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Dell’uso strumentale del reddito per finalità politiche
di Andrea Fumagalli e Cristina Morini
Non è necessario essere dei veggenti, ma neppure fini analisti, per prevedere che uno degli argomenti al centro della prossima campagna elettorale sarà costituito dal tema del reddito.
Le tre principali forze politiche (5 Stelle, Pd e infine, ultima in ordine di apparizione, Forza Italia) si stanno sfidando. I 5 Stelle da anni hanno lanciato la proposta di “reddito di cittadinanza”, il Pd ha recentemente proposto e fatto approvare la misura del “reddito di inclusione” (ReI), Berlusconi, per non essere da meno, ha aggiunto la proposta del “reddito di dignità”, scippando un’espressione da tempo utilizzata da una campagna promossa dall’associazione Libera e da altre realtà della società civile.
In tutti i casi, il tema del reddito è strumentalmente utilizzato per altri fini e in particolare viene declinato come forma di controllo della povertà. Tale interpretazione è propedeutica all’imposizione di un sistema di welfare che si avvicini il più possibile al workfare liberista di matrice anglosassone, eliminando ciò che resta del welfare universalistico (in materia di sanità e scuola pubblica).
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Senza confini
di Lanfranco Binni
A presente memoria, è utile rileggere oggi l’ultimo articolo pubblicato da Luigi Pintor su «il manifesto» del 24 aprile 2003, sul «quotidiano comunista» che proprio in questi giorni ha espulso dalle sue colonne (in silenzio, senza un minimo accenno di dibattito) la voce della sua migliore esperta di America latina, Geraldina Colotti, colpevole di sottrarsi, da «comunista non pentita», alla criminalizzazione della rivoluzione chavista (con tutte le sue complesse criticità) e ai tentativi di applicazione del modello Siria alla società venezuelana. L’articolo di Pintor aveva come titolo Senza confini: un pressante appello, dall’interno della sinistra eretica del comunismo italiano, a cambiare radicalmente visioni e pratiche di lotta politica. Lo riproduco integralmente dal volume postumo di scritti di Luigi Pintor, Punto e a capo (Roma, il manifesto-manifesto libri, 2004).
La sinistra italiana che conosciamo è morta. Non lo ammettiamo perché si apre un vuoto che la vita politica quotidiana non ammette. Possiamo sempre consolarci con elezioni parziali o con una manifestazione rumorosa. Ma la sinistra rappresentativa, quercia rotta e margherita secca e ulivo senza tronco, è fuori scena.
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Tra impossibile riformismo e necessaria mediazione
Militant
Il vero dato duraturo che ci lascia la crisi economica in cui siamo immersi – nonostante gli zerovirgola strombazzati da un’informazione embedded – è la natura irriformabile dell’attuale modello produttivo, e più in generale del capitalismo. Tale irriformabilità ha mandato in tilt il rapporto tra sinistra politica e questione sociale, che si basava proprio sulla possibilità redistributiva. In sintesi, il capitalismo “riformabile” garantiva una contrattazione economica costante delle proprie condizioni di lavoro e di vita. La garanzia, in questo caso, non si deve intendere come volontaria concessione di miglioramenti dati da una crescita economica diffusa, ma la possibilità di arrivare a quei miglioramenti attraverso lotte di classe. Oggi qualsiasi lotta di classe, stante l’attuale modello produttivo, la concorrenza internazionale, la cornice sovranazionale, l’assenza di politica, può al massimo resistere all’attacco padronale (resistere in questa o quella vertenza, mai generalmente, oltretutto), ma non attivare un’inversione di tendenza. Non è possibile giungere ad alcun miglioramento economico insomma, e questo fatto ha interrotto il rapporto naturale tra questione sociale e sinistra, fondata sulla convergenza di interessi per cui le lotte sociali rinforzavano quelle politiche e viceversa. Se la sinistra non garantisce più la possibilità di un miglioramento economico, la base sociale di riferimento (il mondo del lavoro dipendente salariato) cessa di essere allora naturalmente legata ad essa, scegliendosi di volta in volta la sponda politica che faciliti forme di resistenza all’impoverimento costante.
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Processate Gramsci!
di Gianni Fresu*
Ci risiamo, sulle ceneri di Gramsci si consuma l’ennesimo processo alla storia del partito comunista italiano. La bibliografia tesa a presentare un Gramsci tormentato e proteso verso un approdo liberale, al limite socialdemocratico, è ampia e, sebbene di scadentissimo valore scientifico, molto apprezzata. A questa si aggiungono altre tesi strampalate, sempre di taglio scandalistico e mai fondate sullo straccio di una fonte attendibile, particolarmente ambite dalle “grandi” testate giornalistiche italiane e dai programmi televisivi di divulgazione storica. Per sommi capi le richiamo:
1) Togliatti spietato carceriere di Gramsci; 2) le sorelle Schucht e Piero Sraffa (cioè moglie cognata e amico strettissimo di Gramsci) agenti del KGB assoldati da Stalin per sorvegliarlo; 3) Mussolini e le carceri fasciste che difendono, anzi salvano, Gramsci dal suo stesso partito; 4) la conversione cattolica in punto di morte dell’intellettuale sardo (attendiamo con trepida attesa le prossime rivelazioni sul Gramsci devoto di padre Pio).
Se fosse attendibile il quadro di queste interpretazioni, ne verrebbe fuori un Gramsci non solo smarrito e perennemente tormentato, ma un uomo tendenzialmente ingenuo, vittima inconsapevole della perfida cattiveria doppiogiochista di tutte le persone che gli stavano più vicine. Tutte queste tesi ruotano sulla rilettura forzata (ovviamente mai provata) di carteggi necessariamente cifrati; su mere supposizioni soggettive non suffragate da alcun dato documentale; su letture banali e parziali degli scritti di Gramsci; sulla manifesta falsificazione di documenti d’archivio.
