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Sta per arrivare la morte del dollaro
di Robert Fisk
Quasi a simboleggiare il nuovo ordine mondiale, gli Stati arabi hanno avviato trattative segrete con Cina, Russia e Francia per smettere di usare la valuta americana per le transazioni petrolifere.
Mettendo in atto la piu’ radicale trasformazione finanziaria della recente storia del Medio Oriente gli Stati arabi stanno pensando – insieme a Cina, Russia, Giappone e Francia – di abbandonare il dollaro come valuta per il pagamento del petrolio adottando al suo posto un paniere di valute tra cui lo yen giapponese, lo yuan cinese, l’euro, l’oro e una nuova moneta unica prevista per i Paesi aderenti al Consiglio per la cooperazione del Golfo, tra cui Arabia Saudita, Abu Dhabi, Kuwait e Qatar.
Incontri segreti hanno gia’ avuto luogo tra i ministri delle finanze e i governatori delle banche centrali della Russia, della Cina, del Giappone e del Brasile per mettere a punto il progetto che avra’ come conseguenza il fatto che il prezzo del greggio non sara’ piu’ espresso in dollari.
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Golpe in Bolivia. Forza e debolezze delle alternative sociali al neoliberismo
di Redazione Contropiano - Luciano Vasapollo
Il golpe in Bolivia ha rovesciato una democrazia che era stata appena confermata il libere elezioni, in cui nemmeno gli osservatori stranieri meno benevoli erano riusciti a vedere irregolarità nel voto.
E’ assolutamente evidente che gli Stati Uniti, in ritirata in altre zone del mondo, stanno cercando di riprendersi il “cortile di casa” eliminando le esperienze alternative, dal Venezuela al Nicaragua, dal Brasile all’Ecuador e ora in Bolivia.
Un tentativo prepotente, che ottiene risultati alterni (le elezioni in Argentina hanno certo “deluso” Washington, e la liberazione di Lula può diventare la premessa per la caduta di Bolsonaro), ma va avanti perché non vede altre possibilità di mantenere l’egemonia almeno sul continente americano.
A noi sembra evidente, che questo attacco a tutto campo, condotto senza rispettare nessuno dei “valori” strombazzati tramite media, coglie i punti di debolezza dei vari tentativi di sottrarsi alla morsa yankee con metodi democratici.
La reazione imperialista organizza in modo militare quei settori sociali che sono stati democraticamente espulsi dalla gestione del potere politico ma hanno mantenuto pressoché intatto il proprio ruolo economico.E mobilita tutte le funzioni chiave che aveva provveduto a “istruire” ai tempi del dominio assoluto (dalle forze militari ai “giudici” catechizzati al ritmo di “mani pulite”, come l’attuale ministro di Bolsonaro, Sergio Moro).
E’ questa la conseguenza di un errore abbastanza comune, quello di credere che la conquista del governo politico coincida con la conquista del potere reale. Ma se non si mette mano alla modifica sostanziale del sistema economico, ossia se non si fa prevalere l’autodeterminazione sul come e cosa produrre e ci si limita soltanto alle politiche di redistribuzione sociale, non si modificano le modalità di riproduzione delle parti reazionarie e benestanti della società.
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La natura sociale dell’Unione Europea*
di Ernesto Screpanti
Il secondo appuntamento del Maggio filosofico 2019 è per Giovedì 16 maggio alle ore 21:00, presso la Biblioteca comunale Don Milani di Rastignano e ha per oggetto l’Europa nella storia: gli Stati Uniti (capitalistici) di Europa. Infatti l’attuale Unione Europea è l’unità asimmetrica di nazioni con un “centro” e una “periferia” dove il centro esporta merci e acquista titoli pubblici “periferici” rendendosi creditore di una periferia che si indebita. Ma nell’interesse di chi? Non pare proprio in quello dei salariati sia del centro che della periferia…
L’Unione Europea non è un’unione politica con una costituzione approvata dai popoli. È un’entità statale (di fatto se non di diritto) costituita con trattati internazionali che si sovrappongo alle costituzioni nazionali tentando di demolirle (Russo, 2017). Gli organismi politici che determinano le sue politiche monetarie e fiscali sono la Banca Centrale Europa e il governo tedesco, e nessuno dei due è responsabile verso i popoli europei.
Il ruolo del governo tedesco merita di essere chiarito. Il predominio della Germania sull’economia europea si era affermato già dagli anni ’70, e divenne ingombrante dopo l’unificazione tedesca del 1990. Con la fondazione dell’Unione è accaduto che i governi di quel paese sono riusciti a conquistare per la sua industria vantaggi competitivi senza precedenti. Con le riforme Hartz (2003-2005) e le politiche fiscali restrittive, la crescita salariale è stata posta sotto controllo, completando un processo avviato già negli anni ’90. Inoltre le imprese tedesche hanno esteso le loro catene del valore verso i paesi dell’Est europeo (e in parte del Sud), dove i salari sono più bassi che in Germania. In questa maniera l’industria tedesca ha avuto un costo del lavoro che è cresciuto sistematicamente di meno rispetto a quello dei principali concorrenti, in particolare Francia, Italia e Spagna. Ciò ha permesso alla Germania di mantenere un elevato e crescente surplus commerciale, spingendo i paesi del Sud Europa verso il deficit del conto corrente (l’Italia e la Spagna fino al 2012, la Francia ancora oggi).
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Lombardia e Veneto: referendum inutile? No, utilissimo…a loro!
di Pierluigia Iannuzzi
Tutti i partiti maggiori voteranno e spingono a votare “si” ma certa sinistra si ostina a predicare l’inutilità del referendum autonomista e l’astensionismo. Ma siamo davvero sicuri che sia così?
