegue (1) il saggio del profitto, o rapporto fra profitto e capitale, tende a diminuire ma (2) la massa o grandezza assoluta del profitto tende ad aumentare4.

Rispetto a questo problema, i passi decisivi sono concentrati nella terza sezione del terzo volume, La legge della caduta tendenziale del saggio del profitto, e più in particolare nel capitolo XIII, La legge in quanto tale (pp. 259-81 dell’edizione degli Editori Riuniti).

Sebbene Marx sia prolisso e pieno di ripetizioni, fondamentalmente il suo ragionamento è lineare: al procedere dall’accumulazione aumenta la composizione organica del capitale, cioè il rapporto fra capitale costante (macchine, capannoni, materie prime…) e capitale variabile (salari): perciò, supposto uguale il tasso del plusvalore, cioè il rapporto fra la parte del valore aggiunto dal lavoro operaio al capitale costante che finisce in tasca non all’operaio (sotto forma di salario) ma all’imprenditore, costituendo il suo profitto, e la totalità di questo valore aggiunto, il saggio del profitto (non la sua grandezza assoluta) diminuisce man mano che il capitale si accumula. Prendiamo per esempio un capitale di 100: in una fase non molto avanzata dell’accumulazione, è ragionevole supporre che metà di questo capitale sia investita in materie prime e macchinari e metà in salari. Supponiamo inoltre un tasso di sfruttamento del 50%, cioè che metà del valore aggiunto prodotto dagli operai finisca in tasca a loro, e metà al padrone: questo vuol dire che il valore aggiunto alla materia prima (che valeva 50), sarà di 100, quindi alla fine del ciclo la merce a disposizione del capitalista varrà 150: detratti i 50 della materia prima e i 50 dei salari il profitto intascato dal capitalista sarà di 50, cioè la metà dall’investimento iniziale.

E adesso andiamo a una fase più avanzata: c’è stata una grossa accumulazione, ora il capitale iniziale è di 1000. Ma c’è stata (è nella natura del capitalismo) anche una grossa riorganizzazione, per cui meno operai bastano a trasformare più materia prima, e di conseguenza adesso il capitale costante è, poniamo, di 800 e quello variabile di 200. Questo vuol dire che, restando uguale il rapporto fra salari e valore aggiunto, o tasso del plusvalore, adesso il valore aggiunto alla materia prima dal lavoro umano sarà di 400, di cui 200 andranno agli operai e 200 al padrone, costituendo il suo profitto: maggiore in assoluto di quella della fase meno avanzata (aumento della massa del profitto), ma minore in proporzione (diminuzione del saggio del profitto).

Questo è solo un esempio, e solo esempi fa Marx, senza elaborare una formula generale; tuttavia non si limita a constatare, come Ricardo, che di fatto le cose vanno spesso così e presenta il fenomeno come legge, afferma cioè che devono andare così. Ma soprattutto applica questa legge al capitale complessivo sociale: per lui è l’intera economia capitalistica che vede necessariamente crescere la massa del profitto e diminuire il saggio.

 

4.

Ma è il momento di fare qualche citazione. Per esempio:

Se si suppone…che questo graduale cambiamento della composizione del capitale non avvenga soltanto in alcune isolate sfere di produzione ma…in tutte o almeno in quelle di maggiore importanza; se tale cambiamento modifica quindi la composizione organica media del capitale complessivo appartenente a una determinata società, questo costante incremento del capitale costante rispetto al variabile deve necessariamente avere per risultato una graduale diminuzione del saggio generale del profitto…5

E ancora:

La progressiva tendenza alla diminuzione del saggio generale del profitto è…solo un’espressione peculiare al modo di produzione capitalistico…6

Senonché,

Per quanto la legge appaia semplice dopo le illustrazioni fin qui date, l’economia…non è finora riuscita a scoprirla. Essa ha constatato l’esistenza del fenomeno e si è affaticata a spiegarlo in tentativi contraddittori. Data la grande importanza che questa legge ha per la produzione capitalistica, si può dire che essa costituisce il mistero a svelare il quale tutta l’economia politica si è adoperata a partire da Adam Smith7,

salvo che nessuno ce l’aveva fatta prima di Marx – comprensibilmente orgoglioso di avere finalmente svelato l’arcano.

 

5.

Ora, la questione che vorrei mettere al centro, a questo punto, non è se Marx riesca effettivamente a dimostrare che il saggio medio del profitto tende a diminuire8 ma se, data per buona questa tesi, se ne possa oggettivamente dedurre che il capitalismo inevitabilmente collasserà; e desidero metterla al centro perché questo passo in più molti interpreti l’hanno fatto, argomentando che alla lunga il sistema capitalistico non può non crollare proprio perché il saggio del profitto tende inevitabilmente a diminuire.

In realtà il testo del Capitale non autorizza questo passo in più, anzi lo esclude. Poco più avanti dei passaggi appena citati leggiamo infatti, per esempio,

Il numero degli operai impiegati dal capitale, dunque la massa assoluta di lavoro che esso mette in movimento, quindi la massa assoluta di pluslavoro che assorbe, e perciò la massa di plusvalore e la massa assoluta del profitto che produce possono quindi aumentare, anche progressivamente, nonostante la progressiva diminuzione del saggio del profitto. Ciò non solo può , ma deve accadere – eccettuate le oscillazioni temporanee – sulla base della produzione capitalistica9.