Tutti ricordiamo la famosa lettera di Togliatti sugli alpini prigionieri in Russia pubblicata su «Panorama» nel febbraio del 1992, dopo essere stata falsificata in modo maldestro da uno storico imbroglione (nel senso che è entrato nella storia degli imbroglioni) come Franco Andreucci. Vi ricordate «il divino Hegel» e Achille Occhetto dichiaratosi da subito «agghiacciato» per le sconcertanti rivelazioni, senza neanche attendere la verifica della loro veridicità? Su questa colossale patacca, degna della banda dei “soliti ignoti”, furono riempite le pagine dei giornali (si propose persino di modificare tutta la toponomastica nazionale per cancellare il nome di Togliatti da vie e piazze), i dibattiti politici, i palinsesti televisivi.
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G8, G20, G...ira gira è sempre quella zuppa
di Felice Capretta
Ben lontano da Toronto, si è concluso il G8.
A circa 200 km dalla città canadese, in tutta sicurezza, si è infatti compiuto l'ennesimo incontro del tutto inutile fra gli "8 grandi (aggiungere qui la parola che si preferisce)" del pianeta.
Visto che erano in 8, si poteva fare un bel torneo di scopa d'assi, con coppa di ottone al vincitore finale e bicchieri di rosso per tutti. E spuma per gli astemi.
Che magari costava meno, tipo qualche migliaio di euro.
Invece hanno speso un miliardo di dollari solo di organizzazione e sicurezza.
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Cronaca di una crisi annunciata
di Gavino Piga
La crisi pandemica forse non insegnerà nulla, ma di certo rivela moltissimo. Di noi, dei nostri tempi, e non solo del nostro modo di rapportarci alla malattia o al pericolo. Rivela, più in profondità, la tendenza delle nostre società – sedicenti libere – a quella «vasta standardizzazione e “disambiguazione” del mondo» cui si vorrebbe subordinare tutto e tutti.
Da qui parte il giornalista tedesco Paul Schreyer nel suo ultimo, brillantissimo saggio, Cronaca di una crisi annunciata – Come il coronavirus ha cambiato il mondo, edito in Italia dalla coraggiosa casa di produzione OvalMedia (qui il Trailer Book). E come descrivere meglio la prospettiva cui le masse globali da tempo, nella più terrificante inconsapevolezza, sono inchiodate? Sì, proprio quell’innocente operazione – Word Sense Disambiguation – nota ai più grazie a Wikipedia e che ci consente di precisare il significato di una parola qualora possa averne diversi a seconda del contesto, più che strumento di chiarificazione è ormai, nella sovversione concettuale che ci domina, un utile paradigma del totalitarismo comunicativo senza cui tutto in questi due anni sarebbe stato diverso.
Non è un caso, e non è un’esagerazione: costruire inventari di senso oggi, nell’urgenza di predisporre un cosmo di Intelligenze Artificiali (che è il motivo per cui s’investono cospicui fondi nel settore della linguistica), non ha nulla a che vedere con l’erudizione dei buoni maestri d’un tempo. Si tratta piuttosto di riprogrammare artificialmente il linguaggio su base algoritmica. Di operare sul senso per sottrazione, per far corrispondere ogni pugnetto di suoni a categorie merceologiche precise, ma soprattutto a una sola delle caselle “vero” o “falso” (non necessariamente sempre la stessa: si vede alla bisogna), con conseguente divisione della società in buoni e cattivi.
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Crisi dell’eurozona, competitività e manovra 2019
di Riccardo Realfonzo
Manovra 2019 | Legge di stabilità | Presentiamo di seguito, con alcune note esplicative, le slides della conferenza tenuta da Riccardo Realfonzo al convegno dell’associazione Asimmetrie “Euro, mercati, democrazia 2018”, svoltosi a Montesilvano l’11 novembre 2018
1. La crisi dell’eurozona
L’Unione monetaria europea si presenta oggi come una unione incompleta. Abbiamo una moneta unica ma non una banca centrale che funzioni da prestatore di ultima istanza (garantendo sempre l’acquisto di titoli del debito pubblico e quindi assicurando l’impossibilità del default degli Stati dell’Unione). Inoltre, non abbiamo un bilancio significativo dell’Unione né una politica fiscale unitaria e dotata di strumenti di debito dell’Unione (es.: eurobond) e di meccanismi redistributivi che riparino i Paesi aderenti dagli shock che li colpiscono in modo asimmetrico. Si tratta di scelte politiche che hanno avuto come conseguenza la forte dinamica degli spread tra i rendimenti dei titoli del debito pubblico e che hanno accentuato i processi spontanei di divergenza che portano lo sviluppo a concentrarsi in alcune aree di Europa.
Unione incompleta: La speculazione, La crisi dell’eurozona (SLIDE 1)
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Etica, progresso, marxismo
Giuseppe Cacciatore
Pubblicato su "Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane”, E-ISSN 2531-9582, n° 1-2/2016, dal titolo "Questioni e metodo del Materialismo Storico" a cura di S.G. Azzarà, pp. 12-17. Link all'articolo: http://ojs.uniurb.it/index.php/materialismostorico/article/view/596
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Beati costoro, che il futuro della storia e il diritto al
progresso misurano quasi alla stregua di un certificato
di assicurazione sulla vita! (LABRIOLA 1965, p. 286).
Dove diminuisce il dolore dell’uomo là c’è progresso.
Tutto il resto non ha senso. (BROCH 1950, p. 19).
La storia universale è una storia del progresso – o forse
anche soltanto del mutamento – nei mezzi e nei metodi
dell’appropriazione: dalla occupazione della terra dei
tempi nomadi e agrario-feudali alla conquista dei mari
del XVI e XVII secolo, fino alla appropriazione
industriale dell’epoca tecnico-industriale e alla sua
differenziazione fra paesi sviluppati e non-sviluppati,
per finire all’appropriazione dell’aria e dello
spazio dei nostri giorni. (SCHMITT 1972, p. 311).
Si è sempre partiti da una sorta di equazione tra idea del progresso e teorie storicistiche.
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L'OCSE e l'illusione finanziaria al servizio dell'imminente neo-welfare bancario
(l'ingiustizia sociale, no?)
di Quarantotto
1. Vi propongo un fresco indizio a pistola fumante:
Da http://www.independent.co.uk
"I paesi sviluppati con maggiori disparità?? di reddito
Uno studio dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico dimostra come la disparità di reddito ostacoli la crescita economica e rovini il tessuto sociale.
