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Economicismo o dialettica? Un approccio marxista alla questione europea

di Emiliano Alessandroni

[Con questo saggio di Emiliano Alessandroni, “Marxismo Oggi” intende aprire una discussione approfondita sulla questione europea, e più in generale sulle contraddizioni e i problemi dell’attuale quadro internazionale; una discussione complessa su temi complessi, che dunque intendiamo affrontare evitando semplificazioni e schematismi, in uno spirito di confronto e ricerca critica, utilizzando il metodo scientifico di analisi proprio del marxismo]

sindacalistiSRa Domenico Losurdo
(in memoriam)

1. Gli USA e l'orientalizzazione dell'Europa

Nei periodi storici caratterizzati da profonde crisi – di natura, oltre che economica, anche politica e culturale –, i ragionamenti che governano il dibattito pubblico, ivi compreso lo spazio del dissenso, vedono indebolirsi il campo della riflessione dialettica, contestualmente al rafforzarsi di prospettive meccaniciste e logiche binarie. In tali periodi sono dunque queste ultime a guidare i passi e a tracciare le vie d'uscita dai problemi in cui di volta in volta ci si imbatte, sono queste ultime a orientare i pensieri generali e a forgiare le nostre formae mentis. Così ad esempio, per quanto concerne l'imperialismo, nel mondo intellettuale, non meno che nel senso comune, una convinzione tende ad affermarsi: esso costituisce un atto di soggiogamento politico e militare che si verifica ai danni di un paese economicamente povero e tecnicamente arretrato. Gli Stati dell'Europa, non a caso, vengono pensati il più delle volte in relazione a dinamiche predatorie e molto raramente ai rischi di sottomissione. Eppure la storia non ha fatto mancare gli episodi che smentiscono un simile paradigma. Tra la Prima Coalizione organizzata contro il governo giacobino dopo la Rivoluzione del 1789 e la Guerra franco-prussiana scatenata da Bismarck, la Francia subisce più volte l'aggressione delle altre potenze europee, sebbene successivamente, con le guerre napoleoniche, i ruoli si capovolgano e sarà questo Stato ad assumere la veste dell'invasore straniero contro una Germania ben presto demolita e saccheggiata. Nel corso della Seconda Guerra Mondiale, tuttavia, le parti si invertono nuovamente e con la Repubblica di Vichy metà del territorio francese diventa, nel giro di poco tempo, una sorta di colonia tedesca.

Tale dinamica torna a ripetersi dopo il 1945 con la progressiva penetrazione degli Stati Uniti in territorio europeo, dove si assiste a un incremento sempre più massiccio di postazioni, armi, veicoli, eserciti e testate nucleari americane.

Il cammino dell'imperialismo statunitense, d'altro canto, è sempre stato contrassegnato da un pathos nazionalistico fondato su miti escatologici volti a dipingere gli USA come una nazione che ha ricevuto dalla Provvidenza l'investitura per la guida del mondo. All'interno di una simile trama, l'immagine dell'Europa viene quindi risemantizzata e sottoposta a un processo ideologico di orientalizzazione[1]. Benjamin Franklin e George Washington tacciano gli europei, con eccezione talvolta degli inglesi, come naturalmente «"scuri"» e predisposti al disordine sociale: un popolo barbaro accostabile soltanto ai «"pellerossa"», che come tale ha bisogno di essere educato o castigato. Non diversa l'opinione di Franklin D. Roosevelt, incline a paragonare i metodi europei a quelli degli Unni e dei Vandali. Tale «pretesa di rappresentare l'Occidente autentico», è stato fatto notare, risulta «espressione di una filosofia della storia radicata nella tradizione politica americana. Ad attraversarla in profondità è il mito della translatio imperii dall'Europa e dall'Oriente al di là dell'Atlantico»[2].

Oggi il processo di orientalizzazione dell'Europa da parte degli USA sembra tutt'altro che concluso. Più volte stigmatizzato da Washington e dai suoi simpatizzanti come non sufficientemente ostile al commercio cinese[3] - «fabbrica di avvelenamento globale» e «incubatore di malattie»[4] - il Vecchio Mondo scatena sovente l'ira del presidente Trump che in modo perentorio sentenzia: «l'Europa è peggio della Cina»[5].

Il processo di orientalizzazione procede di pari passo con l'ideologia dell'eccezionalismo americano, all'interno della quale un ruolo importante viene giocato dalla teologia: se dopo il suo insediamento alla Casa Bianca Bill Clinton ha ricordato con toni maiestatici «il patto intercorso tra "i nostri padri fondatori" e "l'Onnipotente"», sottolineando l'eternità della «"missione"» assegnata dal Signore agli USA, per parte sua «George W. Bush ha condotto la sua campagna elettorale proclamando un vero e proprio dogma: "La nostra nazione è eletta da Dio e ha il mandato della storia per essere un modello per il mondo"»[6]. Si tratta di una tendenza destinata a ripresentarsi con la presidenza Obama, che nel 2006 riepilogava in questi termini il suo incontro con la fede: «inginocchiandomi sotto la croce nel South Side di Chicago, sentii lo spirito di Dio che mi chiamava. Mi piegai alla Sua volontà, e mi dedicai a scoprire la Sua verità»[7]. Così Donald Trump, a sua volta, non ha esitato a parlare del popolo americano come di un «"popolo eletto"» che ha «ricevuto "il respiro vitale" dallo stesso "creatore onnipotente"»[8].

Evidente è il ruolo svolto dalla teologia nella costruzione del paradigma americanista, ancora incapace di scrollarsi di dosso i retaggi del Manifest destiny. Si tratta di un aspetto decisivo che mostra una distanza culturale rispetto al Vecchio Continente: «dopo essere stata profondamente segnata dalla grande stagione dell'Illuminismo», già «alla fine dell'Ottocento l'Europa conosce un processo ancora più radicale di secolarizzazione: a ritenere ormai ineluttabile "la morte di Dio" sono sia i seguaci di Marx sia i seguaci di Nietzsche»[9], sicché «dinanzi a quest'ideologia, anzi a questa teologia della missione, l'Europa si è sempre trovata a disagio»[10].

Ma a tale differenza che intercorre tra i due continenti se ne aggiunge un'altra: diversamente da quanto avvenuto negli Stati Uniti, «in Europa i miti genealogici imperiali si sono in una certa misura neutralizzati a vicenda; le famiglie reali erano tutte imparentate tra di loro sicché, nell'ambito di ognuna di esse, si affrontavano idee di missione e miti genealogici imperiali tra loro diversi e contrastanti». In più «a screditare ulteriormente queste genealogie ha provveduto l'esperienza catastrofica di due guerre mondiali»[11].

Vi è infine un ultimo fattore che vale qui la pena considerare. La concezione parziale di uomo nella storia degli USA non ha conosciuto rivali. L'Europa, viceversa, è stata scossa da almeno due rivoluzioni che hanno sprigionato una carica universalistica mai esperita sull'altra sponda dell'Atlantico, dove la Guerra d'Indipendenza si è sviluppata parallelamente a un processo di schiavizzazione dei neri nel Sud e di annientamento degli Indiani ad Ovest. In territorio europeo, invece, la Rivoluzione francese ha innescato la rivolta degli schiavi di Santo Domingo capitanata da Toussaint Louverture – giacobino lettore di Rousseau e Diderot – e la Rivoluzione russa ha alimentato le lotte anticolonialiste in tutto il mondo, debitrici quindi dello spartiacque storico aperto da Lenin – dirigente che a sua volta aveva costruito la propria formazione culturale sui testi di Marx e della filosofia classica tedesca[12]. Con questo slancio universalistico le classi dirigenti europee si vedono dunque costrette a fare i conti, diversamente dall'amministrazione americana, la cui narrazione etnocentrica, oltre a quella escatologica, può godere nel paese di una ben più ampia legittimazione.

 

2. Ipostasi dell'antieuropeismo

2.1. La rimozione degli Stati Uniti

A tale etnocentrismo nazionalista che alimenta il Project for the new american century, la cultura critica del Vecchio Continente ha sempre dedicato scarsa attenzione. Il pensiero critico europeo mostra infatti di non considerare i rischi di guerra planetaria che vengono sempre nuovamente rinfocolati dalla propensione espansiva degli Stati Uniti, mentre si concentra sulle dinamiche economiche che il crescente squilibrio nei rapporti di forza scaturiti dalla Guerra Fredda ha messo in moto. Tale prospettiva elude la dimensione politica, per trincerarsi dietro metodi di lettura dal carattere economicista ed eurocentrico. Il mondo, l'Intero, giungono a curvarsi fino a dissolversi nel perimetro dell'Europa, la cui direzione assume ora le vesti dell'autorità massima, del monarca assoluto. Viene allora affermato da più parti che «l'Unione Europea persegue un obiettivo simile a quello di Hitler»[13], un obiettivo tirannico e assolutista[14], in forza del quale essa è già «diventata il Quarto Reich»[15].

Allo stato attuale la penisola italiana risulta occupata da «59 basi militari americane» (si tratta del «quinto avamposto statunitense nel mondo per numero d’installazioni militari, dopo Germania, con 179 basi, Giappone con 103, Afghanistan con 100 e Corea del Sud con 89»[16]), e da «novanta bombe atomiche»[17] d'oltreoceano; i suoi governi offrono sistematicamente «al Pentagono tutto ciò che vuole»[18], e il territorio viene sottoposto ad una gigantesca operazione di spionaggio da parte di NSA e CIA[19]. Eppure non manca chi continua ad affermare che «l'Italia sta diventando una colonia» della «diarchia tedesco-francese»[20].

Evidente è la rimozione del Project for the new american century, nonché lo snobismo con il quale vengono ignorati o minimizzati i rischi di guerra mondiale che scaturiscono dal conflitto tra le spinte propulsive delle economie emergenti verso un mondo multipolare e la pretesa della nazione più potente del globo, in piena crisi finanziaria, di conservare il proprio dominio anche nei tempi futuri. Quand'anche accada che assuma toni più sobri, non viziati dunque dai riferimenti al nazismo o agli assolutismi del passato, la percentuale più vasta dell'antieuropeismo oggi in voga tende a fondare i propri ragionamenti su questa macroscopica rimozione.

2.2. Il rapporto USA-UE come conflitto tra potenze imperialiste

Nei pochi casi in cui l'orizzonte economicista ed eurocentrico lascia spazio alle prospettive politiche, il tema del nazionalismo belligerante di matrice statunitense penetra all'interno del discorso antieuropeista, dando vita, tuttavia, a due contrastanti ipostasi.

La prima di queste tende a descrivere l'«Unione europea» come «un polo imperialista in concorrenza con gli USA»[21]. Tuttavia, considerati i numerosi moniti lanciati nel corso degli anni dagli USA affinché l'Europa aumenti il budget delle spese militari[22], una domanda si impone: quando mai si è assistito nella storia ad un conflitto tra poli imperialisti in cui uno dei due fronti incoraggia il potenziamento dell'apparato bellico dell'altro? Pesa evidentemente su questa lettura l'esiguo approfondimento scientifico che il concetto di imperialismo ha avuto dopo lo studio di Lenin del 1916. A una tale mancanza si è tentato di supplire attirando l'attenzione sulle parti di quel trattato rimaste prevalentemente in ombra. L'equazione tra «imperialismo» e «stadio monopolistico del capitalismo» non va isolata dagli ulteriori chiarimenti che lo stesso Lenin fornisce di tale categoria. Secondo il dirigente russo, è stato sottolineato, «la guerra tra le potenze imperialistiche interviene allorché i rapporti di forza si modificano a favore della potenza emergente e a danno della potenza sino a quel momento egemone»[23]. Possiamo forse riscontrare, allo stato attuale, un passaggio di testimone dagli USA all'Europa in fatto di potere economico, politico e militare, che vede avanzare l'egemonia del Vecchio Mondo a discapito di quella statunitense? In realtà, tenuto conto dei molteplici ambiti in cui si articolano i rapporti di potere, «è decisamente più grande il distacco che separa la potenza egemone rispetto ai possibili sfidanti» e «non ha senso stare a scrutare l’orizzonte alla ricerca di nubi che preludano ad una futura tempesta militare e ad un futuro scontro tra gli USA e l’Unione Europea [...] Chi pensa che, con la scomparsa dell’Unione Sovietica, e cioè del Paese scaturito dalla Rivoluzione d’Ottobre e dalla lotta contro la carneficina della prima guerra mondiale, il mondo sia tornato alla situazione precedente il 1914, farebbe bene a ricredersi»[24].

In Lenin troviamo inoltre un secondo chiarimento della categoria in questione: «a caratterizzare l'imperialismo», egli spiega, «è "la conquista di terre, diretta non tanto al proprio beneficio quanto ad indebolire l'avversario"»[25]. Tale pratica la possiamo indubbiamente riscontrare nella politica estera degli Stati Uniti: fin dai primi attacchi alla Libia «gli USA miravano sì a "controllare la produzione del greggio mediorientale", ma anche ad "impedire lo svilupparsi delle relazioni economiche tra Libia ed Europa"»[26]. Una situazione analoga si ripresenta con la Seconda guerra del Golfo, scatenata da Washington contro uno Stato che aveva appena deciso di abbandonare il dollaro per assumere l'euro come moneta di scambio internazionale[27], ciò che suscitò il disappunto di Chirac e Schröder (allora l'uno presidente della Francia e l'altro cancelliere della Germania) i quali manifestarono una ferma contrarietà all'aggressione militare americana[28]. I due statisti avevano ben compreso che la guerra ai danni dell'Iraq costituiva anche una guerra contro l'Europa e, nonostante i rapporti di forza fossero in loro netto svantaggio, tentarono di scongiurare l'operazione coloniale statunitense.

Ma se la dinamica descritta da Lenin in relazione all'imperialismo, abbiamo visto, risulta indubbiamente riscontrabile nella politica estera americana, possiamo domandarci quanto essa sia rinvenibile nella politica estera europea: abbiamo mai assistito negli ultimi lustri a un'invasione militare di uno Stato del Terzo Mondo da parte di un esercito europeo orchestrata con l'intento di indebolire gli USA? Il riepilogo delle guerre cui l'UE e i suoi paesi membri hanno partecipato rivela tutt'altro: essi non soltanto non riescono ad opporsi alle aggressioni militari volute dagli Stati Uniti, ma il più delle volte appaiono a queste ultime interamente sottomesse. Tra USA e UE, pertanto, più che un rapporto di competizione sembra sussistere un rapporto di subalternità. Una subalternità che limita in senso unilaterale e particolaristico le sovranità nazionali dei paesi europei. Contro una simile violazione, contro la tracotanza espressa sul piano diplomatico, le ingerenze politiche, i tentativi di sopraffazione economica e l'invasività militare che questi subiscono, i comunisti dovrebbero concentrare le proprie lotte.

2.3. L'Unione europea come propaggine dell'imperialismo americano

L'ultima forma di antieuropeismo, seconda tra quelle che non rimuovono l'esistenza degli Stati Uniti, ricade in una ipostasi uguale e contraria a quella appena osservata. L'UE non appare allora come una forza così potente da costituire una polarità imperialista in competizione con gli Stati Uniti, ma una formazione così debole da non poter essere nient'altro che un loro satellite. La capitale dell'Unione Europea, secondo tale lettura, resta Washington, autentico regista di tutte le politiche ammantate dai vessilli di Bruxelles. Il territorio statunitense si estenderebbe pertanto al di là dell'Atlantico e giungerebbe fino ai confini con la Russia. In tale prospettiva, la dissoluzione dell'UE appare a un tempo come la dissoluzione dell'Impero americano[29]. Se nel caso precedentemente osservato veniva ipostatizzata la differenza (fino a trasformarsi in contraddizione), qui viene ipostatizzata l'identità. L'ipostasi in questione, tuttavia, si fonda ancora una volta su una serie di rimozioni.

