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Note sul Marx di Lukács

di Carlo Formenti

Da C. Formenti, La variante populista. Lotta di classe nel neoliberismo, Derive Approdi 2016

georg lukacsta katharsis kavrami anlik bir uyanis 20160919113053Come il lettore ha avuto modo di constatare, questo libro è duramente critico nei confronti della visione postmodernista cui la maggior parte degli intellettuali della sinistra radicale ha aderito negli ultimi decenni. Mi riferisco, in particolare, agli effetti della «svolta linguistica» delle scienze sociali e all’influenza che cultural studies, gender studies, teorie del postcoloniale e la pletora dei post (post industriale, post materiale, ecc.) proliferati a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso hanno esercitato sulla cultura dei nuovi movimenti, attribuendo progressivamente al conflitto politico e sociale il carattere di una competizione fra «narrazioni» e fra «processi di soggettivazione». Questa psicologizzazione del conflitto ha rimpiazzato la lotta di classe con una sommatoria di richieste di riconoscimento identitario da parte di soggetti individuali e collettivi sostanzialmente privi di qualsiasi riferimento ai rapporti sociali di produzione, funzionando, di fatto, da involontario quanto potente alleato del progetto egemonico neoliberista.

È vero che in queste pagine ho preso anche le distanze da una serie di temi cruciali del marxismo: la tesi che presenta la contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione quale ineludibile presupposto della transizione dal capitalismo al socialismo; la convinzione che il progresso tecnologico e scientifico svolgano in ogni caso un ruolo progressivo e l’idea che la storia incorpori un principio evolutivo immanente. Cionondimeno resto convinto del fatto: 1) che la teoria marxista offra strumenti assai più potenti di quelli delle teorie postmoderniste per analizzare e comprendere la realtà economica, sociale e politica in cui viviamo; 2) che nella monumentale opera di Marx esistono spunti che consentono di superare i suoi stessi limiti. Una formidabile guida per compiere questo lavoro di «scioglimento» della dogmatica marxista (spesso imputabile agli esegeti più che al maestro) è il pensiero di György Lukács, dal quale prende le mosse questa nota metodologica.

L’abbandono di Marx viene spesso motivato dal presunto «economicismo» delle sue teorie (con particolare riferimento all’annosa querelle sui rapporti fra struttura e sovrastruttura) e alla sua visione «deterministica» del rapporto fra coscienza e identità sociale (vedi la pluricitata affermazione secondo cui l’essere sociale determina la coscienza). Argomenti affilati contro tali accuse si trovano nell’ultima opera di Lukács, quella Ontologia dell’essere sociale1 che l’autore completò negli ultimi anni di vita. Opera sfortunata, nel senso che vide la luce in un momento di profonda crisi del marxismo (la caduta dell’Urss era imminente, il prestigio dell’ideologia comunista ai minimi termini e gli stessi allievi di Lukács, fra cui Agnes Heller, erano prossimi a convertirsi ad altri paradigmi teorici) il che fece sì che il libro avesse assai meno risonanza di quanto avrebbe meritato. Si tratta di un testo monumentale (quattro volumi) che l’autore ha concepito come una sfida alle mode filosofiche che venivano affermandosi negli ultimi decenni del Novecento. Bersagli principali della sua critica erano il formalismo dissolutore del reale, l’individualismo astorico, il nichilismo relativista, ma anche il marxismo «volgare».