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La lotta ai tempi dell’Ikea
Potere, organizzazione e solidarietà
Clash city workers
Un’analisi a partire dalla lotta all’Ikea che, lungi dall’essere terminata, ha però il merito di averci già fornito un bagaglio enorme e indispensabile di esperienze e spunti di riflessione. Nei paragrafi che seguono, non ci soffermeremo sulle fasi della lotta che è ancora aperta e in aggiornamento (qui potete trovare una ricostruzione tappa per tappa): proveremo a dare un contributo che metta in risalto quelle che consideriamo alcune tendenze dello sviluppo del capitalismo in Italia e gli elementi della lotta interessanti e potenzialmente riproducili nel tempo e nello spazio.
Se vai con la bandiera a fare uno sciopero tradizionale o sali sul tetto puoi stare lì anche tutta la vita, non cambierà niente. Basta con lo sciopero della fame o cose del genere, perché la fame la deve fare il padrone! A noi basta già la sofferenza che viviamo tutti i giorni sul posto di lavoro. Mohamed, operaio alla TNT di Piacenza |
Oggi, per molti, guardare ai movimenti sociali e politici in Italia significa andare incontro allo sconforto. Tranne qualche eccezione, sebbene importante, sembra proprio che non siamo all’altezza dello scontro in atto.
Malgrado ciò, le lotte sui posti di lavoro non sono finite. Anzi, in apparenza paradossalmente, si moltiplicano. Con casi molto rilevanti, almeno in astratto, perché molto dipende da cosa siamo capaci di leggere noi all’interno di quei processi.
Prendiamo la mobilitazione degli operai delle cooperative in appalto presso il deposito IKEA di Piacenza: la si può considerare come una ‘semplice’ vertenza sindacale.
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Parole al vento
di Vittorio Giacopini
Una Weimar dello spirito o il Circo Oklahoma
Si scrive ma è come spedire una lettera senza destinatari né indirizzo. Messaggi nella bottiglia, parole al vento. Tra l’atto del pensiero, il lavoro di scrittura, e il (minuscolo) pubblico destinato ad accogliere queste deliberatamente provvisorie ruminazioni, lo scarto potrebbe rivelarsi incolmabile. È comico, volendo, anzi ridicolo. È vero, il tempo non sta mai fermo, però oggi l’accelerare delle situazioni rende abbastanza improbabili profezie, mediocri congetture, divinazioni.
Già l’articolo di quotidiano esce invecchiato, figurarsi le parole per un mensile. Il termine crisi (generico quanti altri mai però efficace) compendia questo modo nuovo di stare dentro il tempo, o di subirlo. Il paesaggio che ci circonda muta alla velocità della luce (o dei neutrini) e l’effetto più impressionante è questa sensazione di intensa, vorticosa, entropica inflazione degli eventi. Una settimana, un giorno, pochi mesi, e il mondo sembra mutare, totalmente. Basta un esempio. Tra i primi di agosto 2011 e il 15 del mese, Ferragosto – neanche quindici giorni – s’è svelato uno scenario del tutto inedito (la “crisi”, appunto, qualsiasi cosa essa sia, naturalmente) che ancora oggi insiste a mutare e muta ancora, (“difficile dire che sia finita” dice oggi Mario Draghi, fine febbraio: quantomeno un’osservazione di buonsenso). Inflazione degli eventi, estrema caducità della parola: si diventa obsoleti in un baleno e sembra davvero di vivere in una specie di Weimar dello spirito (o al famoso Circo Oklahoma di Franz Kafka). Ci si arma di tesi, concetti, diagnosi, criteri per dare un senso al presente e provare ad afferrarlo, fugacemente, ma nel breve arco di un giorno quel piccolo patrimonio intellettuale diventa subito inutile, superato, e serve sempre di più, altro e altro ancora. Senza che uno se ne sia accorto, l’abbia visto, la crisi potrebbe essersi fatta nuova forma di vita quotidiana, terra incognita. Siamo alla rincorsa dell’ombra di noi stessi, di un domani che ci anticipa e ossessiona, e ci spaventa. Intanto saltano tempi, criteri, modelli, parametri.
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A bordo del Titanic Euro
Bruno Amoroso e Jesper Jespersen
La finanza è il virus che, inseritosi nei circuiti della moneta, ha trovato i suoi territori favorevoli di coltura nelle economie capitalistiche di mercato. All’abbattimento delle resistenze immunitarie del mercato hanno contributo la mercificazione della produzione e del consumo e, in parallelo, la loro crescente monetizzazione. I cambiamenti istituzionali che hanno accompagnato questi processi nella forma dell’impresa e dello Stato, sono la spia del cambiamento dei rapporti di potere e dei gruppi che hanno pilotato nelle varie epoche storiche queste trasformazioni. Non aver tenuto sufficientemente conto di questa interazione – tra finanza e potere, tra economia e politica – è la ragione sia del determinismo strutturale prevalente nelle correnti critiche sia del volontarismo panglossiano di parte del riformismo e istituzionalismo nostrano. Quando, ovviamente, sia l’uno che l’altro non siano invece espressione, come accade di sovente, di furbizie opportunistiche.
La crisi economica in corso da circa tre anni ha messo in evidenza che l´Unione Monetaria Europea (UME) non è priva di difetti. Aumenta inoltre la sensazione che il disastro si vada delineando in un futuro prossimo, anche se consapevoli che gli studi sociali non sono spesso in grado di prevedere gli eventi, e che la storia non si ripete in modo meccanico. Ma pur con queste precauzioni non si può fare a meno di sottolineare i numerosi paralleli che esistono tra l’atmosfera politica di ottimismo e di garanzia che accompagnò l’istituzione dell’Euro 10 anni fa e il varo del transatlantico “inaffondabile” Titanic 100 anni fa. È impressionate rileggere le dichiarazioni sull’assenza di rischi per la sua navigazione fatte al momento del varo e la stessa carenza nell’ammissione dei rischi relativi all’Euro.
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Governabilità!