Quando nel 2003 gli Stati Uniti progettano l'invasione dell'Iraq incontrano la ferma opposizione della Germania. Il cancelliere tedesco denuncia la politica statunitense come fomentata da una nuova forma di Manifest destiny, dall'ideologia dell'eccezionalismo americano, e da una nuova escatologia della guerra. Egli denuncia quella «sorta di semantica biblica» di cui si compone la narrazione degli USA: «il problema comincia quando si vuol dare l'impressione che le decisioni politiche siano il risultato di una conversazione con Dio»[30]. È una distanza culturale, quella che contraddistingue il mondo politico europeo rispetto a quello americano, emersa nella storia in più di un'occasione. Allorché l'8 gennaio 1918 il Presidente Wilson pronuncia i celebri Quattordici punti di fronte al Senato americano, dall'altra parte dell'Atlantico il primo ministro francese Clemenceau commenta la notizia in questi termini: almeno «il buon Dio aveva avuto la modestia di limitarsi a dieci comandamenti!»[31]. E se «in una lettera, John Maynard Keynes definisce Wilson "il più grande impostore della terra"», dopo la Seconda guerra del Golfo Gehrard Schröder accusa il presidente degli Stati Uniti di aver mentito, di aver diffuso l'idea di un rapporto tra governo iracheno e Al Qaeda del tutto «falsa e costruita». È con questa motivazione che «la Germania» si unisce «alla Russia e alla Francia», divenendo uno dei «più importanti oppositori all'invasione statunitense». Già «nel 2002 l'allora ministro della Giustizia Herta Däubler-Gmelin dichiarò a un giornale tedesco, in riferimento alle politiche irachene della Casa Bianca, che "Bush vuole distrarre la popolazione dalle proprie difficoltà, si tratta di un metodo popolare, Hitler ha fatto la stessa cosa"». Il Presidente americano si dichiara «scioccato e furioso»: difficile, a suo avviso «pensare a qualcosa di più offensivo di essere paragonato a Hitler da un dirigente tedesco»[32]. Questo poco prima che diversi primi ministri e funzionari governativi europei denunciassero la pratica del Waterboarding ordinata dall'amministrazione Bush e le torture perpetrate dall'esercito americano in Iraq nel carcere di Abu Ghraib.

Se queste fratture si attenuano, di certo non scompaiono con l'ascesa di Angela Merkel al governo. Eloquente la vicenda del TTIP, una sorta di tentativo da parte degli USA di colonizzare il mercato europeo in oltraggio ai suoi regolamenti. I negoziati, ha spiegato Sigmar Gabriel, vicecancelliere tedesco e ministro dell’Economia, sono «di fatto falliti perché noi europei non possiamo accettare supinamente le richieste americane». Una vicenda nel corso della quale oltre alla Germania «anche la Francia non ha mai nascosto le sue perplessità per quello che sembrava uno strumento unilaterale americano»[33]. Se pertanto la stessa Italia è riuscita ad evitare «un’invasione di prodotti Ogm e di carni con antibiotici»[34], di «manzo arricchito di ormoni» e di «polli chimici»[35], ciò lo si deve in primo luogo alla caparbietà di Francia e Germania che hanno avuto la forza di far valere i vincoli europei.

Questi attriti tra i due mondi non restano casi isolati: nel gennaio 2015, «la Banca Centrale dell'Iran ha annunciato di abbandonare il dollaro nelle transazioni con i Paesi stranieri [...] tra le valute che saranno utilizzate in futuro in presenza di contratti commerciali, figurano lo yuan, l'euro» e «il rublo russo»[36]. Il 18 aprile 2018, viene ufficializzato un ulteriore avanzamento in questa direzione:

Il governo iraniano ha ordinato a tutte le organizzazioni statali e alle compagnie di sostituire il dollaro americano con l'euro nei loro rendiconti finanziari [...] Il governo ha anche affidato alla banca centrale l'incarico di gestire e annunciare continuamente il tasso di cambio rial / euro.

La decisione viene presa come parte degli sforzi del paese per ridurre la sua dipendenza dalla valuta degli Stati Uniti.

Il governatore della banca centrale Valiollah Seif ha affermato il 9 aprile che il leader supremo Ayatollah Ali Khamenei ha accolto favorevolmente il suo suggerimento di sostituire il dollaro con l'euro nel commercio estero dell'Iran[37].

Comprendiamo allora anche quali siano le ragioni economiche, oltre a quelle politiche, che si celano dietro gli attacchi sferrati dall'amministrazione Trump all'Iran. Attacchi a cui l'UE si è fermamente opposta, denunciando le «decisioni unilaterali» da parte di Washington e tentando «sia di strappare una esenzione permanente dalle ultime misure commerciali, sia di salvaguardare l’intesa con Teheran, proteggendo le imprese europee da sanzioni extraterritoriali americane»[38]. Nel luglio 2018 l'Iran decide di presentare «una denuncia contro gli Stati Uniti davanti alla Corte internazionale di giustizia dell'Onu per chiedere che siano risarciti i danni causati dalla "reimposizione illegale di sanzioni" e per "perseguire le violazioni statunitensi della legge a livello internazionale"» tra cui «il ritiro degli Stati Uniti dall'accordo sul nucleare»[39]. È una sorta di Davide contro Golia la lotta intrapresa dall'Iran per far rispettare il diritto internazionale contro le mire espansioniste dell'asse USA-Israele. Sull'onda di questo scontro così impari, in questi termini si è espresso il portavoce dell'Unione Europea: «continueremo a fare tutto quello che possiamo fare per impedire che questo accordo [l'accordo con l'Iran n.d.r.] venga smantellato [...] a tutt'oggi c'è la determinazione dell'Ue unita, della Cina, della Federazione russa e di altri partner internazionali che stanno mantenendo i loro impegni economici con l'Iran nel rispetto di quanto facciamo noi»[40]. Osserviamo, nel complesso, che mentre l'amministrazione Trump tenta di destabilizzare il governo iraniano, l'UE stipula con esso accordi orientati al reciproco vantaggio.

Restando in ambito mediorientale, non meno rilevanti si sono rivelati gli attriti tra i due mondi in relazione alla questione palestinese. Lo spostamento dell'ambasciata americana a Gerusalemme compiuto dall'amministrazione Trump non ha conquistato il consenso dell'Ue, la quale ha gelato per la seconda volta le pretese di Netanyahu[41] dopo che, appena quattro anni prima - sia pure ancora soltanto «in linea di principio» - aveva riconosciuto lo Stato di Palestina[42]. Indubbiamente la politica dell'Unione Europea verso quella popolazione registra enormi lacune in fatto di democrazia, nonché a tutt'oggi un'eccessiva subalternità al potere degli Stati Uniti. Ma la subalternità, che va giustamente denunciata, non deve offuscare gli elementi di divergenza: mentre Washington approva il colonialismo edilizio portato avanti da Israele e la confisca di terre, l'UE denuncia tale politica come uno sfregio verso qualunque finalità di pace[43]. Nel novembre 2015 la Commissione europea approva una legge sulle etichette dei prodotti israeliani: queste devono ora indicare l'eventuale provenienza delle relative merci dai territori occupati, giacché l'«UE riconosce» la legittimità dello Stato israeliano unicamente entro «i confini del 1967». Di fronte a questa scelta, «dura» è stata «la reazione di Israele che ha deciso di sospendere alcuni dialoghi diplomatici con l’Ue, nel dettaglio quelli su temi politici e diritti umani»[44]. Mentre inoltre la Casa Bianca dimezza (da 125 a 60 milioni di dollari) i fondi destinati all'agenzia dell'Onu che assiste i profughi palestinesi[45], l'Unione Europea critica apertamente la scelta degli USA e tenta di sopperire al taglio americano stanziando un piano di aiuti ai palestinesi per 42,5 milioni di euro[46]. La subalternità del Vecchio Continente al potere di Washington anche per quanto concerne la Palestina dev'essere aspramente criticata, non meno, tuttavia, di quanto debba essere giudicato positivamente ogni tentativo, ancorché timido, di prenderne le distanze. Disprezzare o trascurare questi tentativi equivale a sottrargli la forza e il sostegno per aumentare. D'altro canto, non v'è alcun dubbio che per il popolo palestinese l'Unione Europea costituisca un interlocutore meno insensibile di Israele e degli Stati Uniti.

Agli attriti sin qui osservati si aggiunge la cosiddetta guerra dei dazi. Già avviata nell'era Obama[47], con l'amministrazione Trump abbiamo assistito a un intensificarsi dello scontro, non soltanto economico ma anche verbale: «le relazioni commerciali con Bruxelles sono "molto difficili" e [...] la UE ha barriere commerciali inaccettabili» ha sentenziato il Presidente americano nel suo incontro con il suo omologo francese. Se non vi fosse l'UE tutto andrebbe meglio per il Project for the new american century: «Preferirei trattare solo con la Francia»[48], ha concluso Trump. Da lì in avanti, l'amministrazione USA imporrà all'Europa una serie di imposte[49] che, come è stato osservato, hanno il sapore di vere e proprie sanzioni[50]. Ma la reazione del Vecchio Continente non si è fatta attendere. Oltre alla replica sulle merci americane, abbiamo visto Angela Merkel precipitarsi a Pechino con lo scopo di rafforzare i rapporti con la Cina:

la Germania sotto il profilo diplomatico cerca un'intesa tra Berlino e Pechino fondata su alcune questioni chiave, come il clima, il libero scambio e l'accordo sul nucleare iraniano, da cui gli USA hanno annunciato il ritiro l'8 maggio scorso. Nel corso di una telefonata con Angela Merkel già nel marzo scorso, Xi ha dichiarato che Cina e Germania devono "diventare sostenitori di un nuovo tipo di relazioni internazionali" e rafforzare la partnership nonostante le differenze ideologiche tra i due Paesi[51].

Nello stesso tempo Macron si è recato a San Pietroburgo. Dopo avere invitato Putin a «superare le difficoltà» che sono sorte e «che sorgeranno», a non dimenticare che «la Russia ha il suo percorso, le sue particolarità, ma è parte inseparabile d'Europa», dopo avere sottolineato l'importanza di «lottare per la nostra sovranità» ribadendo che «l'Europa deve avere la sua sovranità finanziaria»[52] non intaccata dagli USA, egli si accinge a firmare con Mosca

oltre 50 fra accordi commerciali e trattati [...] alcuni davvero strategici, come la partecipazione della Total – con una quota del 10% – al prossimo impianto di estrazione e liquefazione del gas artico della Novatek. Una mossa simile a quella della cancelliera tedesca Angela Merkel, che la settimana scorsa, a Sochi, di fatto ha blindato la costruzione del gasdotto Nord Stream 2[53].

Si tratta di accordi destinati a ripercuotersi inevitabilmente anche sul piano ideologico e politico. D'altro canto, come è stato notato, «se l’accordo tra Total e Novatek ha coronato il riavvicinamento tra Putin e Macron, la volontà comune di salvare le intese con Teheran» costituisce «l’occasione per approfondire il legame»[54]. Profondo lo sdegno di Trump, secondo cui «l'Unione europea è brutale nei confronti degli Stati Uniti»[55].

Un'ultima questione va infine considerata: se da un lato «il dipartimento di Stato» americano adotta misure contro Cuba, «ritirando il 60% del personale dell'ambasciata [...] diffondendo un'allerta che sconsiglia ai cittadini americani di recarsi sull'isola», bloccando «il rilascio di visti per i cubani che intendono recarsi negli USA»[56] e reiterando il suo isolamento commerciale, dal canto suo l'UE stigmatizza l'embargo americano a danno dell'isola come un provvedimento antidemocratico che ha il solo effetto di «peggiorare la qualità della vita di donne, uomini e bambini cubani»[57]. Dopo aver siglato nel dicembre 2016 un accordo diplomatico in cui si afferma che «per Cuba e per tutto il Caribe la UE è amica e partner»[58], nel 2018 «una delegazione della banca europea» firma a l'Avana «accordi per 49 milioni di euro» riguardanti «agricoltura sostenibile, energie rinnovabili, cultura»[59]. Non v'è alcun dubbio che non soltanto per il popolo palestinese, ma anche per Cuba l'Unione Europea costituisca un interlocutore senz'altro più ragionevole degli Stati Uniti.

Dello stesso avviso sono anche il governo russo e quello cinese. Con l'aumentare degli attriti tra Bruxelles e Washington, «la Russia» si mostra sempre più «interessata a un'Unione europea unita [...] e prospera»[60], ovvero «ad un'Unione Europea solida che agisca da partner costruttivo e prevedibile, e persegua una politica estera basata sugli interessi europei»[61]. Lo stesso Presidente Putin, dopo aver voluto incontrare Angela Merkel per discutere «dell'implementazione di vasti progetti commerciali congiunti e delle relative minacce provenienti» dagli Stati Uniti[62], ha manifestato la speranza «che Nord Stream 2 miglior[i] la distribuzione del gas in Europa e contribui[sca] al suo sviluppo» ricordando a tal proposito come proprio «la Germania» sia tra i «partner commerciali principali» della Federazione Russa[63].

Ancora più netta la posizione della Repubblica Popolare: senza l'Ue o con un'Unione debole «la Cina è costretta a stringere accordi con ogni singolo paese europeo individualmente», ciò che «rende più lento e complicato il raggiungimento di buoni risultati», possibili unicamente attraverso «relazioni più semplificate a livello sovranazionale». Inoltre l'«Unione Europea» può costituire per la Cina «un buon alleato a livello internazionale per bilanciare il potere degli Stati Uniti»[64]. Non v'è alcun dubbio che, come ha affermato il Premier Li Kequiang, «è nell'interesse della Cina avere un euro forte e un'Europa forte»[65].

Fin dai tempi del dibattito sulla Grexit la dirigenza della Repubblica Popolare ha tenuto a ribadire la propria posizione: «per la Cina è di grande importanza che la Grecia resti nell’euro, e che l’euro resti una valuta forte»[66]. Dopo aver riaffermato il concetto in occasione della Brexit[67], in seguito all'aumento delle frizioni tra Stati Uniti ed Europa, ovvero di quella «applicazione indiscriminata che Trump fa del principio "America First"», la dirigenza del PCC ha affermato di essere pronta «a finanziare un Global Partnership Centre a Sofia che aiuti le società cinesi a comprendere le normative europee»; per poi ancora una volta ribadire: «Pechino è in favore di una Europa unita e prospera e di un euro forte [...] Un’Europa indebolita sarebbe una cattiva notizia per noi»[68].

Una medesima prospettiva fa da traino alla politica del Vietnam: nel novembre 2016 la Repubblica Socialista ha siglato con il Vecchio Continente un trattato in base al quale «il 71% delle esportazioni vietnamite entreranno nell’Unione Europea a dazio zero, a fronte di uno smantellamento del 65% dei dazi all'importazione da parte vietnamita sui prodotti europei». Lo stesso trattato prevede inoltre «che dopo 7 anni, l’Europa liberalizzi quasi tutte le importazioni dal Vietnam e il Vietnam, a sua volta, il 97% delle importazioni europee»[69].

In direzione diametralmente opposta sembra procedere invece la politica statunitense nei confronti dell'Europa: «Non lo si crederebbe dell’Ue, ma sono un nemico» ha sentenziato Donald Trump in un'intervista alla Cbs, un nemico non meno di quanto lo siano Russia e Cina[70]. Comprendiamo allora le invettive contro la «Germania [...] prigioniera della Russia»[71], e i reiterati tentativi da parte dell'inquilino della Casa Bianca di disgregare l'Unione Europea facendo pressione ora su Macron[72], ora su Theresa May[73].

2.4. Il rapporto USA-Ue: né propaggine, né competizione imperialista

Da quanto osservato sin qui possiamo constatare come l'Unione europea non costituisca né un prolungamento dell'imperialismo americano né un polo imperialista in competizione con esso. A confutare entrambe queste tesi – di cui l'una tende ad occultare gli attriti, l'altra ad enfatizzarli – è la tipologia di contraddizioni esistente tra i due fronti: i singoli punti in cui l'UE si trova in contrasto con gli USA assegnano a questi ultimi un carattere particolaristico mentre alla prima una carica universalistica. Se negli Stati Uniti si scorge l'evidente tendenza a conservare il dominio planetario ostacolando qualunque democratizzazione dei rapporti internazionali, nell'UE una tendenza a promuoverli. Ciò non significa che l'Unione Europea sia di per sé un veicolo di democrazia, ma lo costituisce senza dubbio nelle singole occasioni – si ricordi qui oltre al rapporto con Russia e Cina, la questione iraniana, quella palestinese, i rapporti con Cuba e col Vietnam – in cui si trova a collidere con la politica espansionista dell'asse USA-Israele. Questo aspetto vale di per sé a confutare le due ipostasi sopra osservate: l'Unione europea non si trova né in perfetta sintonia, né in assoluto conflitto con gli Stati Uniti d'America. Non si è mai assistito nella storia degli Stati ad un'armonia progettuale con un numero così alto di contraddizioni, né si è mai vista una competizione tra equipotenze imperialiste in cui i contrasti mostrassero tutti una spinta al particolare nell'una e una tendenza all'universale nell'altra.