Chi non è leghista o grillino o piddino si trova oggi nella condizione (facile e comoda!) di sostenere che snobbare il referendum astenendosi sia il modo migliore per non legittimare un referendum consultivo inutile. I sostenitori dell’astensione ritengono il referendum inutile perché consultivo e ritengono la partecipazione con un NO dannosa perché la sconfitta del NO sarebbe inevitabile e legittimerebbe l’inesorabile vittoria del SI. Ma davvero possiamo pensare che tutti i partiti più forti in Italia e Lombardia abbiano deciso di sostenere un referendum se questo fosse davvero inutile? Davvero possiamo accontentarci di considerare tali partiti così sciocchi? Scusate, cari compagni (perché gli astensionisti sono spesso cari compagni!), ma non è credibile questa posizione. Credo invece che le valutazioni fatte dalle segreterie di tali partiti siano purtroppo opportunistiche. Assumersi la responsabilità di dire NO significherebbe confrontarsi con una bruciante ed inevitabile sconfitta determinata dalle diverse forze in campo in questa difficile fase storica. Ma la pochezza delle forze comuniste dipende, a sua volta, da anni di opportunismo elettorale e istituzionale che hanno determinato uno scollamento dalla classe di riferimento e, quindi, se consideriamo da leninisti la classe come l’elemento più avanzato, dalla possibilità di uno scientifico approccio alla realtà.
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Sul concetto di socializzazione
di Sebastiano Isaia
L’esistenza di una classe che non possiede
null’altro che la capacità di lavorare, è una
premessa necessaria del capitale (K. Marx).
La Comunità non troverà pace, armonia e
felicità fin quando non ruoterà attorno
al sole dell’individuo che non conosce
classi sociali.
Socializzare il Capitale non è un’ipotesi come un’altra, ma una vera e propria sciocchezza concettuale, un’assurdità dottrinaria, un ossimoro che si giustifica solo con una profonda ignoranza circa il concetto di Capitale da parte di chi dovesse sostenere il carattere rivoluzionario di quel vero e proprio pastrocchio ideologico. Vediamo, in breve, perché.
Comincio affermando senza alcun tentennamento che un abisso ideale e reale separa il concetto di socializzazione dei presupposti materiali della produzione della ricchezza sociale (mezzi di produzione, materie prime, ecc.) dai concetti di nazionalizzazione e statizzazione (1) di questi stessi presupposti – che nelle sue opere “economiche” Marx definisce «condizioni oggettive di lavoro».
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Cattive condotte
di Sandro Mezzadra
Michel Foucault. Gallimard pubblica «La société punitive», i corsi del primo semestre 1973 del filosofo francese. Fra le pagine, si analizzano le strategie disciplinari del potere per legittimare il capitalismo moderno
1. La pubblicazione dei corsi tenuti da Michel Foucault al Collège de France tra il 1970 e il 1984 ha ormai sedimentato un secondo corpus di opere del filosofo francese, accanto a quelle da lui pubblicate. E non si può che rimanere affascinati, anche semplicemente scorrendo i volumi, dall’inquietudine e dal rigore con cui egli apriva continuamente nuovi cantieri di ricerca, da quello sul neoliberalismo (a cui è dedicato il corso del 1979) a quelli greci e tardo-antichi degli ultimi anni. Temi e concetti associati al lavoro di Foucault, ad esempio quelli di “governamentalità” e “biopolitica”, trovano nei corsi della seconda metà degli anni Settanta sviluppi di straordinaria e talvolta imprevista ricchezza. E d’altro canto, ascoltando “la parola pubblicamente proferita da Foucault” (a cui i curatori si attengono con scrupoloso rigore), ne abbiamo imparato a conoscere lo stile di insegnante, l’eleganza ma anche la capacità di affascinare e coinvolgere chi lo ascoltava.
Si capisce dunque come l’uscita di un nuovo corso, mentre l’edizione si avvia alla conclusione, costituisca sempre un evento. Quello da poco pubblicato in Francia si intitola La societé punitive (a cura di Bernard E. Harcourt, EHESS/Gallimard/Seuil, pp. 354, € 26), ed è stato tenuto nel primo trimestre del 1973.
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La Grecia siamo noi
di Guido Viale
A due anni dalla denuncia dello stato comatoso delle sue finanze (ma gli interessati, in Germania e alla Bce, lo sapevano da tempo: erano stati loro a nasconderlo) la Grecia, sotto la cura imposta dalla cosiddetta Troika (Bce, Commissione europea e Fmi) presenta l’aspetto di un paese bombardato: un’economia in dissesto; aziende chiuse; salari da fame; disoccupazione dilagante; file interminabili al collocamento e alle mense dei poveri; gente che fruga nei cassonetti; ospedali senza farmaci; altri licenziamenti in arrivo; tasse iperboliche sulla casa e sfratti; beni comuni in svendita. E ora anche una città in fiamme. Ma a bombardare il paese non è stata la Luftwaffe, bensì il debito contratto e confermato dai suoi governanti di ieri e di oggi nell’interesse della finanza internazionale. Con la conseguenza che, a differenza di un paese uscito da una guerra, in Grecia non c’è in vista alcuna “ricostruzione”, o “rinascita”, “ripresa”; ma solo un fallimento ormai certo – e dato per certo da tutti gli economisti che l’avevano negato fino a pochi giorni o mesi fa – procrastinato solo per portare a termine il saccheggio del paese e, se possibile, il salvataggio delle banche che detengono quel debito; o di quelle che lo hanno assicurato. Le armi però c’entrano eccome. All’origine di quel debito, oltre alla corruzione e all’evasione fiscale, ci sono le Olimpiadi del 2004 (costate oltre un decimo del Pil) e l’acquisto di armi, che la Grecia è costretta a comprare e pagare a Francia e Germania come contropartita della “benevolenza” europea, per importi annui che arrivano al 3 per cento del Pil. Quattro fattori, armi (come F135), Grandi eventi (Olimpiadi o Expò, o Mondiali, o G8), evasione fiscale e corruzione che accomunano strettamente Grecia e Italia. Ma non solo.