La lenta costruzione dell’Unipolarismo
di Walter G. Pozzi
Per sedici anni le élite economiche hanno raccontato sui loro quotidiani che il vero ostacolo sulla strada della famigerata governabilità era il confitto sociale. Caduta la prima Repubblica, con l’Italia in fase di restauro, pur di garantire continuità con il passato, il vero Potere ha accettato che un parvenu della politica, un affarista arricchito dal passato ‘misterioso’ come Berlusconi, diventasse presidente del Consiglio. In fondo era uno di loro, che, come loro, aveva affrontato la tempesta Tangentopoli e perciò consapevole del pericolo rappresentato da una magistratura troppo libera. Oltre a essere l’uomo più ‘motivato’ a realizzare la cosiddetta riforma della giustizia. E, comunque, in quel momento, sembrava sempre meglio di D’Alema ed ex compagni.
Dal canto suo, facendo proprio il concetto di governabilità, il centro-sinistra ha brigato per sopprimere ogni realtà politica che si muovesse alla propria sinistra. Salito finalmente al governo, nel quinquennio dal 1996 al 2001 si è impegnato al massimo per compiacere Confindustria: con Treu ha reso legge il precariato, con Bassanini ha iniziato il federalismo privatizzando il lavoro pubblico e con D’Alema, in un momento in cui la crisi economica avrebbe potuto creare pesanti problemi sociali, ha tenuto a bada i sindacati.
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Mezzogiorno in gabbia
Giorgio Colacchio*
Ultimamente si registra un rinnovato interesse sulla cosiddetta “Questione Meridionale”, basti pensare all’intervento d’apertura del Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi al recente convegno su “Il mezzogiorno e la politica economica dell’Italia”, (Roma, 26 novembre 2009) ed alla sempre recente pubblicazione in volume, ancora da parte della Banca d’Italia, degli atti del convegno su “Mezzogiorno e politiche regionali” del febbraio 2009.
Non molto tempo fa, inoltre, la Lega ha nuovamente avanzato la proposta di introdurre delle “gabbie salariali”, cioè retribuzioni salariali nominali differenziate che tengano conto del diverso più basso indice dei prezzi (“costo della vita”) al Sud, un tema questo che del resto ricorre ciclicamente nel dibattito economico e politico del Paese. In ciò che segue mi propongo brevemente di analizzare il fondamento teorico generale – e le conseguenze in termini di policy – di quest’ultimo tema che, come apparirà chiaro in seguito, “impregna” buona parte del dibattito sull’economia meridionale (è ad esempio uno dei fili conduttori, ovviamente con ben altro spessore teorico, degli interventi al succitato convegno di febbraio) e rappresenta quindi un ottimo punto di partenza per sviluppare delle considerazioni più generali, seppur provvisorie, sulle prospettive dell’economia del Mezzogiorno.
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Amazon e il futuro dei free lance: «felicità garantita» al 100%
di Eleonora Cappuccilli
Dopo il Turco Meccanico, Amazon stupisce ancora con effetti speciali, appropriandosi di una delle più fantasmagoriche innovazioni provenienti dai cervelli californiani: l’economia on-demand di servizi acquistati attraverso le app degli smart-phone. Da poco ha infatti aperto un nuovo settore, per ora solo nelle maggiori città USA: gli home-services, i servizi a domicilio. Da colosso logistico e connettore di domanda/offerta di lavoretti informatici iper-parcellizzati, Amazon si allarga ancor più a diventare mostro dai mille bracci meccanici che consegna davvero tutto: libri, vestiti e professionisti per qualunque evenienza – si spera non proprio «qualunque», benché il sito reciti: «Non trovi quello di cui hai bisogno? Crea una richiesta personalizzata». Stufa di limitarsi a lucrare sul lavoro a bassissimo costo o persino gratuito con il Turco Meccanico, che permette ai manovali dell’industria dei servizi informatici di lavorare comodamente seduti a casa loro per un padrone che non ha volto e forse non li pagherà mai, ora Amazon vuole di più: i manovali di ogni specialità possono comodamente essere affittati – assunti non sembra la parola adatta, e d’altra parte assumere lavoratori è un’operazione oramai sfacciatamente demodé – e spediti dritti a casa tua. L’operaio folla sfonda lo schermo e approda nel mondo reale.
Così, se prima il lavoratore-folla non doveva guardare in faccia né lavoratori né colleghi, ora tanto chi chiede quanto chi presta un servizio ha un volto e i due s’incontrano nel mondo reale, non in uno spazio virtuale. Tuttavia, la materialità del corpo di chi viene a fare un lavoro a casa tua è semplicemente un dettaglio: vendendo servizi di ogni sorta – dalla riparazione dei pc alle lezioni di yoga – ad anonimi compratori, il lavoro è completamente spersonalizzato.
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Quale cultura per ridisegnare l'Europa
di Sergio Bruno
Gli economisti dell’austerità fanno coincidere cultura, lungimiranza ed etica con rigore, mercato e vincoli. Ma è la stessa esperienza in corso che boccia una tale visione
Ho detto che, ove si riuscisse ad arrestare l’attuale deriva delle strategie europee, occorrerebbe poi dotarsi di più strumenti culturali, di più lungimiranza, di più etica. Gli economisti dell’austerità fanno coincidere cultura, lungimiranza ed etica con rigore, mercato e vincoli. A mio avviso è la stessa esperienza in corso che boccia una tale visione. Occorre invece tornare agli insegnamenti suggeriti dall’esperienza storica e da una buona parte degli economisti e dei politici della prima parte del secolo scorso, aggiornando il quadro problematico per raccordarlo meglio alle trasformazioni intervenute da allora.
Il lungo periodo di grande espansione ed evoluzione che è durato dalla fine del 1800 agli anni 1970, sia pure con alti e bassi, con momenti di crisi evidenti come quelli degli anni 1930, con accelerazioni dai risvolti crudeli quali quelle dovute agli sforzi bellici, ha molto da insegnarci. Il processo espansivo ha visto sempre come protagonisti complementari lo stato, le imprese, i sindacati. Le egemonie sono state di volta in volta diverse. Una buona parte di tali esperienze è stata innescata dalle grandi imprese innovative, quelle che maggiormente hanno raccolto i frutti delle grandi invenzioni maturate in sede scientifica a partire dalla fine dell’ 800, spesso contribuendo alla loro maturazione e sempre al loro successo.