Tuttavia, giunti a questo punto, una domanda si impone: come valutare il ruolo dell'Europa all'interno dello scacchiere mondiale?

 

3. La Repubblica Popolare Cinese e la Teoria dei tre mondi

In un'intervista rilasciata nell'agosto del 1946 alla giornalista americana Anna Louise Strong, Mao Zedong afferma quanto segue a proposito del ruolo esercitato all'interno dello scenario geopolitico dalla prima potenza mondiale: «Gli Stati Uniti controllano attualmente delle aree più ampie di tutte le passate sfere di influenza britanniche messe insieme», e inoltre «cercano di porre sotto il loro controllo» anche «l'Europa occidentale». A ben vedere, «con vari pretesti» i governi statunitensi che si succedono «adottano provvedimenti militari su vasta scala e installano basi militari in molti paesi». Senza dubbio, prosegue, tali postazioni «sono rivolte contro l’Unione Sovietica. Attualmente, però, non l’Unione Sovietica, ma i paesi in cui queste basi militari vengono installate sono i primi a subire l’aggressione USA»[74].

È una dinamica che si ripete ai giorni nostri: gli Stati Uniti installano postazioni militari in funzione preminentemente antirussa e anticinese. Tuttavia a subire l'aggressione, ovvero l'occupazione militare, sono in primo luogo i paesi in cui queste basi vengono installate, non da ultimi i paesi europei.

L'analisi di Mao risulta carica di ripercussioni sul piano teorico. Lo scacchiere geopolitico non offre una competizione tra diverse forze imperialiste, tra loro grosso modo equipollenti, come era avvenuto nel corso delle Prima Guerra Mondiale, ma registra piuttosto una situazione ben più simile a quella creatasi con i grandi Imperi del passato. Così l'allora Presidente della Repubblica Popolare in una conferenza tenuta a Zhengzhou nel marzo del 1959:

I mongoli ebbero il primo grande impero del mondo: eccetto il Giappone e l’Indonesia, tutta l’Asia e gran parte dell’Europa erano occupate da loro. Il secondo lo ebbe la Gran Bretagna, un impero dove il sole non tramontava mai. Il terzo appartenne a Hitler: egli occupò tutta l’Europa, metà dell’Unione Sovietica e il Nordafrica. Ora il più grande impero è quello di Eisenhower. Controlla infatti tutta l’Europa occidentale, tutta l’America, l’Australia, la Nuova Zelanda, il sud-est asiatico, l’India e anche in Indonesia investe sempre più[75].

Non v'è alcun dubbio, secondo Mao, che «anche nei confronti dei suoi alleati dell’Europa occidentale, dell’America del nord, e dell’Oceania, l’imperialismo USA persegue la politica “del pesce grosso che mangia il pesce piccolo” cercando con tutti i mezzi di schiacciarli sotto i suoi piedi». Non si tratta di un aspetto contingente dell'amministrazione americana, riguardante soltanto questo o quel governo: «Il piano aggressivo dell’imperialismo USA che mira al dominio del mondo intero segue una linea ininterrotta, da Truman passando per Eisenhower e Kennedy fino a Johnson»[76].

Sulla base di questa prospettiva, nel febbraio del 1974, Mao formula i principi di quella che verrà successivamente definita Teoria dei tre mondi:

Sono dell’opinione che gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica costituiscono il primo mondo. Il Giappone, l’Europa e il Canada, sostenitori della linea di centro, appartengono al secondo. Noi apparteniamo al terzo mondo. Il terzo mondo ha una grande popolazione. Tolto il Giappone, tutta l’Asia appartiene al terzo mondo, tutta l’Africa appartiene al terzo mondo e l’America Latina altrettanto[77].

Questo passo non costituisce un discorso isolato e in controtendenza rispetto al pensiero generale, ma un suo coronamento: la Teoria dei tre mondi, in ultima analisi, non è altro che la rielaborazione linguistica di quella Teoria della zona intermedia già formulata dal rivoluzionario cinese in più di un'occasione. Questo, ad esempio, il quadro che viene tracciato nelle Proposte riguardanti la linea generale del movimento comunista internazionale del 1963:

Approfittando della situazione creatasi dopo la Seconda guerra mondiale e sostituendosi ai fascisti tedeschi, italiani e giapponesi, gli imperialisti USA cercano di fondare un immenso impero mondiale senza precedenti. Il loro obiettivo strategico è sempre stato quello di invadere e di dominare la zona intermedia situata fra gli Stati Uniti e il campo socialista, di soffocare la rivoluzione dei popoli e delle nazioni oppresse, di passare alla distruzione dei paesi socialisti e porre in tal modo tutti i popoli e tutti i paesi del mondo, compresi gli alleati degli Stati Uniti, sotto il dominio e la schiavitù del capitale monopolista USA[78].

E ancora, l'anno successivo, Mao getta nuova luce su questa posizione, ribadendone la validità decennale:

Abbiamo detto che ci sono due zone intermedie. L’Asia, l’Africa e l’America Latina costituiscono la prima, l’Europa, il Canada, l’Australia, la Nuova Zelanda e il Giappone costituiscono la seconda. I capitalisti monopolisti giapponesi sono stati truffati dagli USA; noi siamo contro un tale inganno. Una gran quantità di persone accetta questa concezione delle zone intermedie. Io non dico questo oggi per la prima volta, ma l’ho detto già nel 1946. Allora non ho distinto tra una prima e una seconda zona, ma ho parlato solo di una zona intermedia tra l’Unione Sovietica e gli USA che comprendeva anche la Cina. 1946, 1956,1964… sono diciotto anni; sono passati diciotto anni, da quando ho detto questo[79].

L'analisi del Grande Timoniere risulterà determinante nello stabilire la linea politica del PCC e l'atteggiamento che il governo di Pechino assumerà verso l'Europa nei decenni a venire.

Allorché nel settembre del 1973 (siamo ancora sotto la Presidenza Mao) il Primo ministro francese Pompidou si reca in visita in Cina, viene accolto con tutti gli onori da Zhou Enlai che, da parte sua, pronuncerà un discorso fortemente critico nei confronti degli Stati Uniti e delle loro mire egemoniche:

C'è nel mondo un piccolo numero di individui che da sempre si compiacciono ad attentare all'indipendenza altrui. Benché vivano negli anni '70 del XX secolo, essi accarezzano i sogni degli imperatori feudali del XVIII secolo. "Il mondo siamo noi": questa è la loro dottrina e la loro parola d'ordine [...] Essi fanno torto a chiunque rifiuti di obbedirgli e s'infiltrano dovunque possono.

Non v'è alcun dubbio, prosegue Zhou Enlai, che «l'egemonismo e la politica del più forte presto o tardi saranno relegati nel museo della storia dai popoli del mondo». Ed è con l'obbiettivo di accelerare questo risultato che «noi sosteniamo tutte le giuste lotte condotte dai popoli dei diversi paesi», tra cui «i popoli europei che si uniscono per preservare la loro sovranità e la loro indipendenza». Pertanto, conclude, «siamo a favore di questo punto di vista: la causa dell'unità europea, se condotta a termine, contribuirà al miglioramento della situazione in Europa e nel mondo intero»[80].

È una posizione che viene ribadita anche in sede ufficiale e messa nera su bianco come un principio di guida politica: nel Rapporto sulle attività di governo presentato da Zhou Enlai il 13 gennaio 1975, viene scritto quanto segue: «appoggiamo la lotta dei paesi e dei popoli del secondo mondo contro il controllo, le minacce e le vessazioni» di qualunque superpotenza e sosteniamo «gli sforzi compiuti dai paesi dell’Europa occidentale per unirsi in questa lotta»[81].

L'anno precedente – nell'aprile del 1974 – Deng Xiaoping aveva presentato all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite uno scritto nel quale veniva teorizzata la divisione del mondo in tre blocchi, secondo quanto era stato affermato da Mao pochi mesi prima. Ma fu soltanto nel 1977, a un anno dalla sua morte, che la Redazione del Renmin Ribao, organo di stampa a distribuzione planetaria e facente capo al Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese, pubblica La teoria del presidente Mao sulla divisione in tre mondi, importante contributo al marxismo-leninismo.

Si tratta di una teoria, va specificato, che contiene un grave errore di valutazione: l'Unione Sovietica viene inserita nel Primo Mondo assieme agli Stati Uniti e rubricata sotto la categoria di socialimperialismo. Quello stesso Stato che, pur con i limiti e l'ombrosità che lo contraddistinguevano, ha supportato le lotte di liberazione nazionale dall'Africa all'America Latina, dal Vietnam alla Palestina, ovvero tutti i processi di emancipazione contro le politiche coloniali dell'Occidente. Lo stesso Deng Xiaoping se ne rende presto conto e negli anni '80 sottopone a critica serrata le concezioni politiche che indicavano nell'Urss una «superpotenza» imperialista. Nondimeno, l'intera analisi sull'Europa che la Teoria dei tre mondi ci offre conserva a tutt'oggi una sua vitalità.

Giappone, Canada ed Europa, come già spiegato da Mao Zedong, compongono nella lettura del Renmin Ribao il Secondo Mondo. Queste le sue caratteristiche fondamentali: gli Stati che gli appartengono «opprimono e sfruttano le nazioni oppresse ma contemporaneamente sono vittime dell'ingerenza e delle vessazioni delle superpotenze», trovandosi pertanto «in contraddizione sia con il Primo che con il Terzo mondo». Tale aspetto permette loro di conservare «un duplice carattere», ma permette altresì al «Terzo mondo» di «conquistare o attrarre [questa forza] nella lotta contro l'egemonismo».

Si tenga presente che la teoria in questione non vuole possedere una valenza particolare, non si rivolge, vale a dire, unicamente al popolo cinese, ma intende proporsi come una teoria generale di emancipazione per tutti i popoli all'interno di quelle determinate circostanze storiche: «la lotta di classe che si sviluppa in ogni paese è nei fatti inscindibilmente legata a questa lotta di classe a livello mondiale. Di conseguenza la divisione in tre mondi è un bilancio completo dell'analisi delle contraddizioni fondamentali del mondo d'oggi»[82]. Numerose sono le analisi che presentano singolari analogie con gli scenari attuali:

La fondazione del Mercato comune d'Europa occidentale [...] il crollo del sistema monetario del mondo capitalista fondato sul dollaro, l'intensificarsi della guerra commerciale e monetaria tra l'Europa occidentale e il Giappone da una parte e gli Stati Uniti dall'altra, tutti questi fatti hanno contrassegnato la disgregazione di questo campo imperialista con alla testa gli Stati Uniti. Certo, il capitale monopolista d'Europa occidentale, del Giappone e di altri paesi ha ancora mille legami con gli Stati Uniti [...] Ma è anche ben certo che, finché questi ultimi continueranno la loro politica di ingerenza, la lotta che i suddetti paesi conducono contro una tale politica e per delle relazioni di uguaglianza continuerà senza sosta[83].

Viene da pensare, oggi, tanto alla Seconda guerra del Golfo quanto ai ripetuti attacchi statunitensi ai danni dell'Iran. In entrambi i casi, come abbiamo precedentemente osservato, si tratta della medesima forma di attacco statunitense al potere della moneta unica europea. Ma le analogie con il passato ritratto nell'analisi della dirigenza cinese non finiscono qui:

La Gran Bretagna, la Francia, la Germania dell'Ovest e il Giappone si sforzano ancora [...] di mantenere numerosi paesi del Terzo mondo sotto la loro influenza e il loro sfruttamento, ricorrendo a mezzi politici, economici e d'altro genere; ma considerando la situazione nel suo insieme, si può affermare che essi non possono ridiventare la forza principale capace di controllare e di opprimere il Terzo mondo. In certe circostanze, spinti dai loro propri interessi, essi sono persino obbligati a fare alcune concessioni ai paesi del Terzo mondo, oppure ad esprimere il loro sostegno o ad osservare la neutralità nei confronti della lotta di questi ultimi contro l'egemonismo[84].

Ripensando oggi agli attriti tra Unione Europea e Stati Uniti in merito alla questione palestinese e a quella iraniana, ripensando ai rapporti economici e diplomatici stretti dall'UE con Cuba e Vietnam, nonché con Russia e Cina[85] (al 20° Vertice tra Cina ed Unione Europea tenutosi a Pechino, i due blocchi si sono impegnati a costruire un «partenariato strategico globale» che affronti di concerto una serie di sfide come «i cambiamenti climatici, le minacce comuni per la sicurezza, la promozione del multilateralismo e la promozione di un commercio aperto ed equo»[86]), ripensando al progressivo avvicinamento dell'UE verso Stati come lo Sri Lanka e il Perù, risuona profondamente attuale l'ultima constatazione sopra osservata: i paesi del Secondo Mondo «in certe circostanze, spinti dai loro propri interessi [...] sono persino obbligati a fare alcune concessioni ai paesi del Terzo mondo, oppure ad esprimere il loro sostegno o ad osservare le neutralità nei confronti della lotta di questi ultimi contro l'egemonismo».

La convinzione secondo cui l'Occidente non esprime un blocco omogeneo e l'Europa non appartiene al Primo Mondo, l'idea per la quale il Vecchio Continente non costituisce né una semplice propaggine dell'imperialismo americano né una superpotenza ad esso equipollente, la certezza di non dover combattere l'Europa avvicinandola agli USA, ma di allontanarla dagli USA avvicinandola a sé, tutto ciò ha contraddistinto la politica estera di Pechino dalla fondazione della Repubblica fino ai giorni nostri. Eloquenti le parole pronunciate in un'intervista del 2009 dall'allora Presidente Hu Jintao: «Pechino ha attribuito grande importanza ai rapporti con l’UE e la considera come una delle priorità della sua politica estera». Le sue affermazioni non vogliono lasciare spazio ai dubbi: «la Cina sostiene il processo di integrazione europea e accoglie con soddisfazione il suo ruolo sempre più utile e rilevante negli affari internazionali». Evidenti sono, secondo Sergio Romano, le ragioni che stanno a monte di questa politica: la Repubblica Popolare Cinese «desidera una Europa forte perché preferisce un mondo multipolare in cui vi siano forze capaci di contenere e controllare la debordante potenza americana»[87].

A distanza di alcuni anni la linea abbracciata dal nuovo Presidente Xi Jinping non mostra sostanziali mutamenti su questo fronte: il suo impegno in politica estera è diretto anch'esso a costruire «con i nostri amici europei, un ponte di amicizia e cooperazione», ovvero «un partenariato strategico globale sino-europeo, che abbia una maggiore influenza globale». La Cina «desidera far sì che, insieme con l'Unione Europea, il sole della pace dissipi le ombre della guerra». In tale prospettiva, conclude Xi Jinping, «non importa quanto sia cangiante lo scenario internazionale, la Cina sostiene da sempre il processo di integrazione europea e caldeggia un'Unione Europea unita, stabile e prospera, che giochi un ruolo maggiore negli affari internazionali»[88].

Da Pechino, pertanto, ci giunge un contributo di vitale importanza per inquadrare più precisamente la funzione dell'Unione Europea all'interno dello scacchiere mondiale. Essa va collocata nell'orbita del Secondo mondo, e come tale mostra contraddizioni tanto verso i paesi anti-imperialisti quanto verso le mire egemoniche della superpotenza americana. Per questa stessa ragione occorrerebbe scoraggiare quei comportamenti politici che tendono a spingerla nell'alveo del Primo mondo, per supportare, viceversa, quelli che la spingono ad affrancarsi dalle ingerenze statunitensi e dai relativi atti di sottomissione. Per far ciò, tuttavia, porsi in accordo anziché in contrasto rispetto alla linea politica del Partito Comunista Cinese costituisce, per qualunque marxista che intenda vedere sconfitte le pretese egemoniche americane e che abbia a cuore la democratizzazione dei rapporti internazionali, una sorta di imperativo categorico; tanto più che dall'esito della partita tra Stati Uniti e Cina dipenderanno non soltanto le sorti del mondo ma anche il grado d'incidenza del movimento comunista internazionale.