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L'invenzione del clandestino
di Augusto Illuminati
La minchia gli scassarono ‘sti migranti al governatore Lombardo, non solo l’uscio del capanno di Grammichele. Per questo incita i siciliani a far ronde notturne con il mitra, caso mai incontrassero tunisini in fuga da Mineo o sbarcati sulle coste. Li fulminassero sul bagnasciuga, come proclamò con scarsa padronanza dei termini marinari e ancor meno fortuna bellica la buonanima di Mussolini per l’altra invasione dell’isola, quella del 1943.
Folklore mafioso-leghista, che copre ben altre e più massicce operazioni di disinformazione e razzismo di Stato. Pensiamo a quel “falso movimento” che consiste in due serie di azioni opposte e complementari, vera e propria ideologia messa in scena per ipnotizzare il paese. Da un lato i migranti vengono trattenuti, ammucchiati oltre misura nella più inimmaginabile sporcizia e deprivazione, rinserrati in Cie e Cara o a cielo aperto sull’isola di Lampedusa –occorre mostrare le belve sudice e ribelli ai bravi cittadini italiani e ai connazionali rimasti in patria, guardate che succede a varcare il Canale. Dall’altro, li si fa oggetto, insieme agli sventurati zingari preesistenti, prototipo del nomade-migrante, di spostamenti frenetici senza nessun motivo plausibile (dal Cara di Castelnuovo di Porto a Mineo, poi anzi no, a Mineo ci vanno i tunisini, al Cara gli zingari, no poi ci vanno i libici doc, ecc.), con la stessa logica capricciosa e intimidatoria delle periodiche “traduzioni” carcerarie.
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La vita delle scienze
Giancarlo Cinini* intervista Bruno Latour**
I filosofi sono sul sentiero di guerra”, c’è scritto sulla maglietta che indossa Bruno Latour. Come sia fatto questo sentiero di guerra è la domanda che non gli abbiamo fatto, ma ci viene da pensare a quei percorsi che un tempo, tra il ’15 e il ’18, si inerpicavano sopra i monti dell’Adamello e dell’Ortles e sui quali si confondevano i soldati, le nevi, le ferrate, la roccia e le pallottole: l’antropologo francese il suo sentiero filosofico l’ha percorso proprio dove i segni della natura e della cultura si sono sempre mescolati. Si è occupato soprattutto delle pratiche con le quali gli occidentali costruiscono la conoscenza su ciò che chiamano oggetti della natura, indagando come un etnografo i modi e i miti del fare scienza.
È l’autore della Actor-network theory, la teoria secondo cui ogni fatto sociale e ogni oggetto scientifico è il prodotto di un’intricata rete di relazioni e alleanze, tra umani e non-umani. Ha cominciato nel 1979, con Laboratory Life, studiando una particolare tribù del mondo occidentale: i neuroendocrinologi del Salk Laboratory di La Jolla, in California. La ricerca etnologica fu condotta a quattro mani con il sociologo Steve Woolgar e mirava a ricostruire i protocolli di ricerca, le tecniche di misura, gli strumenti, i miti dei ricercatori, che si mescolavano agli oggetti studiati.
Dieci anni dopo scriverà il suo primo saggio teorico, un’introduzione alla sociologia della scienza: La scienza in azione (1987), dove propose di “aprire la ‘scatola nera’ di Pandora” e di entrare nelle pratiche della tecnoscienza, un calderone fatto di laboratori, istituzioni e peer-review di riviste internazionali. Si è occupato del caso di Louis Pasteur in Microbi – Un trattato scientifico-politico (1984). Il grande scienziato Pasteur, racconta Latour, è un uomo abile, capace di spostarsi dai problemi dell’igiene pubblica alla fermentazione delle birre industriali, dalle malattie negli allevamenti alla pastorizzazione; Latour ne descrive il gioco di alleanze dentro e fuori le scienze, il modo in cui Pasteur trova ogni volta nuovi alleati, microbi, politici, allevatori, urbanisti preoccupati per l’igiene della città, produttori di birra.
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Il caleidoscopio del tempo
di Orsola Goisis
Massimiliano Tomba, Attraverso la piccola porta, (Mimesis, Milano-Udine, 2017)
“Il giardino dei sentieri che si biforcano era il romanzo caotico; le parole ai diversi futuri (non a tutti), mi suggerivano l’immagine della biforcazione nel tempo, non nello spazio […] in tutte le opere narrative, ogni volta che si è di fronte a diverse alternative, ci si decide per una e si eliminano le altre; in quella del quasi inestricabile Ts’ui PenX, ci si decide – simultaneamente – per tutte. Si creano così, diversi futuri, diversi tempi, che a loro volta proliferano e si biforcano”[1].
La memoria del curioso giardino descritto da Borges in un noto testo del 1941, mi ha accompagnata, come un adagio, nel corso della lettura dei quattro saggi su Benjamin che compongono Attraverso la piccola porta di Massimiliano Tomba.
È, infatti, a partire dal tempo e attorno al tempo, nelle sue pieghe anacronistiche, nei suoi iati e nelle sue aritmie, che si snoda la domanda filosofica dell’autore[2].
È la modernità capitalista ad aver profondamente modificato la natura della temporalità, ad averla assolutizzata nei termini di una linearità cieca e tirannica, lungo la quale tutti i fatti sembrano equivalersi, e non saranno né lo storicismo, né le contromosse automatiche di un mal inteso materialismo storico a ricucire le vestigia dell’individuo, giacente in frantumi, spogliato della possibilità di fare esperienza, annientato nella sua capacità di sintesi.
Ed è dunque, conseguentemente, dall’antropologia che occorre ripartire, provando a ipotizzare che anche la profonda crisi dell’esperienza e la distruzione del “vecchio soggetto”, se visti dal punto di vista del collettivo, possano rivelarsi occasioni di liberazione di una nuova coscienza politica, a patto che si cominci a pensare nei termini di una temporalità altra, come suggerisce Benjamin, a condizione che si ammetta un elemento di trascendenza capace di funzionare da contropeso alla struttura religiosa che il capitalismo va assumendo.