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La strategia della lumaca
Teatro Valle, alcuni appunti
di Cristina Morini
Che cosa resta di una torre che venga svuotata da chi ci è entrato o di un teatro occupato che decida di disoccuparsi? Che cosa rimane, che cosa si acquista e che cosa, eventualmente, rischia di perdersi nei passaggi? Oppure, ancora: è possibile pensare che il tipo di processo interno all’esperienza abbia condotto, indifferibilmente, sin dal principio, verso l’uscita, ovvero abbia influenzato la conclusione della storia?
La chiusura del caso del teatro Valle i cui occupanti hanno accettato di lasciare lo spazio perché venga “messo in sicurezza” in cambio di “riconoscimento”, al di là degli aspetti tecnici e dei dettagli dell’accordo con il comune di Roma e con il ministero dei Beni Culturali, ci offre l’occasione di fare un breve riepilogo dei ragionamenti sull’esperienza dei teatri occupati e sul lavoro cognitivo già avviate da qualche tempo. Non si tratta di esprimere giudizi di merito o di stilare classifiche tra il bene e il male, il giusto o lo sbagliato, il vero o il falso, ma di azzardare diagnosi da cui distillare qualche possibile insegnamento. Premetto anche che è assai lontano da me, nello scrivere queste note, il desiderio di appoggiare una sorta di estetica della lotta o del conflitto fine a se stesso. Ma devo ammettere subito che ritengo altresì che la vicenda abbia innanzitutto provato che scongiurare il pericolo per via legale non è possibile. Perché la legge, come si sa, non sta mai dalla parte dei deboli.
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Le cinque grandi ruberie al tesoretto italiano
di Paolo Berdini
C'è un'immensa cassaforte con cui sanare il Paese ma che nessuno vuole aprire. Nella fauci dei poteri forti gettiamo ogni anno il valore di una finanziaria
La manovra economica approvata dal Senato non taglia gli sperperi della spesa pubblica. All'ultimo istante sono state risparmiate anche le prebende della casta parlamentare e nonostante quanto emerge dall'inchiesta sul sistema Sesto San Giovanni - e cioè il gigantesco intreccio tra l'uso della spesa pubblica e dell'urbanistica contrattata per fare cassa a favore delle lobby politico imprenditoriali - né la maggioranza né l'opposizione hanno posto all'ordine del giorno il prosciugamento del fiume di denaro pubblico che sfugge ad ogni controllo democratico. Il "sistema Penati" sta lì a dimostrare che esiste una gigantesca cassaforte piena di risorse che non viene neppure sfiorata dai provvedimenti economici in discussione in Parlamento: lì c'è un grande tesoro che permetterebbe di non tagliare lo stato sociale e risanare il paese.
Il tema del taglio al malgoverno urbano tornerà sicuramente all'ordine del giorno perché tra qualche mese ricomincerà la grancassa del «non ci sono i soldi» e - complici le autorità europee - ripartirà la rincorsa per tagliare i servizi, tagliare le pensioni, vendere le proprietà pubbliche. Vale dunque la pena riprendere il prezioso suggerimento di Piero Bevilacqua su queste pagine (28 agosto), ragionare sulle possibilità di rovesciare i canoni del ragionamento fin qui egemone per interrompere una volta per tutte la grande rapina dei beni comuni, delle città e del territorio.
Il denaro pubblico viene intercettato dalle lobby politico-imprenditoriali attraverso sei grandi modalità.
La prima riguarda le opere pubbliche. Il volume degli investimenti pubblici nei grandi appalti è pari a circa 20 miliardi di euro ogni anno. Appena pochi mesi fa un giovane "imprenditore" (Anemone) con il fiume di soldi guadagnato in generosi appalti offerti dalla cricca Bertolaso ha potuto permettersi di contribuire all'acquisto di una casa per l'ignaro ministro Scajola: quasi un milione di euro.
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Cinque buone ragioni per essere comunisti (e non di sinistra)
di Carlo Formenti
In coda a un dibattito sulle "Prospettive del comunismo oggi" al quale ho partecipato ieri sera (trovate qui il video: https://fb.watch/5BfY9aMSQW/ ) Marco Rizzo ha annunciato la mia candidatura come capolista del Partito Comunista alle prossime elezioni municipali di Milano. I motivi che mi hanno convinto a compiere questa scelta erano già impliciti nel post "Riflessioni autobiografiche di un comunista (finora) senza partito", che avevo pubblicato non molti giorni fa su questo blog. Ma ho ritenuto che fosse il caso di ribadirle e sintetizzarle qui di di seguito
Perché il comunismo è un’ideologia più giovane e vitale del liberalismo
Chiarisco che il termine ideologia è qui inteso nel senso forte, positivo che Gramsci e Lukacs gli attribuivano: non falsa coscienza bensì l’insieme dei valori, principi, visioni del mondo, conoscenze, memorie collettive, ecc. che costituisce l’identità sociale e antropologica di una determinata classe (anche quando essa perde consapevolezza di sé dopo avere subito una dura sconfitta da parte degli avversari). Ciò posto, va ricordato che l’ideologia comunista è giovane: se ne fissiamo la nascita alla pubblicazione del Manifesto di Marx ed Engels (1848) non ha ancora due secoli di vita (mentre il liberalismo ne ha almeno sei). I suoi fondatori furono troppo ottimisti nel prevederne il trionfo in tempi brevi. Oggi sappiamo che la via è lunga e difficile, costellata di avanzate e ritirate, vittorie (come quelle del 1917 in Russia e del 1949 in Cina) e sconfitte (come quella del 1989 che ha visto il crollo dell’Urss). Ma sappiano anche che, malgrado i cinque monopoli (Samir Amin) sui quali può contare il nemico di classe (sui mezzi di produzione, sulla finanza, sulle tecnologie, sulle conoscenze scientifiche, sui media), e malgrado il disastro dell’89, la via socialista ha dimostrato una poderosa capacità di resilienza, soprattutto nell’Oriente e nel Meridione del mondo, al punto che oggi, grazie ai trionfi dello stato/partito cinese, è di nuovo in grado di contendere al capitalismo occidentale il dominio mondiale, come dimostrano
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La scoperta del plusvalore relativo
di Maria Turchetto*
Abstract: We analyze the Chapter 10 of Capital’s Volume I «The Concept of Relative Surplus-value» highlighting come important concepts: 1) the industrial and mass character of production as consequences of the relative surplus-value; 2) extra-profits and dissemination of innovations; 3) the combined operation of absolute and relative surplus-value
1. Tra la terza e la quarta sezione
Il cap. 10 del Libro I del Capitale definisce il concetto di «plusvalore relativo», ponendosi tra la terza sezione, dedicata a La produzione del plusvalore assoluto (capp. 5-9) e la quarta sezione, dedicata appunto a La produzione del plusvalore relativo (capp. 10-13). Queste sezioni rappresentano il cuore del Libro I, il nucleo essenziale della rivoluzione scientifica prodotta da Marx.