 

4. Isolare e combattere il nemico principale

Al giorno d'oggi neppure le voci più critiche nei confronti dell'Europa danno seguito alle tesi sull'esistenza di un imperialismo europeo. Dacché, infatti, tale organizzazione soffre «la mancanza di uno Stato unitario, di una politica estera, di Forze armate e di polizia europee» risulta piuttosto «difficile» sostenere «che esista oggi un imperialismo europeo in grado di porsi come polo imperialista autonomo o che esistano le basi perché ciò si realizzi in tempi storicamente brevi»[89].

Stando così le cose ancora più inopportune si rivelano le narrazioni che tendono a parlare di conflitti inter-imperialisti, evocando scenari che rinviano direttamente alla Prima Guerra Mondiale. Certo, talvolta si fa riferimento all'imperialismo allorché si parla di Stati come la Francia, la Germania e il Giappone. Eppure si tratta di paesi che oltre ad essere sensibilmente più deboli sul piano economico, politico e ideologico, registrano una forte presenza militare americana nel proprio territorio o a ridosso dei propri confini. Quante, invece, le basi francesi, tedesche e giapponesi negli Stati Uniti? È evidente che in ogni caso, «far riferimento [...] alla dialettica che presiede allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, non ci aiuta in alcun modo a comprendere gli odierni rapporti internazionali»[90].

Piuttosto, come ci aveva suggerito Mao Zedong, è con la Seconda Guerra Mondiale che la situazione geopolitica odierna presenta maggiori analogie: dopo l'Impero di Hitler, che «occupò tutta l’Europa, metà dell’Unione Sovietica e il Nordafrica» attualmente «il più grande impero» è quello americano, che «controlla infatti tutta l’Europa occidentale, tutta l’America, l’Australia, la Nuova Zelanda, il sud-est asiatico, l’India e anche in Indonesia investe sempre più»[91].

Mao pronuncia questo discorso nel marzo del 1959, tuttavia ancora oggi il quadro generale della situazione non sembra aver subito grandi mutazioni. A testimoniarlo un semplice dato: «nel mondo il 96% delle basi militari situate nel paese di qualcun altro sono americane». Gli USA possiedono «circa 800» postazioni militari «dislocate in un'ottantina di nazioni», alcune delle quali «sono quasi delle città, come l'insediamento della Us Air Force a Ramstein, in Germania, o la gigantesca base congiunta Us Navy/Us Air force sull'isola di Diego Garcia, nell'Oceano Indiano»[92].

È pertanto allo scenario della Seconda Guerra Mondiale che occorre fare riferimento per comprendere più adeguatamente le contraddizioni geopolitiche del nostro presente. Scenario, peraltro, che ci ricorda un evento storico piuttosto significativo: nel momento in cui Hitler muove la propria armata contro la Francia, diversi comunisti di quello Stato e non pochi algerini, che pur subivano l'oppressione coloniale da oltre un secolo, si arruolano senza esitazioni nell'esercito dell'imperialismo francese per combattere l'avanzata tedesca. Non diversamente si comporta l'Unione Sovietica, che in funzione anti-tedesca stringe alleanze con gli imperialismi francese e inglese.

Si tratta di un'esperienza da cui Mao Zedong trarrà un importante insegnamento di carattere militare. Insegnamento in grado a sua volta di parlare anche al piano politico:

Nello spiegamento delle forze per una battaglia, quando abbiamo concentrato una forza assolutamente superiore e accerchiato una delle colonne nemiche [...] le nostre formazioni (o unità) d’attacco non devono cercare di annientare simultaneamente, in un sol colpo, tutte le forze nemiche accerchiate, perché così sarebbero portate a dividersi e a colpire in tutte le direzioni, ma in nessun punto con attacchi abbastanza forti, ragione per cui si perderebbe tempo e sarebbe più difficile ottenere dei successi. Al contrario, occorre concentrare una forza assolutamente superiore, cioè una forza sei, cinque, quattro o almeno tre volte quella del nemico, concentrare l’insieme o il grosso dell’artiglieria, scegliere un punto alquanto debole (non due) nelle posizioni nemiche, attaccare con violenza, al fine di vincere a colpo sicuro. Ciò fatto, dobbiamo sfruttare prontamente la vittoria e distruggere a una a una le forze nemiche della colonna[93].

Si tratta di una questione di carattere teorico su cui Mao insiste particolarmente: «nel nostro esercito», spiega, «vi sono ancora numerosi quadri che [...] approvano il principio del concentramento delle forze per annientare quelle nemiche una alla volta, ma che, in pratica, spesso non sanno applicarlo». A che cosa è dovuto un simile comportamento? Essenzialmente, risponde il dirigente del PCC, «a una sottovalutazione del nemico e alla mancanza di un lavoro intenso di educazione e di uno studio approfondito al riguardo»[94]. È una dinamica che si ripresenta ai giorni nostri: l'eurofobia che nella sinistra occidentale scalda i petti di numerosi militanti, è spesso dovuta alla mancanza di uno studio approfondito dei rapporti di forza sul piano geopolitico che porta a sottovalutare il potere degli Stati Uniti, la vastità del loro Impero, il principio dell'America first e la pericolosità del Project for the new american century.

Ma un ulteriore insegnamento, per muoversi adeguatamente all'interno dell'attuale quadro geopolitico, possiamo trarre dalla lezione di Palmiro Togliatti. Al VII Congresso dell'Internazionale Comunista (già una decina di anni prima della Svolta di Salerno e a conflitto mondiale non ancora scoppiato) il segretario del PCI insiste sull'importanza di mettere «i problemi della guerra e della lotta contro la guerra [...] al centro dell'attenzione dell'Internazionale comunista, al centro del lavoro dei nostri partiti». E dopo avere «appoggiato con tutte le nostre forze tutti i movimenti di massa che si sviluppavano sul terreno di una lotta effettiva contro la guerra imperialista», ricorda,

siamo stati criticati. Siamo stati attaccati. Sono state imbastite ogni sorta di teorie e di pseudoteorie sulla base delle quali ci si è sforzati invano di dimostrare che era iniziata una nuova era nella quale il capitalismo si sarebbe sviluppato "pacificamente", senza ricadere nell'errore di una nuova catastrofe mondiale. Siamo stati derisi. Si è detto che eravamo come il ragazzo che grida al lupo senza che il lupo ci sia. Si è cercato con tutti i mezzi di screditare e di sabotare la nostra agitazione e la nostra agitazione contro la guerra[95].

A chi polemicamente faceva notare all'Internazionale che per tutto il periodo in cui i comunisti si erano impegnati a denunciare i pericoli di guerra nessuna guerra era scoppiata, Togliatti replicava «che se lo scatenamento della guerra è stato ritardato, se l'attacco contro l'Unione Sovietica [...] ha potuto essere evitato, lo si deve anche al fatto che noi abbiamo dato l'allarme e che una parte notevole della classe operaia ha ascoltato e seguito il nostro appello»[96]. Questo tuttavia, prosegue, non deve distogliere l'attenzione dai pericoli costantemente in agguato: il mondo capitalistico è in preda ad una crisi che ha provocato un «caos monetario», un «vero stato di guerra economica, premessa e preparazione alla guerra combattuta con le armi»[97]. E in tale situazione il primo compito per i comunisti consisteva nell'isolare «i fomentatori di guerra», vale a dire, su tutti, «il nazionalsocialismo tedesco» che bramava «l'egemonia sul continente europeo» e pensava «di conquistare questa egemonia mettendosi alla testa della crociata reazionaria contro l'Unione Sovietica»[98], paese che, dal canto suo, costituiva «la sola forza stabile, salda, sicura» a fungere da «baluardo di una politica di difesa della pace»[99].

È uno scenario che sembra ripresentarsi ai giorni nostri: nel mezzo di una crisi sistemica che investe il mondo capitalistico, gli Stati Uniti da un lato scatenano una guerra ideologica e commerciale contro l'Unione Europea, dall'altra promettono già solennemente per il prossimo futuro l'aggressione alla Cina: «nei prossimi 5 o 10 anni andremo in guerra nel Mar Cinese Meridionale, non c'è alcun dubbio su questo!»[100], sentenzia Steve Bannon, ex consigliere del Presidente Trump[101].

In una situazione analoga occorreva adoperarsi in ogni modo, secondo Togliatti, per sabotare «i piani di conquista e di guerra controrivoluzionaria»[102], per «tentare di modificar[e] il corso» degli avvenimenti «o almeno di rallentare la corsa verso la guerra»[103], per ostacolare «tutto ciò che costitui[va] una minaccia immediata per la pace»[104]. A tal proposito, sottolineava il comunista italiano, «ogni mese, ogni settimana che noi guadagniamo ha un valore immenso per l'umanità»[105]. D'altro canto, faceva notare, «ogni anno, ogni mese guadagnato è anche per noi una garanzia che l'Unione Sovietica sarà più forte per rispondere all'attacco degli imperialisti. In questo modo, la nostra lotta per la pace si lega direttamente alla politica di pace condotta dall'Unione delle repubbliche socialiste sovietiche»[106]. Come che sia, un principio secondo Togliatti andava tenuto bene a mente: «esiste una identità di scopi tra la politica di pace dell'Unione Sovietica e la politica della classe operaia e dei partiti comunisti nei paesi capitalistici. Questa identità di scopi non può essere oggetto di dubbio nelle nostre file»[107].

Oggi, mutatis mutandis, esiste una identità di scopi tra le classi lavoratrici del mondo occidentale, tra le forze politiche che si richiamano alla tradizione marxista, tra i comitati contro la guerra e la politica di pace promossa dalla Repubblica Popolare Cinese. Un'identità di scopi che, come allora, non dovrebbe essere messa in discussione.

Ma per condurre efficacemente una lotta contro lo scoppio di un conflitto mondiale occorre isolare i «fomentatori di guerra» e far tesoro di un'ultima lezione di Togliatti: «una delle qualità fondamentali dei bolscevichi […], uno dei punti fondamentali della nostra strategia rivoluzionaria è la capacità di comprendere ad ogni istante quale è il nemico principale e di saper concentrare tutte le forze contro questo nemico»[108]. Inequivocabile il suo giudizio: «noi concentriamo oggi il fuoco della nostra lotta sul nemico principale della pace, sul fascismo tedesco»[109].

Valgano qui alcune considerazioni: la lotta che Togliatti e l'Internazionale comunista condussero riuscì a ritardare lo scoppio della guerra per altri 4 anni. Furono questi anni decisivi che permisero all'Unione Sovietica di sviluppare le proprie industrie e il proprio sistema difensivo fino al punto da reggere lo scontro con la Wehrmacht di Hitler. Non v'è alcun dubbio che oggi siano gli Stati Uniti ad accendere uno dopo l'altro, nel mondo, focolai di guerra che possono facilmente deflagrare fino ad assumere una dimensione planetaria. D'altro canto, soltanto per via militare essi possono oggi interrompere un processo storico che tende verso un mondo multipolare, che preme per un accrescimento della democrazia nei rapporti internazionali e dunque, inevitabilmente, per una riduzione di potere dell'Impero americano. Le stesse guerre a cui l'Unione Europea ha partecipato e che l'hanno vista maggiormente coinvolta – si pensi in primo luogo al conflitto contro la Libia di Gheddafi e al colpo di Stato contro l'Ucraina di Janukovyc – sono state guerre a cui essa ha preso parte in modo non omogeneo e, in ogni caso, non da regista. La reale regia di quelle guerre aveva infatti sede a Washington, non a Bruxelles. Non gli USA si sono accodati ad una decisione europea, ma l'Europa si è accodata ad una decisione americana. Questo naturalmente non attenua le responsabilità dell'UE per quanto concerne i massacri compiuti, la violazione del diritto internazionale e i devastanti danni che quelle guerre hanno provocato; tuttavia, costituisce un ulteriore elemento che ci aiuta a comprendere quali siano gli autentici rapporti di forza sul piano internazionale. Al giorno d'oggi, è «contro il pericolo di una guerra scatenata dalla superpotenza che, unica al mondo, continua a ritenersi la "nazione eletta da Dio", dalla superpotenza che da un pezzo aspira a garantire a se stessa "la possibilità di un primo colpo [nucleare] impunito" [...] dalla superpotenza che ha installato anche nel nostro paese basi militari e armi nucleari direttamente o indirettamente controllate da Washington, è contro questo pericolo di guerra concreto che siamo chiamati a lottare»[110].

 

5. L'Unione europea e la questione sociale

Ma la concentrazione delle forze contro il nemico principale, vale a dire, in concreto, l'accettazione della "linea Xi Jinping" sull'Unione Europea contro la "linea Trump", non può rischiare di vedere elusa la questione sociale nel cuore dell'Europa?

5.1. Grexit e Brexit

Posto che la sorte dei lavoratori europei possa essere realmente separata da quella del più vasto Stato del mondo a progettazione socialista, un'ulteriore domanda a questo punto si impone. Siamo sicuri che l'uscita di un paese dall'Unione Europea costituisca di per sé un'operazione politica emancipatrice destinata ad avvantaggiare la condizione dei ceti subalterni? Questa la situazione che un docente ordinario di Scienze Economiche dell'Università di Bologna aveva prospettato in caso di uscita della Grecia dall'euro:

Il processo della Grexit potrebbe essere complicato da governare: nel breve periodo è probabile che produca una reazione a catena di fallimenti di banche e aziende, un crollo del mercato azionario e di quello immobiliare, perdita secca di ricchezza per effetto di patrimoniali sui depositi o dell’inflazione, la caduta della produzione e un’esplosione della disoccupazione e della povertà[111].

Indubbiamente il quadro qui prospettato può apparire catastrofista, nonché viziato da una prospettiva unilaterale. Tuttavia, si tratta di un quadro che, per diversi aspetti, non si discosta molto da quello del più radicale partito antieuropeista della Grecia. Secondo Dimitris Koutsoumpas, segretario generale del KKE, «la soluzione detta Grexit, ovvero l'uscita dall'euro e la creazione di una moneta nazionale, prospettando la continuazione nel nostro paese delle leggi barbare dello sfruttamento capitalistico, non può costituire una via d'uscita a favore del popolo»[112]. Se per il Partito comunista greco l'accordo-memorandum è avvenuto all'insegna di una «politica antipopolare», nondimeno «l'uscita dall'euro» avrebbe potuto determinare «la bancarotta del paese». Come che sia, chi sostiene «che l'uscita della Grecia dall'eurozona, con una moneta svalutata, darà un impulso alla competitività e alla crescita, con conseguenze positive per il popolo, sta ingannando deliberatamente il popolo». Risulta, pertanto, del tutto ingenuo, secondo il KKE, «scegliere» di andare «al fallimento sotto l'euro o sotto la dracma, attraverso una svalutazione interna o esterna», vale a dire scegliere «tra il memorandum e la Grexit»[113].

È stato, d'altro canto, con la mente rivolta ai preoccupanti scenari prodotti dall'eventuale fuoriuscita dall'euro che il popolo greco ha intrapreso l'assalto agli sportelli bancari, ritirando in soli quattro giorni «oltre 3 miliardi di euro»[114]. Si è trattato di un vero e proprio deflusso di denaro con «prelievi massicci di contanti [...] trasferimenti di capitali all’estero in modo lecito o illecito, problemi di cassa per la finanza pubblica», il tutto «accompagnato [...] da mancanza di soldi per gli ospedali»[115] con conseguenze facilmente immaginabili.

Abbiamo visto il KKE ritenere «che una Grecia capitalista con la dracma non rappresenta una soluzione alternativa per il popolo»[116], ovvero che un'uscita capitalistica della Grecia dall'UE non offra ai lavoratori di quel paese maggiori opportunità di migliorare le proprie condizioni sociali di quanto non ne garantisca una sua capitalistica permanenza. In entrambi i casi la classe lavoratrice è destinata a un vero e proprio dissanguamento. Soltanto una soluzione può essere percorsa: avviare un'uscita dall'euro e dall'UE che abbia un'impronta marcatamente socialista. Per il KKE, dunque, non è preferibile in senso assoluto uscire dall'UE anziché restarvi, ma è preferibile uscirne in senso socialista che restarvi in senso capitalista. Tale principio, tuttavia, convincente nella misura in cui postula maggior giustizia sociale in un sistema a economia pianificata, anziché in un sistema capitalistico, sembra sorvolare l'atto pratico: quale socialismo si potrebbe mai costruire in un paese in piena insolvenza, con le banche nazionali prosciugate, le casse dello Stato pressoché vuote e il valore del reddito popolare dimezzato? Su quali ceti si riverserebbe la crisi? Vi sono indubbiamente innumerevoli accuse che possono essere rivolte ad Alexis Tsipras, ma la meno convincente di tutte sembra essere quella di tradimento[117]: dal basso della sua inesperienza il leader di Syriza ha saputo compiere una scelta che, con tutti i limiti del caso, è quantomeno riuscita ad allontanare lo spettro del default.