Partiamo dal presunto economicismo della concezione marxiana. Scrive Lukács in un brano in cui riflette sui Manoscritti economico-filosofici: «in essi per la prima volta nella storia della filosofia le categorie dell’economia compaiono come quelle della produzione e riproduzione della vita umana e rendono così possibile una descrizione ontologica dell’essere sociale su base materialistica. Ma l’economia come centro dell’ontologia marxiana non significa affatto che la sua immagine del mondo sia fondata sull’“economismo”»2. Ciò è confermato dal fatto che Marx sceglie di definire la propria opera come «critica dell’economia politica» (a differenza di quegli intellettuali marxisti che si considerano studiosi di economia tout court) – una scelta che rispecchia il primato gerarchico accordato alla riproduzione materiale (da intendersi in senso non riduttivo: non si parla solo di terra, mezzi di produzione, ecc. ma anche di modelli organizzativi e culturali) della vita umana e delle relazioni sociali che ne definiscono, in ogni peculiare contingenza storica, l’estensione e i metodi. Detto con le parole di Lukács: «la critica di Marx è una critica ontologica. Parte dal principio che l’essere sociale, in quanto adattamento attivo dell’uomo al proprio ambiente, poggia primariamente e insopprimibilmente sulla prassi. Tutti i caratteri reali rilevanti di questo essere possono quindi venir compresi solamente a partire dallo studio ontologico delle premesse, dell’essenza, delle conseguenze, ecc. della prassi sulla sua costituzione vera, ontologica»3. Ma veniamo al rapporto struttura/sovrastruttura. Le accuse all’approccio di Marx si fondano perlopiù sulle sue rozze interpretazioni da parte del «diamat». Contro tali interpretazioni, Lukács ricorda che «questo peculiare, paradossale, di rado compreso metodo dialettico riposa sul già accennato convincimento di Marx che nell’essere sociale l’economico e l’extraeconomico di continuo si convertono l’uno nell’altro, stanno in una insopprimibile interazione reciproca, da cui però non deriva […] né uno sviluppo storico privo di leggi e irripetibile, né un dominio meccanico “per legge” dell’economico astratto e puro. Ne deriva invece quella organica unità dell’essere sociale in cui alle rigide leggi dell’economia spetta per l’appunto solo la funzione di momento soverchiante»4. Per cogliere appieno il senso dell’ultima citazione serve un chiarimento: a quali «leggi» si fa qua qui riferimento? Parliamo di leggi nel significato che viene comunemente attribuito al termine nel linguaggio scientifico, nel qual caso l’accusa di determinismo conserverebbe validità? Oppure le cose stanno diversamente? Due sono i nodi cruciali dell’argomentazione lukacsiana che consentono di chiarire il punto. Il primo è l’affermazione secondo cui Marx riconosce una sola scienza, che non è l’economia, bensì la storia. Il secondo contesta il luogo comune secondo cui la concezione marxiana sarebbe fondata su un principio di necessità immanente alla storia stessa. Che la storia sia guidata da una necessità immanente, argomenta Lukács, è una credenza tipicamente religiosa perché «in ogni concezione del mondo a carattere religioso la necessità, in quanto essenza e modo fenomenico del divino trascendente, non può non avere una parte in ogni senso privilegiata»5. Ma ciò vale anche per quella teologia secolarizzata che è la scienza moderna, nella misura in cui essa si pone al servizio del dominio di classe: dal momento che i rapporti sociali di produzione oggi esistenti devono essere fondati ideologicamente mediante un qualche tipo di necessità, «non sorprende quindi per nulla che nelle grandi filosofie moderne, che erano chiamate a consacrare sul piano della concezione del mondo la nascente scientificità e con essa lo sviluppo, il progresso, in quanto decisivo concetto di valore ideologico scaturente dalla nuova economia, si sia posta al centro la necessità […] come potere spersonalizzato che domina sul mondo»6. Viceversa per Marx, il quale la concepisce come un processo determinato dai rapporti di forza sempre mutevoli fra classi sociali in conflitto, la storia non è mai un processo teleologico ma causale, e tale causalità non è mai rettilinea, unilaterale, bensì una tendenza evolutiva posta in movimento da interazioni e interrelazioni reali dei complessi ogni volta attivi. Perciò gli esiti delle trasformazioni non vanno mai giudicati a priori come progresso o regresso. In conclusione: per Marx l’unica possibile conoscenza scientifica è post festum, il che non significa che il processo storico sia il prodotto di eventi casuali, che sia dunque impossibile estrarne dei nessi generali, bensì che questi ultimi «si esplicitano nell’essere progettuale non come “grandi bronzee leggi eterne”, che già in sé possano pretendere a una validità sovrastorica, “atemporale”, ma invece come tappe, determinate per via causale, di processi irreversibili, nelle quali simultaneamente divengono in pari modo visibili sul piano ontologico e quindi afferrabili in termini conoscitivi, sia la genesi reale dai processi precedenti e sia il nuovo che ne scaturisce»7.