La terza sezione ci ha condotti «nel segreto laboratorio della produzione sulla cui soglia sta scritto No admittance except on business» (Marx 1975, 212), dove finalmente si svela l’arcano della produzione di plusvalore, rimasto inaccessibile all’analisi degli economisti classici. Com’è noto, la distinzione cruciale introdotta da Marx è quella tra forza-lavoro, oggetto di acquisto nella sfera della circolazione al suo valore di scambio, e lavoro, ossia uso della forza-lavoro nel «processo di produzione immediato». Il processo di produzione immediato, indagato cioè «allo stato puro […] facendo astrazione da tutti i fenomeni che nascondono il giuoco interno del suo meccanismo» e in particolare dal «movimento mediatore della circolazione» (Marx 1975, 694), oggetto dell’intero Libro I (cfr. Marx 1975, 7), rappresenta, come scrive Louis Althusser (2006, 21), l’«enorme svista» degli economisti classici, la zona d’ombra che impedisce loro di riconoscere lo sfruttamento capitalistico. Non si tratta, ovviamente, come Althusser (2006, 21) sottolinea con grande efficacia, di non cogliere un dato, qualcosa che «tuttavia era sotto gli occhi, […] a portata di mano». Si tratta di un più delicato problema di costruzione dell’oggetto scientifico o del campo di indagine.
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“Ciao democrazia!”
Renzi e Berlusconi: una “profonda sintonia”
di Luca Michelini
1. La politica ha leggi proprie, anche se pensare di isolarle dal contesto socio-economico sarebbe errore gravissimo. Tra le leggi della politica vi è quella che impone di svolgere una lettura per quanto possibile realistica della situazione di fatto, delle forze in campo. Si valutano gli eserciti schierati, indipendentemente dal fatto che si parteggi per l’uno o per l’altro di essi.
2. Ebbene, per quanto il governo Letta si possa e si debba criticare (personalmente sono stato per “la soluzione Rodotà”, con tutte le conseguenze possibili sul piano del Governo), come si può e si deve criticare il governo Napolitano, ché siamo ormai in una Repubblica presidenziale, non si può negare che sul piano strettamente politico Napolitano-Letta abbiano ottenuto un risultato importante: hanno cioè spaccato il PDL, mandando Forza Italia all’opposizione e non hanno interferito con le decisioni della magistratura sul caso Berlusconi, che è dovuto uscire dal Parlamento. Di fatto sta nascendo, pur tra mille contraddizioni, una destra non dico liberale, ma comunque emancipata dal “partito-padrone”.
Naturalmente, in molti, Renzi compreso (lo ha detto in direzione PD) considerano l’avvenuta scissione del PDL come una mera farsa, finendo per considerare l’attuale dialettica parlamentare un vero e proprio teatro, dietro il quale si nasconde un unico interesse, facente capo al lungo dialogo avvenuto tra PD e PDL.
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Accordo separato a Mirafiori, Fiom e movimenti
di Raffaele Sciortino
Neo vescovo e sindaco torinesi saranno soddisfatti per lo scontato pacco regalo: l’accordo separato – cioé senza firma Fiom – tra Fiat e Fim, Uilm, Fismic, Ugl e Quadri per il futuro dello stabilimento di Mirafiori. Non c’è stato neanche uno straccio di trattativa tra le “controparti”. Inezie a parte il testo dell’accordo è sostanzialmente quello imposto da Marchionne col ricatto di ventilati investimenti che dovrebbero portare a più del raddoppio (?!) delle auto prodotte nello stabilimento torinese secondo le previsioni di una ripresa del mercato globale dal 2012 (?!). L’accordo ricalca il ricatto imposto ai lavoratori di Pomigliano: 18 turni alla settimana, primi due giorni di malattia non pagati, 120 ore straordinarie obbligatorie, turni “avvicendati” di dieci ore, pause cancellate sulle linee, orario mensa a fine turno quindi con mezz’ora in più di lavoro, misure anti-assenteismo.
In più e di peggiorativo c’è però il piano di costituire una newco (propriamente una joint venture con Chrysler) con la quale la Fiat va oltre le stesse deroghe al contratto nazionale fuoriuscendone in vista di un contratto auto specifico che recepisce in pieno l’accordo di Pomigliano.
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Inception
di Augusto Illuminati
Wow! Abbiamo capito perché diavolo Veltroni volesse sempre recarsi in Africa. Apprendiamo infatti dal film che a Mombasa opera un misterioso chimico, capace di indurre con le sue droghe esperienze di sogni profondi in simultanea, talmente profondi che secondi sogni si annidano nei primi sogni e così via, sino a creare una realtà fittizia onirica da cui i dormienti mai vorrebbero svegliarsi. In quello stato è anche possibile realizzare una inception, l’innesto di un idea che viene fatta propria come nativa da tutti gli assopiti in collegamento. Questa idea, per Veltroni come nel film, dovrebbe essere la preferibilità di una scomposizione in settori di un impero piuttosto che la sua gestione aggregata. Una pluralità di correnti nel Pd è meglio di una qualche centralizzazione, visto che tanto il capo non è più lui. Astuto disegno, ma visto che l’intelligent design non regge come spiegazione evoluzionista, figuriamoci se funziona con walteruccio. Il quale poi, notoriamente, non va mai a vedere i film giusti e, se li vede, non li capisce, come risulta dalle sue malfamate recensioni d’antan.
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Il fiato del drago
di Giovanni Iozzoli
Oh, il mistero arcano della creazione di valore.
Oh, il mistero ancora più occulto della creazione di coscienza: i produttori di valore davanti all’incantesimo della merce, della ricchezza astratta, della potenza produttiva dispiegata. E della loro indecifrabile condizione dentro questa fantasmagoria.