Un'altra vicenda piuttosto eloquente è quella della Brexit. Se la Cina ha espresso a tal proposito la sua preoccupazione politica ribadendo il desiderio di «un'Unione Europea unita e stabile»[118], di «un'Europa unita per un mondo multipolare»[119], dal canto suo abbiamo già visto il presidente degli Stati Uniti Donald Trump parlare della Brexit come di «una benedizione» e istigare il governo inglese verso «una Brexit dura»[120]. Nel Vecchio Continente la figura di maggior spicco ad aver sostenuto l'uscita della Gran Bretagna dall'Europa è stata Marine Le Pen, capofila nella battaglia per lo ius sanguinis e impegnata in una lotta ideologica per la naturalizzazione delle identità nazionali. In territorio inglese è stato invece Boris Johnson ad aver alzato la bandiera della Brexit: l'ex sindaco di Londra celebrato da Trump, figura di spicco del Partito Conservatore, che ha tuonato più volte contro la Russia, fino a paragonare i mondiali di calcio del 2018 alle Olimpiadi promosse da Hitler nel 1936[121]. Sul versante opposto, viceversa, non troviamo schierato unicamente il mondo liberale: in occasione del referendum del 2016 abbiamo visto entrare sul piede di guerra anche «le Trade Unions» inglesi attraverso un appello «rivolto congiuntamente dai leader di vari sindacati a 6 milioni di iscritti per invitarli a votare al referendum del 23 giugno contro il divorzio da Bruxelles»[122]. Sì, fin dal primo momento «l'associazione dei sindacati britannici Tuc (Trade Union Congress) ha avvertito che l'uscita della Gran Bretagna potrebbe mettere a rischio quattro milioni di posti di lavoro e minacciare i diritti dei lavoratori». E non soltanto per ragioni di carattere economico – «i rischi per tutti i settori legati all'esportazione» tra cui il settore «chimic[o] e» quello delle «automobili», come la probabilità «che il prezzo dei prodotti da esportare aumenterà in caso di uscita dall'Ue» e come il presunto calo degli «investimenti» da parte «di paesi terzi» quale conseguenza della perdita di «accesso ai mercati europei» – ma anche per ragioni politiche. Infatti, continuano i sindacati, «chi sostiene la Brexit non nasconde di voler cancellare le regole europee sul limite massimo di ore lavorative» cosicché «i lavoratori potrebbero essere costretti a lavorare 60-70 ore alla settimana»[123]. Non meraviglia allora che un regista come Ken Loach, certo non un economista né un sociologo, ma indubbiamente figura sensibile alle problematiche del lavoro, pur indicando nell'«Unione Europea» un «progetto neoliberista», ha nondimeno scorto nella Brexit un «pericolo» per i ceti subalterni ben maggiore di quello costituito dall'Ue, in quanto attraverso l'uscita «i singoli governi» tenderanno a spostarsi «il più a destra possibile», bloccando sul nascere l'unica strada percorribile per una lotta emancipatrice finalizzata a un'estensione dei diritti: quella che vede imbastire una lotta politica su scala continentale, cominciando a «stringere alleanze con altri movimenti di sinistra europei»[124]. Nella convinzione che la Brexit sia indirizzata verso tutt'altre mete, «i più grandi sindacati britannici hanno firmato una dichiarazione in cui si chiede al Regno Unito di rimanere nel mercato unico dell'UE», invitando il governo a «sostenere la libera circolazione dei lavoratori qualificati e i principi della regolamentazione dell'orario di lavoro» mantenendo «l'adesione del Regno Unito all'Agenzia europea per la sicurezza aerea (EASA) e all'Agenzia spaziale europea (ESA)»[125].

Una dinamica analoga si ripete oggi in Italia. Non mancano a sinistra gli euroscettici che simpatizzano per l'attuale governo e che sarebbero pronti a sostenere un eventuale referendum voluto da Salvini per un'uscita dall'Ue. Eppure, è stato fatto notare, la «svalutazione della nuova lira» e il conseguente aumento del «tasso di inflazione» determinerebbero «in assenza di meccanismi di indicizzazione dei salari [...] una riduzione dei salari reali» e una accentuazione delle «già elevate diseguaglianze distributive in Italia». Non solo, ma la «ridistribuzione dei trasferimenti pubblici sulla base del “best case regionale”» che il governo vorrebbe promuovere, appare un evidente «richiamo al federalismo fiscale», sicché «l’exit accentuerebbe problemi già esistenti e rilevanti, accelerando ulteriormente le divergenze regionali». Si tenga presente, a tal proposito, che

il 20% delle imprese italiane copre l’80% del totale delle esportazioni italiane e che queste imprese sono quasi tutte localizzate al Nord. In questo scenario, è ragionevole attendersi un ulteriore impoverimento delle regioni meridionali e, come sempre accaduto in Italia con il ricorso alle svalutazioni competitive, un ulteriore freno alle innovazioni. Se infatti le imprese sono poste nella condizione di guadagnare competitività sui mercati internazionali tramite deprezzamento del tasso di cambio, viene meno, per loro, l’incentivo a guadagnare competitività tramite incrementi di produttività e, dunque, tramite introduzione di innovazioni.

In sostanza, questo «exit italiano», lungi dal costituire «un vantaggio per la Nazione», determinerebbe un drastico peggioramento di condizioni delle aree geografiche e dei ceti sociali più deboli[126].

5.2. Rinunciare alla lotta di classe?

Aver mostrato i pericoli, nonché gli arretramenti politici e sociali che si verificherebbero in caso di dissoluzione del progetto Ue, significa accettarne o glorificarne la sua attuale compagine? Ad aver rifiutato questa impostazione è stata in primo luogo la già incontrata redazione del Renmin Ribao:

Non c'è alcun dubbio che affermare che il Secondo mondo è una forza che può essere attratta nella lotta contro l'egemonismo non significa affatto dire che si possono cancellare le contraddizioni tra di esso e il Terzo Mondo così come le contraddizioni di classe all'interno dei paesi del Secondo mondo[127].

Il riconoscimento da parte del Renmin Ribao di «contraddizioni di classe» all'interno del Secondo Mondo implica l'ammissibilità di una lotta sociale all'interno di quel perimetro. A postulare invece implicitamente l'impossibilità di questa lotta sono le posizioni favorevoli all'uscita, che intravedono nell'Unione Europea un assetto irriformabile, vale a dire intrasformabile. La via della fuga viene dunque preferita a quella della lotta: i tentativi di organizzare il mondo del lavoro europeo attorno ad un conflitto di classe lasciano lo spazio allo spirito di abbandono e alle tentazioni separatiste.

Si tratta, a ben vedere, della medesima logica con cui nel 1943 Giovanni A. Mura e Antonio Cassitta diedero vita, nella provincia di Sassari, al Partito Comunista di Sardegna. Postulando l'irriformabilità dello Stato italiano, allora preda di una rigida giurisdizione fascista, il neonato partito riteneva che l'unica strada per l'emancipazione dei contadini e dei lavoratori isolani passasse per una separazione della Sardegna dall'Italia[128]. È una posizione che non si è mai spenta e che riaffiora con particolare insistenza nei momenti più critici di vita della Nazione. Una Nazione che secondo gli indipendentisti istituisce con la Sardegna un rapporto di tipo coloniale, finalizzato a far crescere la speculazione finanziaria a danno dei lavoratori isolani, del territorio, dei diritti e della sovranità nazionale del popolo sardo. Sì, secondo il partito indipendentista Unidos, «lo Stato nega alla Sardegna i diritti fondamentali, dai trasporti all’energia, la tratta come una colonia sottomessa, scaraventa sulla nostra terra tutte le attività più invasive e pericolose, dalle basi militari a quelle inquinanti» ma, prosegue il Partito Sardo d'Azione, «il sentimento sardista adesso è cresciuto in modo clamoroso. Sia quello dichiarato che quello diffuso. Oggi possiamo e dobbiamo adoperarci prioritariamente per promuovere un nuovo schieramento di impronta sardista, sovranista e indipendentista»[129]. Eppure fin dal principio il PCd'I si impegnò a contrastare in tutti i modi la nascita del Partito Comunista di Sardegna, le cui ambizioni tendevano a disgregare l'unità sociale della classe lavoratrice, allora in via di costruzione. La tensione giunse fino all'occupazione da parte di alcuni militanti del PCI della sede di Sassari del PCS[130]. Radicalmente diversa era, d'altro canto, la prospettiva generale del Partito Comunista Italiano: per quest'ultimo non esisteva formazione politica immutabile, ed era ferma convinzione della dirigenza nazionale che i processi di emancipazione si sviluppassero non già separandosi ma unendosi, vale a dire non attraverso le fughe ma attraverso le lotte.

Il medesimo principio può valere oggi, sia per quanto concerne lo Stato italiano che per quanto attiene alla compagine europea.

L'assioma dell'irriformabilità, che orienta le posizioni politiche dell'indipendentismo sardo come dell'antieuropeismo, fa oltre tutto astrazione da un'importante lezione che possiamo desumere dalle analisi di Marx e di Gramsci: gli ordinamenti giuridici non hanno natura divina, né sono scolpiti nel tempo, ma riflettono in qualche modo i rapporti di forza esistenti sul piano politico e sociale. È soltanto attraverso la trasformazione di questi rapporti che è possibile modificare anche quegli ordinamenti. Naturalmente quest'ultima prospettiva gode di minor prestigio rispetto a quella relativa all'uscita. La trasformazione dei rapporti politici e sociali presuppone, invero, un'organizzazione dei ceti subalterni che soltanto la sinistra e i comunisti possono creare. Viceversa, l'uscita dall'UE costituisce un espediente che la sinistra e i comunisti possono anche affidare ad altri; in tal senso questa seconda via risparmia i militanti dal lavoro attivo: con essa non v'è più bisogno di essere presenti e partecipi, di organizzare e lottare, è sufficiente istigare e accodarsi alle battaglie altrui. Non v'è più alcuna necessità di lavorare politicamente, tessere le fila di un'organizzazione: è sufficiente chiedere ai governi Salvini di turno di indire un referendum, cosa che chiunque può fare, qualunque persona ancorché priva di cognizione sociale. Sperimentiamo pertanto, lungo questa via, non soltanto la rinuncia alla lotta di classe, ma anche la rinuncia a un processo di costruzione e irrobustimento della coscienza politica.  

In questa direzione tenta invece di andare il GUE/NGL, la cui struttura necessita senz'altro di un miglioramento sia dal punto di vista della capacità organizzativa e della presenza nelle lotte sociali che da quello della linea politica. Nondimeno tale formazione costituisce un primo tentativo di coordinare una lotta di classe su scala continentale, di tessere una rete che metta in contatto le lotte dei lavoratori all'interno dei diversi Stati nazionali. Parallelamente, andrebbe costruita una rete sindacale europea, in grado di contendere l'egemonia alla CES[131], di far dialogare le realtà operaie dei singoli paesi e far avvertire per mezzo di scioperi, manifestazioni, presidi, comunicati e vertenze il fiato sul collo ai rappresentanti delle istituzioni in carica. Lo stretto coordinamento tra una sinistra anticapitalista europea e una simile rete di sindacati costituirebbe la pietra angolare della lotta di classe e di una riaccensione all'attivo del conflitto sociale. Viceversa, le posizioni divisive che incalzano per un'uscita dall'Europa costituiscono il primo ostacolo alla creazione di una simile saldatura.

È un punto sul quale insiste particolarmente il Partito Comunista Francese. È stato un errore, esso spiega, prendere posizione unicamente «in rapporto alle conseguenze delle politiche europee piuttosto che tentare di cambiarle»[132]. Si tratta di un enorme ritardo che ha comportato enormi perdite sul piano dei diritti sociali: «il Partito comunista francese [...] ha impiegato tanto tempo a considerare che bisognava dall'inizio, dall'identificazione politica europea, intervenire con un progetto globale e comune mentre noi eravamo in una declinazione unicamente nazionale»[133]. Ma da un certo momento in avanti è stata avvertita sulla propria pelle l'urgenza di far fronte a un simile ritardo, è stato avvertito il bisogno «che le forze progressiste si organizz[assero] ad un altro livello oltre quello nazionale senza aver paura che l'una divent[asse] egemonica rispetto alle altre, ed è l'idea che ha portato alla creazione del Partito della Sinistra europea, nato dalla constatazione che "noi non possiamo più, paese per paese, portare avanti una lotta o una riflessione sulle questioni dell'Unione Europea, di fronte al 'rullo compressore' messo in opera, in particolare dagli anni '80, dall'alleanza tra la destra democristiana e la socialdemocrazia"». Occorre pertanto «all'interno stesso dell'istituzione» tentare «di dimostrare che è possibile avere un'altra costruzione europea». Certo, prosegue il PCF, non dobbiamo nasconderci «che si tratta di un'operazione difficile e delicata perché il rapporto delle forze non è a nostro favore», e tuttavia «è la sola strada per mostrare che esiste uno spazio di cooperazione, che c'è la possibilità di avere uno spazio europeo per fare una politica diversa» e «bisogna farlo stando dentro, non stando fuori». Uscire, invero, «sarebbe la dimostrazione che, ormai, non possiamo più cambiare questa istituzione»[134]. D'altro canto, se da un lato i rapporti di forza sono allo stato attuale a netto svantaggio della sinistra, dei ceti subalterni e delle classi lavoratrici, dall'altro lato occorre considerare che anche l'Unione Europea sta attraversando una forte crisi di credibilità, ovvero

che l'Unione europea quale ci è stata "venduta" [...] non ha neanche lei [la] capacità di mobilitare positivamente le folle e vediamo bene che sia sociologicamente sia politicamente i sostegni all'Unione europea attuale si riducono al minimo. Ecco perché nella maggior parte dei paesi viene avanzata la proposta che il centrosinistra lavori con il centrodestra per garantire la stabilità. Ed ecco perché i gruppi dirigenti europei lavorano per fare in modo che i propri interlocutori o oppositori siano solo l'estrema destra o la destra populista, che vogliono uscire dall'Unione europea: è più semplice dialogare con gente che non vuole far parte dello stesso gioco, mentre noi vogliamo essere parte di questo gioco perché noi siamo un'alternativa sia sul piano nazionale che sul piano europeo[135].

Possiamo facilmente accorgerci da quanto visto sopra come il Partito Comunista Francese si rifiuti caparbiamente di rinunciare alla lotta di classe e di accettare come assunto indiscutibile la logica dell'irriformabilità.

Giunti a questo punto sorge tuttavia una domanda: qual è la genesi storica di questa logica? Di quali condizioni sociali essa è il riflesso?

 

6. Gramsci, Lukács e il fascino per il «piccolo mondo»

Oltre alle contraddizioni fin qui osservate, l'antieuropeismo del nostro tempo tende a replicare nei propri ragionamenti un ulteriore errore teorico che consiste nel sovrapporre dimensione economico-sociale e dimensione monetaria. La crisi che stiamo attraversando, pertanto, non viene più presentata come crisi del sistema capitalistico ma unicamente come crisi del sistema euro[136].

Il ricordo di un passato più felice per le condizioni dei lavoratori viene spesso presentato come ricordo di un passato in cui l'Unione Europea non era ancora intervenuta a stravolgerne le esistenze. Ma a ben vedere i processi di privatizzazione selvaggia e di smantellamento del Welfare state, sono cominciati ben prima dell'introduzione dell'euro e sono il risultato non già dell'Unione Europea ma della bruciante sconfitta storica che il mondo socialista ha subito con la perdita della Guerra Fredda[137]. L'Unione Europea, in ultima analisi, non costituisce una diretta emanazione e tanto meno una controfigura del sistema capitalistico, bensì un progetto che vanta secoli alle proprie spalle e che il sistema capitalistico nella sua fase regressiva ha piuttosto governato, imprimendogli il contenuto dei nuovi rapporti di forza emersi dopo il 1989 e da lì in avanti riequilibratisi a tutto svantaggio dei ceti subalterni, privi ormai di qualunque argine protettivo. La nostalgia per il passato si rivela pertanto non già una nostalgia per un mondo non ancora invaso dall'euro, ma per un tempo in cui i rapporti di forza sul piano politico e sociale mantenevano ancora un certo equilibrio.