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La norma e il karma della legge
Sulla miseria del soggetto produttivo
di Paolo Vernaglione Berardi
Giorgio Agamben, Karman. Breve trattato sull’azione, la colpa e il gesto - Bollati Boringhieri editore 2017 -pagine 140 – €. 14,00
Pierre Macherey, Il soggetto delle norme – Ombre Corte editore – pagine 215 – €.18,00
Il successo del diritto
Una ricerca sull’istituzione e la funzione della norma deve risalire all’origine semantica del termine. Emerge così la sequenza concettuale tipica della modernità per cui ciò che comunemente è definito legge risulta dall’identità della norma con il diritto positivo. Ma questa traslazione, che per un verso è arbitraria e per altro verso è la risultante di un’operazione giuridico-politica eminente, chiarisce indirettamente un’altra occorrenza del concetto di norma, che assume oggi per lo più il senso di un paradigma universale, considerato indiscutibile: la normalità. La normalità sembra essere il grande compito della modernità che l’assume come legge di comportamento.
Un’archeologia del diritto deve dunque risalire la differenza tra norma e legge per cercare di scoprire il luogo di insorgenza di ciò che è normativo. Per far questo vale la pena delimitare lo spazio di senso della norma cercando di fare luce sui rapporti tra legge norma e normalità.
Questi rapporti, che sono densi e si districano con difficoltà, si presentano in una doppia linea che all’apparenza disegna una continuità, ma che a guardar bene segna invece una genealogia spezzata, i cui punti di rottura corrispondono al progressivo scivolamento di senso della norma dall’antichità all’epoca moderna.
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L’eccezione esemplare. La Rivoluzione Finlandese
di Eric Blanc
La dimenticata rivoluzione finlandese è forse fonte di maggiori insegnamenti che gli stessi avvenimenti del 1917 in Russia, stando alla ricostruzione di Eric Blanc*, che presentiamo nella traduzione di Valerio Torre del blog Assalto al cielo (assaltoalcieloblog.wordpress.com)
Nel secolo appena trascorso, i lavori di ricerca storica sulla rivoluzione del 1917 si sono per lo più concentrati su Pietrogrado e sui socialisti russi. Ma l’impero russo era prevalentemente composto da non-russi, e le convulsioni nella periferia erano solitamente esplosive come quelle del centro.
Il rovesciamento dello zarismo nel febbraio del 1917 scatenò un’ondata rivoluzionaria che inondò immediatamente tutta la Russia. Forse la più eccezionale di queste insurrezioni è stata la rivoluzione finlandese, che uno studioso ha definito «la più esemplare guerra di classe nell’Europa del XX secolo».
L’eccezione finlandese
I finlandesi costituivano una nazione differente da qualsiasi altra sotto il dominio zarista. Appartenuta alla Svezia fino al 1809, quando fu annessa alla Russia, la Finlandia godeva di autonomia governativa e libertà politica ed ebbe infine anche un parlamento proprio, democraticamente eletto. Benché lo zar tentasse di limitarne l’autonomia, la vita politica di Helsinki somigliava più a quella di Berlino che di Pietrogrado.
In un’epoca in cui i socialisti nel resto della Russia imperiale erano costretti ad organizzarsi in partiti clandestini ed erano perseguitati dalla polizia segreta, il Partito socialdemocratico finlandese (Psd) faceva politica legalmente.
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2016. La Nato che verrà…
Antonio Mazzeo
Aggressiva, dissuasiva e preventiva; onnicomprensiva, globale e multilaterale; cyber-nucleare, superarmata e iperdronizzata; antirussa, anticinese, antimigrante e anche un po’ islamofoba. Strateghi di morte e mister Stranamore vogliono così la NATO del XXI secolo: alleanza politico-economica-militare di chiara matrice neoliberista che sia allo stesso tempo flessibile e inossidabile, pronta ad intervenire rapidamente e simultaneamente ad Est come a Sud, ovunque e comunque.
La prova generale della NATO che verrà… si è svolta dal 3 ottobre al 6 novembre 2015 tra lʼItalia, la Spagna, il Portogallo e il Mediterraneo centrale. Denominata Trident Juncture 2015, è stata la più grande esercitazione NATO dalla fine della Guerra fredda ad oggi, con la partecipazione di oltre 36.000 militari, 400 tra cacciabombardieri, aerei-spia con e senza pilota, elicotteri, grandi velivoli cargo e per il rifornimento in volo e una settantina di unità navali di superficie e sottomarini. Presenti le forze armate di 30 paesi, sette dei quali extra-NATO o in procinto di fare ingresso formalmente nell’Alleanza (Australia, Austria, Bosnia Herzegovina, Finlandia, Macedonia, Svezia e Ucraina). In qualità di “osservatori”, inoltre, gli addetti militari di Afghanistan, Algeria, Azerbaijan, Bielorussia, Brasile, Colombia, Corea del Sud, El Salvador, Emirati Arabi Uniti, Giappone, Kyrgyzistan, Libia, Marocco, Mauritania, Messico, Montenegro, Russia, Serbia, Svizzera e Tunisia.
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Perché ci odiano?
Culture neocoloniali e deindustrializzazione nel ventre molle dell’Europa
di Militant
Dopo gli attentati di Parigi dello scorso 13 novembre da più parti ci si è chiesti: perché ci odiano? Questa volta le risposte, almeno quelle presenti nell’informazione generalista – che però è quella che forma l’opinione pubblica e di conseguenza le risposte politiche che a loro volta formano l’opinione pubblica in un loop senza fine – hanno tentato la carta psicologica. I terroristi altro non sarebbero che “scarti sociali” con “un livello medio-basso di cultura, una famiglia molto solida ed unita alle spalle e la pericolosa tendenza al fanatismo religioso. In tutti i terroristi si è sempre osservato che più si chiudevano ed isolavano rispetto alla società più diminuiva il loro senso di realtà, alimentando così dichiarazioni sempre più farneticanti da rendere quindi ogni loro “delirio” come giusto e possibile. In tutti i terroristi si è anche sempre osservato che la molla che li ha spinti ad agire è sempre l’odio” (qui). La scelta terrorista sarebbe la conseguenza di un’esistenza alienata e marginale che trova nell’idea forte del radicalismo islamico una prospettiva altrimenti impossibile e con internet lo strumento di relazione della propria patologia. Di tutte le risposte che i policy makers occidentali potevano escogitare questa è davvero la più incredibile. Non che ci credano essi stessi (se il capitalismo fosse così stupido sarebbe seppellito da un pezzo tra le bizzarrie della storia), ma essendo la più veicolata diviene quella socialmente più accettata, dando vita ad un processo di de-responsabilizzazione complessivo delle società occidentali. Corollario alla risposta psicologica è la richiesta di una “psicologia dell’antiterrorismo”, che miri a prevenire psichiatricamente la patologia del terrorista. Purtroppo, a queste cose l’opinione pubblica ci crede davvero.