Anche quest’anno, nonostante una discreta repulsione, sono stato arruolato tra i relatori di minoranza (di micro-micro minoranza) nelle assemblee congressuali della CGIL del mio territorio.
Alcune cose vanno fatte anche se non sai più perchè. Fa un po’ parte del gioco.
La vecchia CGIL è un corpaccione molle, esanime su cui si proietta minacciosa l’ombra storica dell’inutilità. Però una cosa buona la mantiene, almeno sul piano dei principi: i suoi congressi si decidono sui posti di lavoro, azienda per azienda, in una consultazione di massa che dovrebbe riguardare tutti i sui iscritti. Inutile dire che se il metodo è virtuoso, la prassi lo è molto meno. Senza parità di condizioni – com’è ovvio anche nello schema di ogni democrazia liberale – alla fine della conta prevale chi ha in mano le risorse, cioè gli apparati e le chiavi della cassa. Però ogni 4 anni, nel grigio tran tran quotidiano in cui si macinano essenzialmente ripiegamenti, si apre uno squarcio vero di vita sindacale e discussione: e finanche la piccola minoranza eretica e scombinata – l’unica rimasta in CGIL – ha il diritto statutario di andare a parlare direttamente con i lavoratori, tutti, senza eccezione, fin dove le sue modeste forze le consentono di arrivare.
Breve parentesi per i non addetti ai lavori: in CGIL sono sempre esistite una o più “sinistre sindacali” – e le si derubricava alla voce “diverse sensibilità”. E si usava proprio questo termine emotivo ed affettivo – sensibilità – per definirle come sfumature dentro il corpo sempre omogeneo della grande madre.
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Uscita da sinistra e sovranità
di Dino Greco
Sabato 31 gennaio, a Roma, si è svolto il Seminario di Rifondazione Comunista “Crisi, Euro, Italia, Europa“ (QUI il breve resoconto). Di fronte a tante ambiguità vi sono stati alcuni contributi rilevanti e che hanno ben compreso la natura della crisi del neoliberismo e dell’euro. Ad esempio l’intervento seguente di Dino Greco.*
«La Lega cerca – con preoccupante successo – di egemonizzare il movimento antieuropeista su una linea di populismo reazionario, xenofobo, di marca dichiaratamente lepenista. Assistiamo persino al tentativo di capitalizzare a destra lo stesso straordinario successo di Syriza nelle elezioni greche, oscurandone l’imprinting radicalmente antiliberista. Anche il M5S cavalca l’onda, sebbene con un profilo più basso e confuso, esibendo come distintivo indennitario la pura e semplice, propagandistica, uscita dall’euro tramite il Referendum .
L’agognato ritorno alla moneta nazionale non è tuttavia auspicato da costoro per restaurare diritti espropriati (welfare, diritto del lavoro), o per proteggere i salari, o per ostacolare il processo di privatizzazione selvaggio, o per definire nuove regole per il commercio e controllare la circolazione dei capitali, o per pubblicizzare banche e asset nazionali. Tutto il contrario. Si tratta di un nazionalismo autarchico e reazionario che si sdraia su un senso comune sempre più diffuso e sulla crescente disperazione di un popolo che non sa più a che santo votarsi, per lucrarne un vantaggio politico-elettorale a buon mercato.
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La ricetta contro il «crack dei crack»? Un new deal europeo, puntato sul sociale
Riccardo Bellofiore, Joseph Halevi
La lezione più profonda del New Deal è un'altra rispetto a quella ripresa dal «keynesimo reale» o dall'attuale salvataggio di emergenza. E' la possibilità di cogliere l'occasione della nazionalizzazione della finanza per promuovere un intervento strutturale diretto dello Stato, mobilitando un «esercito del lavoro». Una sfida che ci piomba addosso, ma non è inattesa. Chi riteneva prematuro porsi i problemi di una più alta e produttiva spesa pubblica è costretto a ricredersi: ci obbliga la devastazione della crisi - sociale, ambientale, energetica. Dalla crisi non si esce se non si trova un nuovo traino di domanda effettiva, e una alternativa di politica economica richiede un diverso Stato, un diverso lavoro, la costruzione di contropoteri. Così fu, per quanto contraddittoriamente, con Roosevelt. Bisogna avere il coraggio di riprendere a pensare in grande: con i piedi per terra, e la testa ben alta, ricollocarsi a quel livello dello scontro, dentro una più netta rottura con la logica capitalistica.
Non potrà essere la svalutazione del dollaro a far ripartire la congiuntura mondiale. Si richiederebbe piuttosto una espansione coordinata della domanda interna nelle varie aree, il cui perno siano una spesa pubblica riqualificata e alti salari: il «ritorno dello Stato» va da un'altra parte. La ricerca parossistica di un «pavimento» alla crisi finanziaria non sta infatti rispondendo alla carenza di domanda. E le misure che eventualmente saranno prese arriveranno fuori tempo massimo per evitare una grave recessione, e il rischio concreto di una successiva prolungata stagnazione.
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Giochi di specchi ed equivoci: il caso della Lega
di Alessandro Visalli
Il 4 marzo 2018 una improvvisa slavina si è staccata dal ghiacciaio della sinistra che da lungo tempo rimandava sinistri scricchiolii. In una elezione che sperimentava non a caso un sistema elettorale più vicino al proporzionale abbandonato da decenni tutti i partiti della “seconda repubblica” sono arretrati di schianto. Sia i partiti di centro, vagamente colorati a sinistra o a destra più che altro per estetica, sia i partiti della anemica sinistra ‘radicale’. Tutta la sinistra è arrivata a qualcosa come il 15% degli elettori e alcune parti non sono entrate neppure in parlamento.
Si è trattato di una molla che si stava caricando almeno da dieci anni, mentre parte maggioritaria della popolazione italiana veniva respinta sul margine del sistema economico e perdeva ogni possibilità di controllare le proprie vite. È scivolata verso il basso almeno il 20% della popolazione italiana, in soli dieci anni e quindi in modo assolutamente percepibile, cosa che ha condotto i tranquilli e garantiti ad essere per la prima volta da decenni la minoranza del paese.