Torniamo, tuttavia, al quesito che ci siamo posti precedentemente: quali sono le cause storiche e sociali da cui è scaturita la logica dell'irriformabilità? Nei suoi studi sul Faust di Goethe, György Lukács formula alcune riflessioni di carattere storico-sociologico alquanto interessanti:

la lotta della borghesia in ascesa implica, sul piano della tematica artistica, un violento ripudio del “gran mondo” assolutistico-feudale, cui viene polemicamente contrapposto il “piccolo mondo”, moralmente più puro e umanamente più alto della vita borghese […] Ma la rivoluzione inglese e la rivoluzione francese mettono all'ordine del giorno la conquista del “gran mondo” da parte della borghesia.

Queste riflessioni, a ben vedere, non riguardano unicamente il «piano della tematica artistica». Se in una prima fase il cosiddetto Terzo Stato contrappone l'umiltà e l'innocenza dei propri piccoli microcosmi esistenziali alla tracotanza invadente e oppressiva del macrocosmo feudale, specie dopo la Rivoluzione Francese cresce via via la consapevolezza circa la necessità di contrapporsi all'ordinamento feudale sul piano del gran mondo. Man mano che il Terzo Stato sottrarrà parti del macrocosmo all'ancien régime, introducendole all'interno del nuovo organismo a nuova conduzione economica, saranno i residui della vecchia galassia sociale a contrapporre i piccoli possedimenti e la piccola vita individuale all'imponente avanzata del neonato universo organizzativo. Ma vi è di più: fino a quando la borghesia non ha saputo contendere all'aristocrazia il controllo dello Stato conducendo lotte unicamente sul piano del piccolo mondo essa è stata inesorabilmente destinata alla sconfitta.

Si tratta di una questione di cui si occuperà in più frangenti Gramsci nei Quaderni del carcere, allorché denuncia nell'Italia dei Comuni il mancato «sviluppo delle forze nazionali (borghesi) oltre il campo puramente economico-municipale», il fatto cioè che «le “forze” nazionali non divennero “forza” nazionale che dopo la Rivoluzione francese»[138]. Sì, spiega l'intellettuale sardo, «la borghesia comunale non riuscì a superare la fase economica‑corporativa, cioè a creare uno Stato “col consenso dei governati” e passibile di sviluppo. Lo sviluppo statale poteva avvenire solo come principato, non come repubblica comunale»[139]. Abbiamo a che vedere con una forma di impotenza che Gramsci individua nuovamente nell'economicismo novecentesco: «la quistione del così detto “economismo” [...] assume diverse forme e ha diverse manifestazioni concrete». Tra queste rientra «il caso del sindacalismo teorico, in quanto esso si riferisce a un raggruppamento subalterno, al quale [...] si impedisce di diventare mai dominante, di uscire dalla fase economico-corporativa per elevarsi alla fase di egemonia politico-intellettuale nella società civile e diventare dominante nella società politica»[140].

Quando un gruppo sociale si dimostra impotente e non riesce ad elevarsi alla sua fase organizzativa e politica, esso tende ad arenarsi in rivendicazioni di carattere meramente territoriale; così facendo, lascia agli altri il compito della gestione politica. Dopo la fine della Guerra Fredda, infatti, i ceti subalterni europei sono progressivamente retrocessi alla fase economico-corporativa. Eppure, anziché tentare di elevarli a quella intellettuale e politica, gli antieuropeisti preferiscono lasciarli nella fase embrionale e limitarsi a contrapporre il piccolo campo dello Stato-nazione al grande campo del continente europeo. Ma come nell'esperienza dei Comuni medievali, fino a quando essi non giungeranno a competere politicamente sul quel grande mondo in cui la Storia li ha portati e che i ceti possidenti gestiscono attraverso le loro, sia pur conflittuali, espressioni politiche, saranno sempre, inesorabilmente, destinati alla sconfitta. La logica dell'irriformabilità si rivela allora, in ultima istanza, una logica dell'impotenza, un riflesso intellettuale della fase di regressione economico-corporativa.

 

7. Il PCI e l'Europa

Come abbiamo precedentemente sottolineato, l'idea di un'Europa unita verso cui dovrebbero convergere i singoli Stati nazionali è tutt'altro che un'idea recente. Essa inizia a circolare, in età moderna, poco dopo lo scoppio della Rivoluzione Francese. Una delle personalità più illustri a parlarne è Napoleone Bonaparte a Sant'Elena, non molto prima di quel 1831 in cui lo scienziato polacco Wojciech Jastrzębowski pubblica un trattato, composto da diverse decine di articoli, dal titolo The Treatise on the Eternal Union among the Civilized Nations – the Constitution for Europe[141]. In Francia è Victor Hugo a incoraggiare questa idea, al punto da piantare, a scopo simbolico, un albero sull'isola di Guernsey la cui crescita avrebbe dovuto accompagnare la nascita degli Stati Uniti d'Europa, mentre in Germania è Michael Bakunin a vedere di buon occhio l'idea di una convergenza politica continentale. In Italia Carlo Cattaneo lancia il progetto di un'Europa federale, mentre Luigi Einaudi scrive su La Stampa del 20 agosto1897 un articolo dal titolo Gli Stati Uniti d'Europa. Nel 1922 Richard Nikolaus di Coudenhove-Kalergi dà vita all'associazione Paneuropa all'interno della quale per la prima volta venne adottata l'espressione Unione Europea. Membro onorario di questa associazione diviene ben presto il primo ministro della Repubblica francese Aristide Briand, che nel settembre del 1929 di fronte all'assemblea della Società delle Nazioni pronuncia un discorso finalizzato a incoraggiare la costruzione di una Unione federale europea, progetto a cui tenterà di dar vita anche il suo successore Édouard Herriot pubblicando nel 1930 un volume che, come l'articolo di Einaudi, assumerà anch'esso per titolo Gli Stati Uniti d'Europa[142].

Possiamo dunque osservare come il processo di convergenza europea non sia il risultato di circostanze meramente contingenti, ma il prodotto di una necessità storica di lunga data. Nello stesso periodo in cui Herriot pubblica il suo volume, Antonio Gramsci in carcere scrive queste riflessioni:

La storia contemporanea offre un modello per comprendere il passato italiano: esiste oggi una coscienza culturale europea ed esiste una serie di manifestazioni di intellettuali e uomini politici che sostengono la necessità di una unione europea: si può anche dire che il processo storico tende a questa unione e che esistono molte forze materiali che solo in questa unione potranno svilupparsi: se fra x anni questa unione sarà realizzata la parola "nazionalismo" avrà lo stesso valore archeologico che l’attuale "municipalismo"[143].

Si tengano qui presenti alcune questioni: allorché Gramsci scrive queste note i rapporti di forza sul piano europeo erano tutto fuorché vantaggiosi per i ceti subalterni. Il processo di convergenza che l'ex segretario generale del PCd'I saluta con favore era tutt'altro che un processo socialista. L'unificazione europea poteva avere a quel tempo, nella migliore delle ipotesi, soltanto una matrice liberale. Nondimeno l'intellettuale sardo scorge in quel progetto una tendenza storica della modernità conforme al processo di unificazione del genere umano e di per sé indipendente dal liberalismo. In secondo luogo, la nota in questione si trova all'interno di un paragrafo dei Quaderni che reca per titolo Il Risorgimento italiano e che si apre con una profonda riflessione su questo tema. Tale paragrafo istituisce dunque un parallelismo tra il progetto di convergenza europea e il processo di unificazione dello Stato italiano.

Processo, quest'ultimo, che si è svolto – diremmo oggi – "a due velocità", con la netta egemonia delle regioni più ricche e industriali del Nord a discapito delle regioni meridionali, e con una speculazione da parte di latifondisti e industriali sulla pelle dei contadini e degli operai. Come fa notare Gramsci in quello stesso paragrafo:

L’unità nazionale ha avuto un certo sviluppo e non un altro e di questo sviluppo fu motore lo Stato piemontese e la dinastia Savoia [...] dopo il 48, dopo cioè la sconfitta della destra e del centro politico piemontese e l’avvento dei liberali con Cavour [...] Ma i liberali di Cavour non sono dei giacobini nazionali: essi in realtà superano la destra del Solaro, ma non qualitativamente, perché concepiscono l’unità come allargamento dello Stato piemontese e del patrimonio della dinastia, non come movimento nazionale dal basso, ma come conquista regia[144].

L'Unità d'Italia è dunque avvenuta promuovendo squilibri territoriali e divaricazioni sociali, ed è proprio per questo che Gramsci sviluppa tutta una serie di note critiche contro le modalità con cui l'unificazione è stata costruita. Nondimeno, liquidare il processo di unità nazionale appiattendolo unicamente sulle sue modalità, costituirebbe un modo, a suo avviso, di gettare via il bambino assieme all'acqua sporca. Il fenomeno del brigantaggio che affonda le radici nella «mancanza di quell'unità sociale capace di accorpare attorno al nuovo Stato tutte le classi, delle città e delle campagne, del Nord e del Sud», ovvero nelle modalità di costruzione dell'Unità d'Italia, ha finito per assumere un contenuto politico oggettivamente reazionario quando, anziché proiettarsi verso una diversa forma di Unità nazionale, ha finito per combattere quest'ultima nella sua stessa natura, nella sua stessa tendenza storica, come nel «clamoroso esempio della Repubblica partenopea del 1799, quando il cardinale Fabrizio Ruffo, esponente di punta della grande nobiltà reazionaria e borbonica, abilmente e acutamente sfruttò e guidò l'insurrezione antigiacobina dell'Italia meridionale, manovrando sapientemente l'avversione che i contadini, soprattutto i nullatenenti e quelli maggiormente vessati dai latifondisti cosentini e catanzaresi, nutrivano per i proprietari borghesi e per i signori feudali»[145]. Nonostante quest'aspra critica rivolta alle modalità di costruzione dell'Unità, Gramsci non esprime alcun giudizio politico favorevole verso le tentazioni vandeane, suscettibili, a suo avviso, di ostacolare il cammino della modernità molto più di quegli squilibri territoriali e di quelle divaricazioni sociali che hanno contraddistinto il processo risorgimentale.

Questo stesso approccio verrà progressivamente assunto dal PCI nel suo rapporto con il percorso di costruzione dell'Unione Europea. Il primo gennaio 1958 entrano in vigore i trattati (di natura neoliberista) per la realizzazione del Mercato Comune Europeo (MEC). Il 17 maggio dello stesso anno esce sulla rivista del PCI Vie Nuove un articolo di Antonio Presenti, economista del Partito, membro della Costituente e docente ordinario di economia politica presso le università di Pisa e di Roma. Il giudizio sulle modalità neoliberiste di costruzione del mercato comune è fortemente negativo: «Il MEC [...] dal punto di vista economico nazionale significa per l'Italia una grave rovina». Ma il suo approccio, si badi bene, risulta critico, non liquidatorio: la denuncia riguarda, vale a dire, le modalità di costruzione del MEC non il progetto in quanto tale. Una volta appurata infatti la sua natura classista e neoliberista come occorre comportarsi? «Vi è una soluzione» afferma «o dobbiamo rimanere ancorati al protezionismo del passato e alla nostra arretratezza economica? Siamo noi comunisti, come spesso ci accusano, tenaci conservatori in campo economico? No certamente: la soluzione vi è», ed essa certamente «non consiste nella pura e semplice sospensione dell'applicazione del MEC»[146]. L'articolo prosegue con una serie di proposte economiche per trasformare nel profondo la fisionomia del processo di integrazione europea.

Nel dicembre del 1959 Eugenio Peggio farà notare su Politica ed economia come «il governo americano» fosse «passato da un atteggiamento decisamente favorevole a un giudizio più riservato nei confronti del MEC, man mano che si sono venuti manifestando il declino dell'industria americana sul mercato capitalistico e gli elementi di crisi nel sistema dell'Alleanza atlantica», sicché «oggi la diplomazia americana mentre chiede la fine delle discriminazioni europee ai danni delle esportazioni americane» (una sorta di questione TTIP ante litteram potremmo dire), «e l'ampliamento delle liberalizzazioni dell'area del dollaro, propone», a un tempo, che l'intesa tra i paesi membri del MEC «avvenga nell'ambito di un più vasto accordo che comprenda tutti i paesi della NATO»[147].

Su Rinascita del 1963, infine, Togliatti scriverà un intervento indubbiamente durissimo contro l'europeismo liberale. Quest'ultimo ha dato vita, a suo avviso, ad una serie di movimenti che «non sono mai stati, effettivamente, movimenti che si battessero sul terreno della democrazia e non sono quindi riusciti ad animare e realizzare, nei paesi dell'Europa occidentale, un vero progresso democratico». Negli stessi organismi politici che l'Europa si è data, come lo stesso Parlamento, «i grandi monopoli capitalistici privati non hanno trovato e non potevano trovare alcuna forza che contrastasse il loro dominio». Al contrario: hanno trovato «uno strumento attraverso il quale questo dominio si è sempre più rafforzato»[148]. Nondimeno, in tutto l'articolo, Togliatti non prospetta una sola volta l'uscita dell'Italia da questo Parlamento e dal processo di costruzione della futura Unione Europea. Se già nel novembre del 1948 aveva sottolineato «che la sovranità degli Stati non possa né debba intendersi in modo assoluto» e che «le limitazioni alla sovranità assoluta degli Stati risalgono al giorno in cui ha cominciato a esistere una “comunità” di Stati», se già aveva parlato di alcune «limitazioni della sovranità assoluta degli Stati che possono servire a preparare uno sviluppo pacifico»[149], nell'articolo del 1963, come si evince fin dal titolo (Un europeismo democratico) Togliatti non propende per una fuoriuscita dello Stato italiano dal processo di convergenza, ma per una lotta in vista di una sua ridefinizione. Propende dunque non già per un antieuropeismo, ma per la costruzione «di una corrente europeista democratica» che, dopo avere denunciato il carattere classista della costruzione in corso, studi e si impegni per «creare una situazione diversa», in quanto i comunisti non possono sostenere «un possibile ritorno alle chiusure doganali e alle rivalità economiche nazionali, le quali, del resto, sono oggi tutt'altro che scomparse». No, i comunisti ritengono «che il processo oggettivo di avvicinamento e integrazione economica debba essere accompagnato da un parallelo processo di sviluppo economico democratico» e che lo «strumento di questo processo debbono essere le riforme di struttura [...] deve essere un movimento sindacale internazionale» e «deve essere un movimento democratico di opinione pubblica, nel quale le classi operaie, con tutti i loro partiti politici, assumano una parte decisiva». A una tale «visione organica e completa di questa necessità» il nazionalismo antieuropeistico non riesce ad arrivare, ma non vi riescono, come Togliatti sottolinea, neppure «i movimenti europeistici oggi esistenti» inclini come sono a proseguire «per la vecchia strada, che non è la strada della democrazia», bensì «di una burocrazia asservita al grande capitale monopolistico»[150].

Si tratta di una convinzione comune anche a Luigi Longo, come emerge dal suo invito rivolto ai compagni di partito a dare «più organicità alle rivendicazioni che noi poniamo e attraverso cui giungiamo a rivendicare la trasformazione degli indirizzi e della struttura del MEC»[151].

Su questa linea si colloca altresì la prospettiva europea di Enrico Berlinguer – non casualmente sottoscritta anche da Nilde Iotti[152] – che alle elezioni europee del 1979 spinge per la candidatura di Altiero Spinelli come indipendente nelle liste del PCI. Questi, pur riconoscendo lo iato tra la costruzione dell'Europa in atto e la propria visione di collaborazione continentale, nonché gli squilibri che esso stava producendo, nega fermamente «che la via d'uscita dalla crisi della Comunità europea» potesse «consistere nel ripiegamento di ogni singolo Stato sulla sua peculiare identità, nel rinchiudersi nelle particolarità dei propri interessi…non ha senso per chi abbia un minimo di lungimiranza e sappia guardare non solo ai tempi brevi ma anche a quelli medi e lunghi»[153].