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Non sempre è oro quel che luccica
di Sergio Bruno
Tutti i limiti del decreto appena varato sull'occupazione giovanile. Perchè a scoraggiare le assunzioni non sono solo il costo del lavoro o il cuneo fiscale ma soprattutto le prospettive di vendita. E senza domanda aggiuntiva le imprese non creeranno occupazione aggiuntiva
“Ora tocca alle imprese che possono assumere giovani”. Questa l’opinione del Presidente Letta dopo il varo del decreto sull’occupazione giovanile e a conclusione del vertice europeo. Questo riferimento alle responsabilità delle imprese è divenuto una parola d’ordine dei principali esponenti politici nei giorni successivi.
Ai provvedimenti oggetto del decreto giovani, annunciati con molta enfasi, vanno mosse alcune obbiezioni di un certo rilievo. La prima è che stiamo parlando non di circa 800 milioni di euro, ma di 200 milioni all’anno, il valore di qualche centinaio di appartamenti. La seconda è che non è chiaro come si arrivi a stabilire questa spesa, visto che molti dei provvedimenti non prevedono fondi chiusi, esauriti i quali i provvedimenti non vengono più concessi o vanno rifinanziati (ciò che, incidentalmente, dovrebbe sollevare ulteriori obbiezioni dal punto di vista della affidabilità della previsione di spesa e, quindi, della copertura). La terza è che tutti i riferimenti agli aspetti formativi sono vaghi e non sembrano fare i conti con lo stato attuale della capacità di fare formazione professionale in Italia. La quarta infine, sulla quale intendo qui aprire delle riflessioni, riguarda l’enfasi, sbagliata, posta nei richiami alle responsabilità delle imprese nel determinare il successo della strategia governativa.
Queste riflessioni sono importanti perché si annunciano ulteriori provvedimenti che dovrebbero essere meglio delineati in una ulteriore riunione dei ministri del lavoro europei.
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Crisi governo: crolla il capolavoro del Peggiorista
di Pino Cabras
Crisi di Governo. A Napolitano servirebbe un progetto, ma non ha altro progetto che conservare la poltiglia. Solo che ormai questa poltiglia è polvere pronta a esplodere
La crisi di governo si incrocia da subito con una profonda crisi istituzionale. Beppe Grillo sta già chiedendo perfino le dimissioni di Giorgio Napolitano. Quando il PD e il PDL rielessero il Peggiorista del Quirinale, parlammo di «Vilipendio al Popolo Italiano ». Ci risultava ben chiaro che Napolitano Due avrebbe dato vita a un governo peggiore di quello - già disastroso - di Rigor Montis (il minor economista della nostra epoca, che Napolitano Uno aveva fatto senatore a vita per poi indirizzarlo a Palazzo Chigi). Peccavamo però di ottimismo. Nemmeno certi governi balneari di Giovanni Leone o di Amintore Fanfani al suo crepuscolo avevano congelato in modo tanto miserabile la funzione di governo quanto il governo di Enrico Letta, ora al capolinea.
Perciò la crisi rivela bene quanto siano cadute in basso le cupole delle "larghe intese". Al minimo di azione di governo (un minimo sotto zero), è corrisposto il massimo di fuga in avanti per stravolgere l'assetto della Repubblica. Nonostante la paralisi lettiana, gli "strateghi" del PD e del PDL, rifugiati sotto le vecchie ali del Peggiorista, pensavano infatti di cambiare metà della Costituzione, cioè distruggerla, proprio come piace a JP Morgan .
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Fine dell'Euro: Guida alla Sopravvivenza
di Peter Boone e Simon Johnson
Nel loro Blog The Baseline Scenario Simon Johnson e Peter Boone sostengono che l'uscita della Grecia farà crollare l'eurozona, e qui spiegano come secondo loro accadrà
Per capire perché, prima spogliatevi delle vostre illusioni. La crisi Europea fino ad oggi è stata una serie di presunti "decisivi" punti di svolta, ciascuno dei quali si è rivelato essere solo un altro passo giù verso il burrone. Le prossime elezioni del 17 giugno in Grecia sono un altro momento del genere. Benché le forze cosiddette "pro-bailout" possano prevalere in termini di seggi parlamentari, una qualche forma di nuova moneta presto invaderà le strade di Atene. E' già quasi impossibile salvare l'appartenenza della Grecia alla zona euro: i depositi fuggono dalle banche, i contribuenti ritardano i pagamenti delle imposte, e le aziende posticipano il pagamento dei loro fornitori - sia perché non possono pagare sia perché si aspettano che presto potranno pagare in dracme a buon mercato.
La troika della Commissione Europea (CE), Banca Centrale Europea (BCE), e Fondo Monetario Internazionale (FMI), non si è dimostrata in grado di riportare la Grecia in una prospettiva di ripresa, e qualsiasi nuovo programma di prestiti incontrerà le stesse difficoltà. Con un'evidente frustrazione, il capo del Fondo Monetario Internazionale, Christine Lagarde, ha osservato la scorsa settimana, "Per quanto riguarda Atene, penso anche a tutte quelle persone che cercano continuamente di sfuggire al carico fiscale."