La rivolta degli elettori (Spannaus, 2016) che ha portato nel mondo alla Brexit, alla vittoria di Trump, all’esito delreferendum che ha interrotto la carriera politica di Renzi, ed ancora prima aveva fornito l’avvertimento inascoltato dell’avanzata del M5S nel 2013, le elezioni francesi con la dissoluzione dei socialisti e la contrapposizione élite/popolo rappresentata dallo scontro al ballottaggio tra Macron e Le Pen (con France Insoumise vicina all’impresa), era in movimento.
Dal 2016 il sistema politico europeo, insomma, è entrato in una fase di instabilità che è disponibile ad esiti diversi per piccoli spostamenti di umore. A “botta calda” Carlo Formenti parlò di rabbia delle ‘periferie’ in particolare verso le sinistre che si sono rifugiate nella difesa dei vincenti. Ovvero delle classi colte e benestanti che vedono la mondializzazione come un destino ed un progresso semplicemente perché ne traggono cospicui benefici.
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Non c’è comunità senza antagonismi
di Giulio Di Donato
Il dibattito sul “populismo di sinistra”, sulla scia delle elaborazioni di Ernesto Laclau, si fa sempre più interessante. Al fine di far confrontare ed esprimere opinioni diverse sull’argomento, riceviamo e ospitiamo un contributo di Giulio Di Donato, autore, con Tonino Bucci, del volume “Quale sinistra?” (Rogas edizioni, 2016)
La tradizione filosofica, da Platone e Aristotele in poi, ha sempre pensato l’uomo come un animale comunitario. La stessa razionalità che il pensiero greco del logos ha elevato a tratto specifico della natura umana, è da intendersi – lo si è visto non semplicemente come “ragione”, ma anche come “linguaggio”, come propensione a vivere in uno spazio pubblico di relazioni. Eppure, quel rischio che già a Platone doveva apparire come il principale pericolo per la sopravvivenza della polis greca, il rischio di regressione del collettivo nel singolare, del cittadino nella sfera dell’individualità, sembra aver sopraffatto la politica del nostro tempo. La brama di possesso, il desiderio dell’affermazione di sé sugli altri, il prevalere della pleonexia suonano come una conferma attuale dei timori platonici, il segno di una definitiva vittoria delle istanze dell’anima umana più ostili alla sopravvivenza di una comunità politica.
Siamo allora destinati a ripiegarci nel privato, indifferenti al governo di oligarchie sempre più sottratte al controllo dei governati, senza più possibilità di proiettare nella politica domande di cambiamento della nostra stessa vita? Uno scenario apocalittico al quale la realtà tende ad assomigliare, ma che – per fortuna – non potrà mai realizzarsi del tutto, a meno di un collasso di qualsiasi forma di comunità. Non può esistere una società che riesca ad abolire del tutto la necessità della politica. Nessun sistema istituzionale – per citare il famoso autore de “La ragione populista”, il filosofo argentino Ernesto Laclau – potrebbe spingersi fino al limite di mantenere isolate tra loro le istanze individuali e assorbirle in maniera differenziale all’interno del sistema stesso – cioè senza che si stabiliscano relazioni orizzontali e si formino identità collettive.
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L’insistenza discreta della guerra civile
di Marco Tabacchini
Una recensione a Stasis. La guerra civile come paradigma politico. Homo sacer, II, 2 di Giorgio Agamben (Bollati Boringhieri, 2015).
Vi è un preciso motivo per il quale il recente film di Martin Scorsese, The Wolf of Wall Street, ha così faticato a farsi riconoscere come un film di guerra. E questo non tanto per l’assenza pressoché totale di azioni crudeli e morti platealmente somministrate, cose di cui il cinema di genere non è mai stato troppo avaro, e nemmeno per l’abilità con cui le situazioni più ironiche si susseguono, in un vorticoso montaggio, alle scene drammatiche. La difficoltà che lo spettatore prova nel rubricare una simile pellicola tra le più fedeli alla contemporanea declinazione della guerra dipende piuttosto da una radicale incapacità di percepire quest’ultima proprio là dove essa imperversa nelle sue forme non militari, là dove a fatica si distingue non solo da una qualsiasi attività lavorativa, ma perfino da un divertimento consumato tra colleghi o da un godimento individuale. È come se l’aspetto frivolo, perfino triviale, della guerra contemporanea abbia saputo disarmare la nostra capacità di percezione, non più in grado di riconoscerla dietro le innocue apparenze che sempre più spesso essa suole rivestire.
Eppure è lo stesso intraprendente e disinvolto broker a offrire la chiave per una diversa comprensione della sua vicenda: al momento di aizzare contro le potenziali vittime di turno i suoi dipendenti, i suoi «fottuti guerrieri», intimando loro di strozzare i propri clienti con le azioni da vendere, Jordan Belfort non esita a svelare l’aspetto omicida e terroristico del loro impiego, nonché il potenziale distruttivo di quei telefoni neri che, al pari di ogni altro congegno, non sanno funzionare da soli, ma necessitano di essere usati da qualcuno, senza il quale «sono soltanto attrezzi di plastica, come un M-16 carico senza un marine che prema il grilletto».
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L'attività lavorativa nel ciclio di accumulazione
Per inquadrare il tema occorre partire dal concetto di capitale come rapporto sociale, approfondendo l'analisi di come i rapporti di produzione assumono la forma merce e denaro.
Il plusvalore deriva dallo scambio tra forza lavoro e capitale, il ciclo di riproduzione capitalista impone altri scambi che si sovrappongono a questo.
La moneta e i prezzi hanno un ruolo principale nella distribuzione del plusvalore prodotto e realizzato.
Il rapporto di lavoro salariato impone che i lavoratori mettano la loro attività lavorativa a disposizione dei proprietari dei mezzi di produzione, i quali produrranno per il mercato.
Il pluslavoro e il plusvalore non sono una caratteristica dell'attività lavorativa, essi derivano da un rapporto sociale e dal costituirsi del processo produttivo come produzione di merce.
La forma valore della merce ha come condizione necessaria la trasformazione del lavoro concreto in lavoro astratto, lavoro umano in generale. Lo scambio DENARO-MERCE quando il salariato vende la forza lavoro è riferito non alla concreta attività lavorativa del singolo lavoratore, ma alla generica forza lavoro, al valore socialmente determinato di quest'ultima.
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