Nel settembre dell'anno precedente Berlinguer aveva espresso al Parlamento europeo profonda preoccupazione per «la tendenza a un crescente declino della Comunità quale potenza economica e commerciale rispetto agli scorsi decenni». Egli faceva notare come il settore più colpito da questo declino, che poneva l'Europa in una posizione sensibilmente più arretrata rispetto agli Stati Uniti e al Giappone, fosse «in primo luogo quello delle tecnologie più avanzate, decisive per un futuro ormai cominciato, come quelle legate all'informazione, alle comunicazioni, all'automazione, alla biotecnologia». Un declino che rischiava «di relegare l'intera Europa» nel giro di alcuni anni «ad un ruolo di supplenza economica rispetto alle altre aree più sviluppate». La connotazione liberale e capitalistica del processo di costruzione vieniva individuata come la principale causa di tale declino: «noi pensiamo», prosegue Berlinguer,

che la causa principale della crisi che colpisce la Comunità e i suoi Stati membri sia costituita dal prevalere di una concezione di corto respiro, che ha portato e porta i governi ad anteporre la difesa di ristretti interessi immediati a quelli più profondi e duraturi dei loro popoli e dell'Europa occidentale nel suo insieme. Deriva da ciò una linea di condotta che non va al di là di compromessi a basso livello. Si conferma così che le vecchie classi dominanti, i gruppi economici e politici che hanno finora prevalso nella Comunità non sono capaci di guidare un processo che imprima all'Europa lo slancio innovatore e quindi l'autonomia di iniziativa di cui ha bisogno per affrontare le grandi sfide degli anni '80 e per affermare nel mondo la sua funzione di progresso e di pace. Noi pensiamo che per raggiungere questo obiettivo è divenuto indispensabile che esso sia fatto proprio dalle classi lavoratrici in tutte le loro espressioni.

Ma se l'attuale processo di convergenza europea era caratterizzato da concezioni «di corto respiro», dal dominio di «interessi immediati», da «compromessi a basso livello» e dall'incapacità di assumere «l'autonomia dell'iniziativa» (è quest'ultimo punto un evidente riferimento alla subalternità dell'Europa occidentale al potere degli Stati Uniti), non meno deplorevole si presentava ai suoi occhi l'euroscetticismo:

Comprendiamo le diffidenze che esistono in certi settori della sinistra di fronte alla presente realtà sociale e politica della Comunità, ma a noi sembra che tali diffidenze dovrebbero essere superate davanti a tanti fatti e dati che provano come una maggiore cooperazione e integrazione corrisponda agli interessi più vitali dell'Europa e, in primo luogo, a quelli della classe operaia, dei lavori intellettuali, delle donne, della gioventù. La dimensione comunitaria è quella adeguata per far fronte con una vera forza economica, politica e culturale alle sfide e alle trasformazioni del nostro tempo. Ed è anche una dimensione che crea un terreno nuovo, certo, ma più ampio e più favorevole all'unità delle classi lavoratrici e alla loro lotta per trasformare l'attuale stato di cose, caratterizzato dalla sostanziale prevalenza degli interessi dei grandi gruppi monopolistici[154].

Le riflessioni di Enrico Berlinguer sull'Europa presentano una serie di analogie con quelle formulate da Gramsci nei Quaderni del carcere. Una delle preoccupazioni che muove il primo e in virtù delle quali egli propende per un processo di convergenza europea, è il ritardo economico e tecnologico che i paesi del Vecchio Continente nel loro isolamento potevano contrarre, in primo luogo, rispetto alla superpotenza americana; ritardo che rischiava di costituire un elemento di subordinazione. Abbiamo visto infatti lanciare al Parlamento europeo l'allarme per la condizione di arretratezza in cui ancora l'Europa versava rispetto a USA e Giappone in fatto di tecnologie avanzate «come quelle legate all'informazione, alle comunicazioni, all'automazione, alla biotecnologia»[155]. Analogamente, nei Quaderni Gramsci si pone il problema di come «creare le condizioni generali» affinché le forze economiche possano «nascere e svilupparsi sul modello degli altri paesi». È in tale prospettiva che saluta con favore l'emergere di «una coscienza culturale europea» e la «serie di manifestazioni di intellettuali e uomini politici che sostengono la necessità di una unione europea»: non soltanto perché «il processo storico tende a questa unione», ma anche in quanto «esistono molte forze materiali che solo in questa unione potranno svilupparsi»[156].

Esiste tuttavia un altro aspetto delle riflessioni di Berlinguer che sembrano rinviare a Gramsci. Al Parlamento europeo il Segretario del PCI presenta due opposte idee di Europa. La prima, che dominava gli scenari politici del tempo, definita come «concezione di corto respiro»[157], e una seconda suscettibile di promuovere «un processo di lungo respiro»[158]. Le categorie qui impiegate di corto e lungo respiro mostrano un'oggettiva affinità semantica con la distinzione compiuta da Gramsci nei Quaderni tra piccola politica e grande politica:

Grande politica (alta politica) ‑ piccola politica (politica del giorno per giorno, politica parlamentare, di corridoio, d’intrigo). La grande politica comprende le quistioni connesse con la fondazione di nuovi Stati, con la lotta per la distruzione, la difesa, la conservazione di determinate strutture organiche economico‑sociali. La piccola politica le quistioni parziali e quotidiane che si pongono nell’interno di una struttura già stabilita per le lotte di preminenza tra le diverse frazioni di una stessa classe politica. È pertanto grande politica il tentare di escludere la grande politica dall’ambito interno della vita statale e di ridurre tutto a piccola politica[159].

A tal proposito è stato fatto notare non soltanto come oggi sia attraverso «l'esclusione della grande politica che si presenta l'egemonia borghese nell'epoca del neoliberalismo»[160], ma anche come la «frantumazione dei movimenti sociali in varie lotte settoriali – che, quando slegate dal loro rapporto con una prospettiva universale, non mettono in questione la denominazione del capitale e, in conseguenza, possono essere da esso assimilate» – costituisca «un importante contributo al trionfo della piccola politica»[161]. Pertanto, in larga parte dell'attuale scenario politico dell'Occidente «l'offensiva neoliberale non ha [...] come retroterra nessuna questione di grande politica: nella disputa tra repubblicani e democratici negli Stati Uniti» ad esempio «non è in gioco nessuna alternativa tra diversi modelli di società» e i «contrasti non vanno oltre i limiti della “piccola politica”»[162].

Lo sforzo compiuto da Berlinguer per imbastire una lotta fondata su una prospettiva di lungo respiro costituiva anche un modo per portare la grande politica nel teatro dello scontro europeo. Viceversa, l'esaltazione dell'europeismo neoliberale e dell'antieuropeismo che unisce sovente nel proprio campo di battaglia anime di destra e di sinistra in nome della lotta contro la tirannia a dodici stelle, costituiscono due modi per tarpare le ali alla nascita di una grande politica nello scenario europeo e alla riorganizzazione di una sinistra di classe su scala continentale. Il progetto del PCI ha dunque sempre avuto e ha ancora oggi due nemici complementari contro cui combattere per potere realizzarsi, o quantomeno cominciare ad avere una qualche forma di efficacia politica.

 

8. Una fenice dalle ceneri?

Un'ultima concezione che anima l'antieuropeismo oggi in voga nella sinistra d'Occidente è quella secondo cui l'eventuale ricostruzione di un'Europa sociale dovrebbe passare per un azzeramento dell'attuale assetto politico dell'Unione. Nei Quaderni del carcere Gramsci critica l'«economismo» e il relativo atteggiamento scettico «verso la volontà, l’azione e l’iniziativa politica, come se esse non fossero espressione dell’economia e anzi l’espressione efficiente dell’economia». Tuttavia, specifica, «non sempre l’economismo è contrario all’azione politica e al partito politico, che viene però considerato come organismo educativo di tipo sindacale. La così detta “intransigenza” è una forma di economismo: così la “formula tanto peggio tanto meglio”»[163]. Quest'ultima viene evidentemente considerata da Gramsci una forma di economismo, in quanto non tiene debitamente in conto che l'annullamento di un determinato quadro economico-politico non può avvenire senza alterare il livello di coscienza legata a quel determinato quadro. Se pure la costruzione dell'Unità d'Italia è avvenuta attraverso squilibri territoriali e divaricazioni sociali, la distruzione di quella neonata Unità avrebbe fatto arretrare spaventosamente anche la coscienza politica unitaria e risorgimentale. Nulla avrebbe in sostanza garantito che dalle ceneri sarebbe potuta risorgere una fenice, più forte e robusta della precedente: le ceneri avrebbero potuto, al contrario, produrre soltanto fanghiglia. Così nel rifiuto della dirigenza del PCI di sostituire, per quanto concerne il processo di costruzione dell'Unione Europea, la logica della trasformazione con quella della distruzione e rigenerazione, sembra risiedere anche l'idea secondo cui l'eventuale annullamento del processo di convergenza avrebbe determinato in tutti gli Stati anche uno spaventoso arretramento della coscienza europea – e della stessa forma mentis delle masse – che si sarebbe inevitabilmente divisa e rimpicciolita. Non è un caso che Gramsci accusi l'economismo di ragionare in termini meccanicisti e di non saper far uso del ragionamento dialettico, alla cui base risiede il principio per cui la sintesi non costituisce un annullamento della situazione precedente ma una sua Aufhebung, un suo superamento, inteso questo come processo che pone fine e al contempo conserva gli elementi più elevati dello stadio storico precedente.

 

9. Conclusioni

Da quanto osservato fin qui possiamo ben comprendere la necessità, per una sinistra che non voglia assumere configurazioni particolaristiche – restando vittima ideologica della propria impotenza – ma intenda farsi promotrice di un Universale concreto, di impostare diversamente la lotta relativa alla questione europea. Tre sono le procedure politiche che una tale sinistra dovrebbe mettere in atto. In primo luogo, è necessario avviare una battaglia contro il Project for the new american century, che tenda ad isolare l'asse USA-Israele e spinga l'Europa verso una maggiore «autonomia d'iniziativa», vale a dire verso uno sganciamento dalla Nato, dal potere degli Stati Uniti e dalle loro ripetute ingerenze, si manifestino queste per via diplomatica o attraverso l'installazione di basi militari. In secondo luogo, occorre avviare una lotta politica per un'estensione dell'Unione Europea che non si limiti al perimetro occidentale ma comprenda l'intero «spazio tra l'Atlantico e gli Urali»[164], secondo quanto suggerito da Togliatti, una lotta volta a stringere maggiori rapporti con le economie emergenti e in particolare con Russia e Cina per la costruzione di un mondo multipolare e una maggiore democrazia nei rapporti internazionali. In terzo luogo, è opportuno organizzare le energie in vista di un maggior coordinamento politico tra le sinistre anticapitaliste europee, al fine di imbastire all'interno dell'Europa una lotta di classe per maggiori diritti sociali, per una dignità del lavoro, per una pianificazione economica indirizzata allo sviluppo delle forze produttive del continente.

Queste tre procedure tracciano la via alla sinistra e alle forze comuniste per contrastare l'attuale euromania liberale, senza concedere un solo passo a quelle forme di eurofobia che contraddistinguono oggi, nel perimetro del Vecchio Mondo, i tradizionalismi nazionalistici delle destre estreme.