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Il biopotere della finanza
di Andrea Fumagalli
Brevi note sulla crisi dell'eurozona
Nel testo “Dieci tesi sulla crisi finanziaria” e nei saggi di Stefano Lucarelli e Christian Marazzi, pubblicati nel volume collettaneo di UniNomade, “Crisi dell’Economia Globale” (Ombre Corte, 2009), i mercati finanziari vengono definiti forma di “biopotere”. Credo sia necessario partire da questa definizione per comprendere cosa sta avvenendo in Europa e in particolare in Grecia.
1. E' da circa due decenni che i mercati finanziari di fatto determinano il valore delle valute internazionali e i loro rapporti di cambio, una volta venuto meno nel 1971 il rapporto di parità fissa tra dollaro e oro fissato a Bretton Woods nel 1944. Le scelte politiche di liberalizzazione del mercato internazionale dei capitali attuate negli anni ’80 a livello globale, le innovazioni finanziarie (per esempio i derivati) che hanno moltiplicato le operazioni puramente speculative, lo smantellamento dei sistemi pubblici di welfare e la precarizzazione del rapporto di lavoro hanno reso i mercati finanziari il perno su cui si fonda nel capitalismo contemporaneo. Essi rappresentano la base del processo di finanziamento dell’attività di investimento e dei principali meccanismi di distribuzione del reddito e di fatto "assicurano" la vita sociale di milioni di uomini e donne nel mondo.
La prima volta in cui tutto ciò è risultato manifesto è stato nel 1994. In seguito alla mancata firma del trattato di libero scambio tra Stati Uniti, Canada e Messico (Nafta), dopo la sollevazione zapatista nel Chapas, le principali società finanziarie (da Goldman Sachs alla Lehmann) hanno immediatamente stornato i loro investimenti finanziari speculativi dal Centro America ai mercati del Sud-Est asiatico.
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Troppa flessibilità fa male ai muscoli
Carlo Clericetti
Di che cosa si parla quando si discute di posto fisso? I discorsi degli imprenditori e di molti economisti sottintendono una realtà inesistente, ossia che l'impresa non abbia possibilità di dosare il fattore lavoro secondo le esigenze produttive. Sarebbe invece più utile, guardando alla storia del XX secolo e degli ultimi 30 anni in particolare, chiedersi se la flessibilità non sia nociva per l'economia in generale e anche per il funzionamento delle imprese
Il dibattito sul “posto fisso” innescato dalla recente dichiarazione di Giulio Tremonti assume certamente, come è stato sottolineato da alcuni esponenti del centrosinistra, aspetti piuttosto paradossali in un periodo di forte crescita della disoccupazione, che peraltro cancella prima di tutto tutta la gamma dei posti a vario titolo “flessibili”. Eppure sarebbe un errore concentrarsi su quest’ultimo aspetto ed evitare quindi una discussione nel merito. Perché è proprio questo tipo di discussione che stanno invece portando avanti tutti i sostenitori della flessibilità, per riaffermare concetti che negli ultimi due decenni hanno contribuito a quel corpo di teorie diventato tanto dominante da meritare di essere chiamato “pensiero unico”.
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‘Roma, la città che vogliamo’
Alba Vastano intervista Paolo Berdini, candidato sindaco Roma capitale
“In questi mesi deve partire un’azione di coinvolgimento delle migliori esperienze delle periferie, di tutte le vertenze aperte. Mi auguro che in tempi brevi in ogni municipio si formino comitati guidati dai giovani che in questi anni hanno combattuto contro le speculazioni per un’idea di città inclusiva. Se ci riusciamo, avremo fatto un grande passo avanti. Saremmo in grado di proporre concretamente alla città intera che esiste un’alternativa ai furbetti che utilizzano sempre il trucco del voto utile…Al governo di Roma si affermerà, dunque, chi saprà dare un speranza a questa città ripiegata su se stessa. Ѐ una sfida che dobbiamo saper cogliere” (Paolo Berdini).
Città nel buio, esercizi pubblici che si aprano e si chiudono a intermittenza, strade spente. Gente mascherata e isolata, tampinata da un virus balordo a caccia di respiri. Ѐ la pandemia. Ci tocca viverla fino in fondo. Anche Roma, come le altre città del mondo, è spenta. Non da mesi, da anni. Non è solo a causa della pandemia. La città è spenta da molto tempo. Dai tempi che si sono susseguiti dopo la giunta Petroselli e Nicolini. Da quando di mano in mano, di giunta in giunta, da sindaco a sindaco, da assessore ad assessore sono state rimpallate le responsabilità per ripristinare un welfare a misura di cittadino, a misura di una città fantastica che tutto il pianeta, per la storia, per l’arte, per la cultura conosce e ama.
La città è stata abbandonata e vive un degrado urbanistico spaventoso. Come riportarla agli antichi splendori, pensando all’era post pandemia? L’occasione potrebbero essere, presumibilmente, le prossime amministrative del mese di giugno del 2021, con una svolta eccezionale sulla scelta del nuovo primo cittadino e sulla sua futura giunta.
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Come ho imparato a non preoccuparmi dei minibot
di Massimo D'Antoni
È chiaro che la proposta dei minibot, che larga eco ha avuto in tutto il continente, ha a che vedere con la questione della posizione dell’Italia nell’euro, ma per affrontare il tema cerchiamo innanzi tutto di capire di che si tratta dal punto di vista economico e della finanza pubblica, perché non sempre le opinioni di commentatori più o meno esperti sono state precise e complete a riguardo. Ricapitoliamo dunque. Tra i crediti che i privati possono vantare verso la Pubblica Amministrazione figurano anche i cosiddetti crediti commerciali, che corrispondono a pagamenti non ancora effettuati, e spesso effettuati con molto ritardo, per prestazioni e fornitura allo Stato o (specialmente) agli Enti locali. Per la P.A. sono passività, cioè debiti, e il loro ammontare, non facile da determinare, è stimato tra i 50 e i 60 miliardi. La necessità di ridurre l’ammontare di tali debiti è riconducibile sia al rispetto della normativa comunitaria (l’Italia è stata deferita dalla Commissione alla Corte di giustizia della UE per i suoi ritardi sistematici), sia al fatto che pagamenti più regolari avrebbero effetti positivi sull’attività economica e sull’occupazione.