Passiamo infine alla tesi secondo cui l’essere sociale determina la coscienza. Da quanto finora detto, è evidente che, per Lukács, ciò non significa che Marx ritenesse che la coscienza e i suoi contenuti sono il prodotto diretto della struttura economica, ma significa invece che essi sono il prodotto della totalità dell’essere sociale. Il che, a sua volta, non significa che i fattori sovrastrutturali siano mere apparenze, ma significa che mentre è solo l’agire sociale degli uomini a produrre strutture economiche, istituzioni, idee, ecc. la natura e il carattere di tali prodotti resta in tutto o in gran parte incomprensibile per i produttori. Il che è in sintonia con la precedente affermazione secondo cui la storia non è un processo teleologico – una costruzione consapevole dei soggetti umani – bensì un processo evolutivo, complesso e contraddittorio, il cui significato può essere afferrato solo post festum. È per questo motivo che ogni concezione che attribuisca unilateralmente al soggetto il ruolo di agente prioritario, se non esclusivo, del processo storico «finisce nella pania delle contraddizioni di un irrazionalismo trascendente. Infatti, da un soggetto isolato, basato su se stesso, non è possibile far derivare un comportamento consapevolmente attivo, pratico, verso la realtà, senza un aiuto trascendente»8.

Come giustificare, se questo è vero, l’emergere di una soggettività rivoluzionaria, e come immaginare che tale soggettività possa progettare e realizzare la transizione a un nuovo sistema di relazioni sociali? La risposta di Lukács è del tutto coerente con le tesi appena esposte: «la classe per sé stessa», argomenta il filosofo, non è l’esito di un autonomo processo di presa di coscienza, ma scaturisce dalla prassi umana, in questo caso da quel particolare tipo di prassi che è la lotta di classe. Del resto, è proprio nei cambiamenti rivoluzionari che la relazione fra fattori soggettivi e fattori oggettivi dell’evoluzione sociale si presenta in tutta la sua chiarezza perché, scrive Lukács citando Lenin: «Per lo scoppio della rivoluzione non basta ordinariamente che “gli strati inferiori non vogliano”, ma occorre anche che “gli strati superiori non possano” vivere come per il passato»9.

Finché non si dà quest’ultima condizione, è difficile, se non impossibile, mettere in discussione l’egemonia degli strati superiori i quali, attraverso i mass media, l’educazione e altri strumenti di manipolazione, sono costantemente in grado di restringere le possibilità di decisione dei singoli (proprio mentre viene costruita l’apparenza propagandistica del loro massimo ampliamento) inibendo le scelte dannose per la conservazione dello status quo. Ma questo funziona solo finché non entrano in crisi le condizioni materiali, oggettive del dominio: è solo a questo punto che la teoria rivoluzionaria può trasformarsi in ideologia e diventare un’arma di mobilitazione di massa: «una teoria può affermarsi socialmente solo quando almeno uno degli strati sociali che in quel momento hanno peso vi vede la strada per prendere coscienza e battagliare intorno a quei problemi che considera essenziali per il proprio presente, quando cioè tale teoria diventa per quello strato sociale anche un’ideologia efficace»10. Una tesi che, come si vede, richiama da vicino i temi discussi nel quarto capitolo di questo libro: dalle condizioni che rendono possibile la rottura populista alle modalità della costruzione egemonica di un blocco sociale.


Note

1 G. Lukács, Ontologia dell’essere sociale, Pgreco Edizioni, Milano 2012, 4 voll.

2 Ivi, vol. II, p. 264.

3 Ivi, vol. I, p. 36.

4 Ivi, vol. II, pp. 290-291.

5 Ivi, vol. I, p. 154.

6 Ivi, vol. I, p. 155.

7 Ivi, vol. I, p.308.

8 Ivi, vol. I, p. 179.

9 V. I. Lenin, Il fallimento della II Internazionale, in Opere complete, Editori Riuniti, Roma 1966, vol. XXI, p. 191, cit. in G. Lukács, Ontologia dell’essere sociale, cit., vol. I, p. 204.

10 G. Lukács, Ontologia dell’essere sociale, cit., vol. I, p. 245.
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