Note
[1]Sui processi di "orientalizzazione" cfr. E. Said, Orientalismo. L'immagine europea dell'Oriente, [1978], Feltrinelli, Milano, 2013.
[2]D. Losurdo, L'America come autentico Occidente e la condanna dell'Europa come Oriente, in Id., Il linguaggio dell'Impero. Lessico dell'ideologia americana, Laterza, Roma-Bari, 2007.
[3]'Ue ambigua su commercio Cina, gelo Washington', ANSA, 12-08-2016.
[4]Cfr. il noto volume (vero e proprio manifesto della sinofobia americana) del docente chiamato da Trump alla Casa Bianca come consigliere per le politiche economiche e commerciali: P. Navarro, Death by China: Confronting the Dragon – A Global Call to Action, Pearson Prentice Hall, New Jersey, 2011.
[5]Trump a Macron, 'Ue peggio della Cina', ANSA, 11-06-2018.
[6]D. Losurdo, Il linguaggio dell'impero, cit., pp. 105-106.
[7]Obama’s 2006 Speech on Faith and Politics, The New York Times, 28-06-2006; cfr. anche A. Gisotti, Dio e Obama. Fede e politica alla Casa Bianca, Effata, Cantalupa (TO), 2010.
[8]A. Melloni, Chi è Dio nell'America di Trump, La Repubblica, 21-01-2017.
[9]D. Losurdo, cit., p. 103.
[10]Ivi, p. 107.
[11]Ivi, p. 208.
[12]Su quest'ultimo punto, cfr. E. Alessandroni, Nei Quaderni filosofici di Lenin: lo studio della Logica hegeliana e la lettura del tempo presente, in Materialismo storico, 1, 2018.
[13]Brexit, parole shock di Johnson: "Ue simile a Hitler", La Repubblica, 15-05-2016.
[14]Cfr, G. Palma, La dittatura dell'Europa e dell'Euro. Viaggio breve nel tessuto dell'eurocrazia, GDS, Vaprio d'Adda (MI9, 2014; I. Magli, La dittatura europea, Rizzoli, Milano 2010.
[15]Così ad es. A. Bagnai, in E. Chicca, Economista: “Europa è diventata Quarto Reich”, Wall Street Italia, 14-02-2017.
[16]V. Leone, Il Pentagono e le basi militari Usa in Italia, Atlante di geopolitica Treccani, 14-08-2013.
[17]In Italia 90 bombe atomiche Usa, La Stampa 15-09-2007.
[18]V. Leona, cit.
[19]Datagate in Europa, il Guardian: “Cimici Usa anche all’ambasciata italiana”, Il Fatto Quotidiano, 30-06-2013; S. Maurizi, Così la Cia ci spia: Wikileaks pubblica migliaia di file riservati sull'Agenzia, La Repubblica, 07-03-2017.
[20]E. Grazzini, Italia, colonia di Francia e Germania. La lezione è una sola: non contare sull’Europa, Il Fatto Quotidiano, 04-08-2014.
[21]Unione Europea: un polo imperialista in concorrenza con gli USA, l'ernesto, 01-09-2003; cfr. anche, L. Vasapollo, H. Jaffe, H. Galarza, Introduzione alla storia e alla logica dell'imperialismo, Jaca Book, Milano, 2005; Unione Europea. Uno spazio comune o un polo imperialista?, Contropiano, 10-03-2016.
[22]O. Sacchelli, Obama agli alleati europei: aumentate le spese militari, Il Giornale, 03-06-2014; S. Morosi, Nato, Trump chiede agli alleati di raddoppiare la spesa militare e chiede di destinare il 4% del Pil, Corriere della Sera, 11-07-2018. A tal proposito due elementi vanno messi in evidenza: da un lato gli USA, per ragioni economiche, incoraggiano i paesi europei all'acquisto di armi, F35 e veicoli militari di fabbricazione statunitense, dall'altro premono verso l'Europa per un maggior investimento di denaro nella NATO. Questi due elementi testimoniano rispettivamente la sicurezza che gli USA possiedono della propria superiorità militare – tale da non temere, nel breve e memdio priodo, rivali esterni in territorio europeo – e la certezza di trovarsi assieme all'Europa all'interno di un'Alleanza di cui essi possono vantare il pieno controllo.
[23]D. Losurdo, Esiste oggi un imperialismo europeo?, L'Ernesto, 01-09-2004. Consultabile ora al seguente indirizzo internet: http://www.marx21.it/rivista/19194-esiste-oggi-un-imperialismo-europeo-.html.
[24]Ivi.
[25]D. Losurdo, La dottrina Bush e l'imperialismo planetario, L'Ernesto, novembre-dicembre 2002.
[26]Ivi.
[27]Petrolio: Iraq più vantaggioso passare dal dollaro all'euro, Adnkronos, 30-10-2000.
[28]Francia e Germania, no alla guerra in Iraq, Corriere della Sera, 22-01-2003; Chirac e Schröder: al Consiglio la maggioranza è contro gli Usa, Il Sole 24 Ore, 25-02-1003.
[29]Così ad es. Morris Mottale, docente di relazioni internazionali, politica comparata e studi strategici presso la facoltà di Scienze Politiche della Franklin University, cfr. "L’Unione europea? È un prodotto americano", Il Giornale, 04-12-2015.
[30]C. Hawley, Bush-Schröder Enmity Continues in Memoirs, Spiegel online, 10-11-2010.
[31]Clemenceau, cit. In D. Losurdo, Il linguaggio dell'Impero, cit., p. 107.
[32]C. Hawley, cit.
[33]La Germania: “Fallito il negoziato tra Usa e Ue sul Ttip”, La Stampa, 28-08-2016.
[34]I timori: un’invasione di Ogm e danni alle piccole e medie imprese, La Stampa, 29-08-2016.
[35]Ttip: Il trattato commerciale tra Stati Uniti e Ue è un patto avvelenato, L'Espresso, 26-05-2016.
[36]E. Holodny, Iran Is Ditching The Dollar In Foreign Trade, Business Insider, 27-01-2015.
[37]Iran replaces dollar with euro in financial reporting, Tehran Times, 18-04-2018.
[38]B. Romano, Vertice di Sofia: Iran, i leader Ue difendono l’accordo dallo strappo di Trump, Il Sole 24 Ore, 17-05-2018.
[39]Iran denuncia gli Usa all'Aja, 17-07-2018.
[40]Iran: Mogherini, non cancellare accordo, ANSA, 16-07-2018
[41]Gerusalemme, l'Ue gela Netanyahu: "Non seguiremo gli Usa". Putin: "Trump sbaglia", Rai News, 11-12-2017; La Ue: Gerusalemme è anche palestinese, Corriere della Sera, 09-12-2017.
[42]Cfr. M. Sfregola, L’Ue ‘riconosce’ lo Stato di Palestina, Israele s’infuria, Il Fatto Quotidiano, 17-12-2014; Parlamento Ue, riconoscere la Palestina, ANSA, 17-12-2014.
[43]Ue condanna nuove case a Gerusalemme est, ANSA, 03-10-2014.
[44]Cambia la norma Ue sulle etichette dei prodotti israeliani: si saprà se arrivano dagli insediamenti, La Stampa, 11-11-2015.
[45]Gli Usa tagliano a metà i fondi all’agenzia Onu che assiste i profughi palestinesi, La Stampa, 16-01-2018.
[46]Ue, aiuti da 42,5 mln per i palestinesi, ANSA, 31-01-2018.
[47]La guerra commerciale USA-UE non nasce con Trump, ma nell’era Obama, Investire Oggi, 02-04-2017.
[48]Asse Trump-Macron alla Casa Bianca, ma resta il nodo Iran, ANSA, 25-04-2018.
[49]Dazi, da mezzanotte scattano quelli Usa con la Ue. Juncker: «È protezionismo», Corriere della Sera, 31-05-2018.
[50]Putin, dazi Usa sono 'sanzioni' per l'Ue, ANSA, 07-06-2018.
[51]Merkel a Pechino, rafforzata l'intesa Germania-Cina, Rai News 24-05-2018.
[52]Iran: Macron, gli accordi si rispettano, ANSA 25-05-2018.
[53]La strana alleanza tra Macron e Putin contro Trump, ANSA, 26-05-2018.
[54]A. Scott, Macron, da San Pietroburgo sfida a Trump, Total raddoppia in Russia, Il Sole 24 Ore, 25-05-2018; sui rapporti tra Germania, Francia e Russia per un'indipendenza dell'Europa cfr. il volume di H. de Grossouvre, Parigi, Berlino, Mosca. Geopolitica dell'indipendenza europea, Fazi Editore, Roma 2004.
[55]Trump: "Europa brutale con Usa", AdnKronos, 09-06-2018.
[56]Usa, nuove tensioni con Cuba: stop a visti e viaggi, via il 60% dello staff ambasciata, Il Messaggero, 29-09-2017.
[57]Mogherini a Cuba: "l'embargo non è la soluzione", Il Sole 24 Ore, 04-01-2018.
[58]Ue-Cuba, firmato nuovo accordo per normalizzazione rapporti, ANSA, 12-12-2016.
[59]
[60]Putin, 'vogliamo Unione Europea forte', ANSA, 04-06-2018.
[61]Lavrov: la Russia è interessata ad un'Unione Europea solida, SputnikNews, 10-05-2018.
[62]Putin-Merkel discuteranno minacce Usa, ANSA, 17-08-2018.
[63]Putin, Nord Stream 2 rafforzerà Europa, ANSA 19-08-2018.
[64]F. L. Grotti, I rapporti Europa-Cina in chiaroscuro: come Pechino percepisce la UE, Asian Waves, 14-5-2014.
[65]E. Buzzetti, Li a Bruxelles promette sostegno a Ue e Grecia, Agi 30-06-2015.
[66]I. Maria Sala, La Cina tifa per la Grecia nell’euro: “Trovate un accordo”, La Stampa, 30-06-2015.
[67]Brexit: Cina, serve Ue stabile e unita, ANSA, 27-06-2016.
[68]S. Carrer, Dazi, la Cina rilancia l’offensiva economica dai Balcani: «Vogliamo un’Europa forte», Il Sole 24 Ore, 08-07-2018.
[69]Ue-Vietnam, come funziona l'accordo sul libero scambio, Agi, 23-11-2016.
[70]Trump: «Ue nostro nemico, e in parte anche Russia e Cina», Corriere della Sera, 15-07-2018; Trump: «Ue nostro nemico, rapporti con la Russia mai peggio di così», Il Sole 24 Ore, 15-07-2018; Trump contro Russia, Ue e Cina: "Sono nostri nemici", AdnKronos, 15-07-2018.
[71]Trump, Germania prigioniera della Russia, ANSA 11-07-2018.
[72]M. Valsania, L’invito di Trump a Macron: «Perché non esci dalla Ue?». E gli propone un’intesa Usa-Francia, Il Sole 24 Ore, 29-06-2018.
[73]Trump, la Brexit è una benedizione, ANSA 13-07-2018; May, Trump m'ha detto: 'Denuncia l'Unione Europea', ANSA 15-07-2018.
[74]Mao Tse-Tung, Opere, Rapporti Sociali, Milano 1991-1994, vol. 10, p. 53.
[75]Ivi, vol 17, pp. 135-136.
[76]Ivi, vol 20, pp. 29-30.
[77]Ivi, vol. 25, p. 91.
[78]Ivi, vol. 20, p. 91.
[79]Ivi, vol 21, p. 184.
[80]Ciu En-lai, Appoggio alle lotte dei paesi e popoli del secondo mondo, in Id., Scritti e discorsi, Editrice popolare, Milano 1978
[81]Zhou Enlai, Rapporto sulle attività di governo, in Mao Zedong, cit., vol. 25, p. 140.
[82]Redazione del Renmin Ribao, La divisione in tre mondi, una tesi scientifica marxista sulla situazione mondiale attuale, in Id., La teoria del presidente Mao sulla divisione in tre mondi. Un importante contributo al marxismo-leninismo, Casa editrice in lingue estere, Pechino, 1977.
[83]Ivi, Il Secondo mondo è una forza suscettibile di essere attratta nella lotta contro l'egemonismo, in Id., cit., p. 20.
[84]Ibidem.
[85]S. Carrer, La Ue stringe con Cina e Giappone in chiave anti Trump, Il Sole 24 Ore, 16-06-2018; P. Mastrolilli, Pechino chiama Bruxelles: "Facciamo un patto contro Trump", La Stampa 05-07-2018; Vertice Ue
[86]Vertice UE-Cina: approfondire il partenariato strategico globale, Comunicato stampa – Commissione europea, 16-07-2018. Il documento è consultabile al seguente indirizzo internet: http://europa.eu/rapid/press-release_IP-18-4521_it.htm.
[87]S. Romano, La mano tesa di Hu all’Europa, Corriere della Sera, 04-07-2009.
[88]Xi Jinping, Costruire un ponte di amicizia e cooperazione attraverso il continente eurasiatico, in Id., Governare la Cina, Giunti, Firenze, 2016, pp. 352-354.
[89]D. Moro, La gabbia dell'euro, Imprimatur, Reggio Emilia, 2018, p. 81.
[90]D. Losurdo, Esiste oggi un imperialismo europeo?, cit.
[91]Mao Tse-Tung, cit., vol 17, p. 136.
[92]J. Hamsen, Gli Usa hanno 800 basi militari in tutto il mondo (in 80 nazioni), ItaliaOggi, 06-10-2015.
[93]Mao Zedong, Concentrare una forza superiore per distruggere le forze nemiche una alla volta, in Id., cit., vol 10, p. 58.
[94]Ibidem.
[95]P. Togliatti, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma, 1974, p. 180.
[96]Ivi, p. 181.
[97]Ivi, p. 185.
[98]Ivi, p. 196.
[99]Ivi, p. 190.
[100]Steve Bannon: 'We're going to war in the South China Sea [...] no doubt', The Guardian, 02-02-2017.
[101]A tal proposito è la stessa stampa cinese che prevede nel futuro un esclation di tensioni tra Stati Uniti e Cina dagli esiti imprevedibili. Cfr. su ciò: China will not surrender to US threatening tactic, People's Daily, 06-08-2018.
[102]P. Togliatti, cit., p. 198.
[103]Ivi, p. 201.
[104]Ivi, p. 207.
[105]Ivi, p. 213.
[106]Ivi, p. 217.
[107] Ivi, p. 227.
[108] Ivi, p. 197.
[109] Ivi, p. 201.
[110] D. Losurdo, «Concentrare tutte le forze» contro «il nemico principale». Togliatti e la lotta per la pace ieri e oggi, Marx XXI, 08-03-2017.
[111] P. Manasse, Grexit, chi ci guadagna?, Il Sole 24 Ore, 05-07-2015.
[112] Dal sito ufficiale del KKE: 24° Weekend Antimperialista della Gioventù Comunista di Grecia (KNE): I comunisti in prima linea nelle lotte, 13.07.2015, consultabile al seguente indirizzo internet: http://it.kke.gr/it/articles/24-Weekend-Antimperialista-della-Gioventu-Comunista-di-Grecia-KNE-I-comunisti-in-prima-linea-nelle-lotte/.
[113] Ivi, NO al memorandum di "sinistra", http://it.kke.gr/it/articles/NO-al-memorandum-di-sinistra/; cfr anche: Il KKE si oppone al pieno accordo antipopolare dei partiti borghesi, 07-07-2015: http://it.kke.gr/it/articles/Il-KKE-si-oppone-al-pieno-accordo-antipopolare-dei-partiti-borghesi/.
[114] Grecia, è corsa agli sportelli bancari. La Bce aumenta liquidità di emergenza, Il Fatto Quotidiano, 19-06-2015.
[115] B. Scienza, Uscita dall’euro, ovvero l’inizio di un disastro, Il Fatto Quotidiano, 21-08-2016.
[116] Nessuna resa! La lotta del popolo lavoratore è la via d'uscita!, 16.07.2015: http://it.kke.gr/it/articles/Nessuna-resa-La-lotta-del-popolo-lavoratore-e-la-via-duscita/.
[117] Per una critica di questa categoria cfr. D. Losurdo, "Fallimento", "tradimento", "processo di apprendimento". Tre approcci nella lettura del movimento comunista, in Id., Fuga falla storia? La rivoluzione russa e la rivoluzione cinese oggi, La Scuola di Pitagora, Napoli, 2012.
[118] Brexit: Cina, serve Ue stabile e unita, ANSA, 27-06-2016;
[119] Pechino avverte Londra, la Brexit non ci piace, Agi, 22-06-2016.
[120] L. Ippolito, La spallata di Trump a May: «Meglio Brexit dura, Boris ottimo premier», Corriere della Sera, 13-07-2018.
[121] Boris Johnson compares Russian World Cup to Hitler's 1936 Olympics, The Guardian, 21-03-2018.
[122] Brexit: appello pro-Ue dei sindacati, ANSA 06-06-2016.
[123] Gb. Sindacati contro Brexit "quattro milioni di posti di lavoro sono in pericolo. Rischi legati all'esportazione", Tribuna Politica, 16-05-2016.
[124] Ken Loach: I'm pro-EU, but it's 'not doing us any favours at the moment', The Guardian, 13-05-2016.
[125] D. MacShane, Trade unions are speaking out against Brexit – when will Labour start to listen?, Indipendent, 01-02-2018.
[126] G. F. Davanzati, Come la Lega ci porterebbe fuori dall’euro e con quali conseguenze, MicroMega, 30-05-2018.
[127] Renmin Ribao, cit.
[128] Cfr. G. A. Mura, Sardegna irredenta, Gastaldi Editore, Milano 1953.
[129] L. Secci, La Sardegna che vorrebbe l’indipendenza come i catalani, La Stampa, 09-11-2015.
[130] Cfr. P. Pisu, Partito Comunista di Sardegna. Storia di un sogno interrotto, Insula, Nùoro, 1996.
[131] La Confederazione Europea dei Sindacati che si attesta su posizioni piuttosto moderate.
[132] G. Garnier, Il Pcf e la questione europea, in P. Ciofi – G. Lopez, Berlinguer e l'Europa. I fondamenti di un nuovo socialismo, Editori Riuniti, Roma 2016, p. 123.
[133] Ivi, p. 125.
[134] Ivi, p. 124.
[135] Ivi, pp. 125-126.
[136] Cfr. J. E. Stiglitz, Euro: How a Common Currency Threatens the Future of Europe, W. W. Norton & Company, New York-London, 2016.
[137] Cfr. su ciò D. Losurdo, Democrazia o bonapartismo. Trionfo e decadenza del suffragio universale, Bollati Boringhieri, Torino, 1993; A. d'Orsi, 1989. Del come la storia è cambiata ma in peggio, Ponte alle Grazie, Firenze, 2009.
[138] A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 2001, Q 5, 55.
[139] Ivi, Q 6, 13.
[140] Ivi, Q 4, 38.
[141] Cfr. P. Pasture, Imagining European Unity since 1000 AD, Palgrave Macmillan, New York, 2015.
[142] Su tutto ciò cfr. H. Mikkeli, Europa. Storia di un’idea e di un’identità, il Mulino, Bologna, 2002; G. Mammarella – P. Cacace, Storia e politica dell’Unione Europea (1926-2005), Laterza, Roma-Bari 2013; C. G. Lacaita (a cura di), Grande guerra e idea d'Europa, Franco Angeli, Milano 2017; E. R. Papa, Storia dell'unificazione europea, Giunti Editore, Firenze 2017.
[143] A. Gramsci, cit., Q 6, 78.
[144] Ibidem.
[145] A. Agostino, briganti, brigantaggio, in G. Liguori – P. Voza, Dizionario gramsciano, Carocci, Roma 2009, p. 84.
[146] Antonio Pesenti, in M. Maggiorani – P. Ferrari (a cura di), L'Europa da Togliatti a Berlinguer. Testimonianze e documenti 1945-1984, Il Mulino, Bologna 2005, p. 251.
[147] Eugenio Peggio in M. Maggiorani – P. Ferrari cit., p. 255-256.
[148] Palmiro Togliatti, Europeismo democratico, in Maggiorani-Ferrari, cit., pp. 267-268.
[149] Palmiro Togliatti, Federalismo europeo?, in Maggiorani-Ferrari, cit., pp. 217-218.
[150] Ivi, pp. 268-269.
[151] L. Longo, in Maggiorani-Ferrari, cit., p. 275.
[152] Cfr. Ivi, p. 304.
[153] Intervista ad Altiero Spinelli su Critica Marxista 1-2, gennaio-aprile 1984.
[154] E. Berlinguer, Discorso al Parlamento europeo, in Maggiorani – Ferrari, cit., pp. 326-327.
[155] Ivi, p. 326.
[156] A. Gramsci, cit., Q 6, 78.
[157] Ivi, p. 327.
[158] Ivi, p. 328.
[159] A. Gramsci, cit., Q 13, 5.
[160] C. N. Coutinho, L'epoca neoliberale e l'egemonia della "piccola politica", in S. G. Azzarà – P. Ercolani -E. Susca (a cura di), Dialettica, storia e conflitto, La Scuola di Pitagora editrice, Napoli 2011, p. 279.
[161] Ivi, p. 281.
[162] Ivi, p. 293.
[163] A. Gramsci, Q 4, 38.
[164] P. Togliatti, Un europeismo democratico, cit.
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