Partiamo dalla mozione approvata in Parlamento la scorsa settimana.Essa impegna il governo ad accelerare i pagamenti, prevedendo modalità quali la compensazione tra debiti e crediti nonché, qui il punto che ha suscitato tanto scalpore, “attraverso strumenti quali titoli di Stato di piccolo taglio”.
Potremmo descrivere l’idea nel seguente modo: invece di reperire le risorse necessarie sui mercati finanziari con l’emissione di titoli, i titoli verrebbero offerti direttamente ai creditori, su base volontaria (la “base volontaria” non è specificata nella mozione ma è stata ribadita più volta in sede di dibattito precedente il voto). Il creditore potrebbe accettare il titolo, in alternativa all’attesa del pagamento, perché disporrebbe di uno strumento più facilmente liquidabile, presso una banca o sul mercato finanziario.
La prima obiezione sollevata a questa soluzione è che essa determinerebbe un aumento del debito pubblico. È bene chiarire dunque alcuni aspetti della questione dal punto di vista della finanza pubblica. I crediti commerciali sono l’effetto di spese già impegnate dalla pubblica amministrazione, e quindi già contabilizzate in bilancio (e quindi già conteggiate ai fini del deficit di bilancio), ma per le quali le risorse di cassa necessarie alla liquidazione non sono state ancora reperite.
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Se riesplode l’Algeria, altro che caos libico
Karim Metref
Dietro la malattia di Abdelaziz Bouteflika infuria la lotta per il potere tra i clan rivali. E con il presidente ridotto al silenzio, ma in carica, i suoi uomini possono continuare indisturbati a saccheggiare le risorse del paese. Ma la catastrofe è dietro l'angolo
Chi si ricorda dell’Algeria? Sapete, quel piccolo paese grande come l’Europa occidentale sull’altra riva del Mediterraneo. Proprio di fronte alla Sardegna. Non si parla quasi mai dell’Algeria. Tranne se un gruppo di terroristi prende in ostaggio o taglia la testa a qualche cooperante occidentale. I media internazionali hanno sempre coperto pochissimo il paese nordafricano. Poche notizie ne escono. Anche la sanguinaria guerra civile degli anni 90 che ha falciato quasi 300 mila persone è stata una delle guerre meno documentate nella storia moderna. Sarà perché in Algeria tra un’uccisione di occidentali e un’altra non succede nulla?
Non è così. L’Algeria è un paese molto dinamico dove succedono molte cose. C’è una società civile che lotta per uscire dalla terribile situazione in cui è rinchiuso il paese dalla fine della guerra. Ci sono conflitti sociali importanti. Ultimamente ci sono stati persino scontri etnici tra popolazioni arabofone sunnite e una minoranza berberofona ibadita. Quindi c’è guerra etnica e religiosa. Il piatto favorito dell’infotainment globale. Eppure niente. Nessuno ci ha dato importanza e i timidi lanci delle agenzie sono andati a finire nella pattumiera delle notizie non notiziabili.
Questo silenzio è dovuto al fatto che l’Algeria è un paese poco conosciuto all’estero. Perché è rimasto chiuso per molti anni su se stesso. E in qualche modo lo è ancora. Ma è dovuto anche al fatto che il regime algerino è molto ricco e molto abile nell’arte di comprare il consenso internazionale. Dieci pozzi per i francesi, venti per gli americani, un gasdotto per gli italiani, qualcosina per i tedeschi, qualcosina per i canadesi… e così via. Se sai ingraziarti le multinazionali di ogni luogo diventi un paese al di sopra di ogni sospetto.
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La leggenda delle merci volanti
Lusso low cost dal Veneto alla Campania
di Devi Sacchetto
Cinque giorni dopo che lo stilista di punta ha finito di disegnare in qualche atelier parigino i nuovi modelli di Louis Vuitton, a Fiesso d’Artico (Venezia) si cominciano a produrre i prototipi che continueranno a fare la spola con la capitale francese su un aereo privato finché il campione non sarà pronto per entrare in produzione. La narrazione delle merci volanti, essenziale nella costruzione dell’immaginario del lusso esclusivo, oscura il lavoro che corre lungo tutta la filiera. La ricerca svolta per conto dell’associazione «Abiti puliti» e condotta con Davide Bubbico e Veronica Redini in tre aree di Veneto, Toscana e Campania ha cercato di rischiarare le trasformazioni nelle condizioni di lavoro nel cosiddetto sistema moda che, per quanto dimagrito, conta ancora complessivamente circa 500 mila addetti con una concentrazione in un pugno di regioni: Veneto, Toscana e Marche per le calzature e la pelletteria, Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna per l’abbigliamento. In Campania, che pure non è tra le regioni centrali per i due settori, permangono realtà produttive importanti, soprattutto nell’abbigliamento, con una forte incidenza di lavoro irregolare.
Negli ultimi dieci anni le filiere dell’abbigliamento e delle calzature hanno subito un profondo processo di riorganizzazione produttiva che è stato accelerato dalla crisi economica. Un ruolo chiave è stato assunto dai grandi gruppi internazionali detentori di brand grazie alle possibilità finanziarie di investimento sulla produzione e di gestione dei canali distributivi.
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Strage di Parigi: complottismo?
di Aldo Giannuli
Ci sono due forme di imbecillità perfettamente speculari: il complottismo e l’anticomplottismo. Il complottista ideologico pensa che nulla accada per caso, si ritiene furbo perché convinto che quel che appare sia sempre e solo finzione e che dietro ci sia sempre una qualche macchinazione di poteri forti, magari ai massimi livelli mondiali in cui si immagina esista un vertice unico ed onnipotente. L’anticomplottista, parimenti ideologico, non sopporta spiegazioni che cerchino di andare al di là delle apparenze, i bollettini di Questura sono la sua Bibbia, si ritiene furbo perché deride sistematicamente qualsiasi dubbio e chi lo formula. Lui ha solo certezze.