E con questo mi sembra proprio che gli interpreti – più d’uno – per i quali Marx non solo parla di crollo inevitabile ma appoggia questa tesi sulla nozione di caduta progressiva del saggio del profitto, siano serviti. Per Marx il saggio del profitto tende sì a calare, ma la sua massa tende a crescere: e come può questa crescita mandare all’aria un sistema di cui è lo scopo centrale? Se il capitalismo crollerà – e per Marx deve crollare, non nel senso di una necessità meccanica ma in quello del dover essere – sarà per altre ragioni.

 

6.

E con questo mi sono schierato a fianco di chi nega che Marx dimostri l’inevitabilità del crollo del capitalismo, e contro quelli che l’affermano. Ma c’è un altro punto che finora, a quanto ne so, non è stato mai discusso e invece, a mio parere, è molto importante: come è possibile che la massa del profitto aumenti e il suo saggio diminuisca, se l’aumento della prima è dovuto al secondo? Abbiamo un quoziente Pv/C, plusvalore su capitale, che può anche essere letto come P/C, profitto su capitale; prescindendo da oscillazioni momentanee e contingenti, entrambe le grandezze continuano ad aumentare ma C, proporzionalmente, aumenta di più, per cui il quoziente diminuisce. In generale non c’è niente di difficile in una simile correlazione quantitativa, però si deve considerare che qui non abbiamo due generiche grandezze, ma una di queste si chiama capitale, l’altra plusvalore, o profitto, e tali grandezze non sono indipendenti l’una dall’altra. Non possiamo assegnare valori man mano crescenti sia alla prima che alla seconda come ci pare, ma dobbiamo rispettare un vincolo: che, detti P1 e C1 il profitto e il capitale di un primo ciclo e P2 e C2 quelli del ciclo successivo, C2 deve essere uguale a P1 + C1, il capitale successivo alla somma del capitale e del profitto precedenti, e questo mette la crescita tendenziale di entrambi, con decrescita del loro rapporto, su un sentiero piuttosto stretto. Se per esempio C1 è 1000 e P1 è 500, C2 sarà 1500, e P2, per rispettare la legge del calo del saggio del profitto ma aumento della sua massa, dovrà essere maggiore di 500 ma minore di 750. Supponiamo per esempio che sia di 600; allora C3 sarà 2100, mentre P3 dovrà essere >600 ma <840, ecc. A ogni passo, Cn+1 = Cn + Pn, mentre Cn x Pn+1 < Cn+1 x Pn. Questo si deduce dalla tesi di Marx che il saggio del profitto tende a calare e la sua grandezza assoluta ad aumentare. È vero che lui non lo dice e ha tutta l’aria di non vederlo, ma la matematica ha leggi severe, in matematica le implicazioni delle nostre asserzioni seguono da queste ultime anche se chi fa le asserzioni le conseguenze non le vede. E le severe leggi della matematica ci dicono che se la successione di due grandezze correlate P e C è tale che a ogni passo Cn+1 = Cn + Pn e inoltre Pn+1/Cn+1 < Pn/Cn , ma Pn+1 > Pn, alla lunga, C – qui il capitale complessivo sociale - avrà anno dopo anno incrementi pressoché uguali mentre P - qui il profitto - si riprodurrà pressoché invariato,m con incrementi trascurabili; e questo è uno scenario che suggerisce stabilità, non crollo. Attenzione, io né dico né credo che il capitalismo sia stabile, come né dico né credo che Marx lo considerasse tale: dico però che se prendiamo sul serio le sue tesi sulla caduta tendenziale del saggio del profitto e la crescita tendenziale della sua massa è qui che esse ci portano oggettivamente. Per vederlo dobbiamo sapere alcune cosine (neanche tantissime) di matematica; ma se le sappiamo, non lo possiamo non vedere.


Note
1 Naturalmente si può discutere se sistemi come quello dell’URSS, della DDR ecc. meritassero la qualifica di “socialisti”, e io sono fra quelli che risponderebbero di no; ma si trattava comunque di realtà che (1) si proclamavano socialiste, e (2) sicuramente non erano capitalistiche.
2 Riferita, ripeto, al capitale complessivo sociale e non alla singola impresa.
3 David Ricardo, Principles of political economy, a cura di McCulloch, 1852, p. 68. Citato da Marx a pag. 273 del III volume del Capitale, Editori Riuniti, 1966.
4 È da notare che Ricardo invece non esclude che al procedere dell’accumulazione la grandezza assoluta del profitto possa anche diminuire. Di seguito al passo citato sopra leggiamo: “…dopo che il capitale è stato accumulato in considerevole quantità…l’ulteriore accumulazione diminuisce la somma totale del profitto. Così, se l’accumulazione è di 1.000.000 di sterline e il profitto è del 7%, l’ammontare complessivo del profitto sarà di 70.000 sterline; ora, se a quel milione si aggiungono 100.000 sterline di capitale e il profitto scende al 6%, i possessori del capitale otterranno 66.000 sterline…” Questa è diminuzione assoluta, e non semplicemente proporzionale. Fatevi i conti, non è difficile.
5 Il capitale, vol. III, p.260.
6 Op. cit., p. 261.
7 Ibidem.
8 A mio parere non lo dimostra affatto; ma, appunto, la cosa che m’interessa è un’altra.
9 Op. cit., p. 266. Corsivi di Marx, neretto mio.
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