Ciascuno dei due pensa che l’altro sia un cretino, ed hanno ragione tutti due. Sembrano opposti, ma in realtà, ragionano allo stesso modo. Sia l’uno che l’altro non cercano di capire criticamente un avvenimento, ma semplicemente lo assumono come conferma di quello che già pensano e chiunque accenni ad una interpretazione non contrapposta, ma semplicemente diversa, è esecrabile e da ridicolizzare, se necessario leggendo anche quel che non c’è scritto o il contrario di quel che c’è scritto.
Perché ciascuno di loro (complottista o anticomplottista) legge quello che gli pare e non quel che c’è scritto effettivamente. E tutti e due sono abbastanza cafoni.
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QE o non QE, questo è il (non)problema...
Stefano Bassi
Ieri in molti si aspettavano che la FED (la Banca Centrale degli USA) inaugurasse la stagione del QE2 (= ripresa del Quantitative Easing = ripresa della rotativa stampa-dollari). In molti invece si aspettavano che la FED non si sarebbe ancora mossa.
Alla fin fine la FED ha messo in piedi una via di mezzo ovvero una sorta di QE 1.5.... oppure se preferire una sorta di QN = Quantitative Neutral a somma zero. Infatti il cassonetto della FED, pieno della spazzatura raccolta negli ultimi due anni di Grande Crisi, rimarrà (per ora) invariato a 2.000 miliardi di dollari circa.
Verranno usati i profitti (?...) generati dai Debiti della MBS-spazzatura (mortgage backed securities) e della Fannie-Freddie-spazzatura (rastrellata stampando a Debito dollaroni dal nulla) per finanziare l'acquisto di titoli del Debito Americano a lungo termine.
Un gioco di prestigio di alta classe: mi rifiuto di approfondire ulteriormente il suo meccanismo di funzionamento onde evitare che mi venga l'emicrania ed anche l'insonnia....
Le stime parlano di un riacquisto da 10 miliardi di $ al mese, robetta rispetto ai 14.000 miliardi di debito USA. Il QN ha lo scopo di abbassare ulteriormente i tassi d'interesse reali per stimolare investimenti/consumi e per dare un'ulteriore mano ai mutui. Che poi ci riesca è tutto un altro paio di maniche.
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Lo sporco segreto di “Hopenhagen”
Pepe ESCOBAR
PECHINO – Il 21 novembre sul China Daily è apparsa questa didascalia: “Tre donne fanno sembrare più piccolo il Nido d'Uccello [lo Stadio Nazionale] mentre si godono il cielo azzurro e il sole invernale, venerdì. Venerdì Pechino ha sperimentato il suo 260° giorno sereno del 2009, raggiungendo il proprio obiettivo 41 giorni prima della fine dell'anno”.
Si potrebbe pensare che il segreto del controllo climatico cinese e il raggiungimento degli “obiettivi” sia che Dio ha la tessera del Partito Comunista, e che i suoi obiettivi sono i piani quinquennali, come per chiunque altro (eccetto gli “scissionisti”). Dio, ovviamente, non si sognerebbe mai di diventare uno scissionista.
Solo nell'ultimo mese in Cina sono stati venduti 1,34 milioni di automobili. Sono una gran bella fonte di gas serra. Confrontateli con il nuovo obiettivo di Pechino, quello di ridurre l’intensità di carbonio – emissioni di anidride carbonica per unità di prodotto interno lordo – dal 40 al 45% entro il 2020, rispetto ai livelli del 2005. Cosa se ne faranno di tutte queste auto, le esilieranno in Corea del Nord?
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Francia, cattivo esempio
Rossana Rossanda
Non è serio ridurre la questione della legge elettorale alla solita rissa fra notabili. Quali che siano i limiti della democrazia rappresentativa, considerare il problema come inesistente è una frivolezza che non ci possiamo permettere.
Il sistema elettorale «alla francese», al quale inclina Walter Veltroni, è il peggiore nei dintorni. Un presidenzialismo secco, vera e propria monarchia, senza neanche un'adeguata informazione degli elettori: Nicolas Sarkozy, scelto dal suo partito nel giro di due sedute a 2007 già avanzato, era presidente della Repubblica quattro mesi dopo. Peggio che negli Usa.
Nel sistema statunitense come in quello francese l'obiettivo è ridurre più che si può la complessità delle espressioni politiche in una società complessa. Cosa che negli Usa è, molto parzialmente, corretta da una divisione dei poteri, in Francia assai meno. E non penso a quella elementare divisione che dovrebbe darsi fra presidenza, governo e parlamento; già era poca cosa dopo la costituzione di De Gaulle del 1958, adesso sarà ancora meno, dato che secondo la commissione nominata da Sarkozy se finora toccava al presidente e al governo decidere la linea della Repubblica, d'ora in poi questo toccherà soltanto al presidente.
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La Sovranità e lo scontro tra economia e politica
Ivan Giovi intervista Carlo Galli
Oggi sull’Osservatorio Globalizzazione abbiamo il paicere di intervistare il politologo Carlo Galli, professore di storia delle discipline politiche all’Alma Mater-Università di Bologna e già deputato nella XVII legislatura
OG: Professor Galli nel suo saggio “Sovranità” appare emblematica espressione “Sovranità è democrazia? Oggi si”: quali sono le funzioni economiche, politiche e sociali che, oggigiorno, impediscono il pieno esercizio della sovranità?
CG: La sovranità dello Stato oggi è fortemente limitata da una serie di determinazioni giuridiche, economiche e politiche; quelle politiche sono i trattati derivanti dalle nostre scelte di grande politica internazionale, per esempio l’adesione alla NATO. Sotto il profilo giuridico la sovranità di un paese e anche dell’Italia è limitata da trattati che regolano alcuni comportamenti internazionali del paese: il nostro ingresso nell’Onu ci ha privato dello Ius ad Bellum che peraltro era già messo in discussione nella nostra Costituzione. Poi ci sono motivazioni di carattere economico: la nostra adesione ai trattati che istituiscono l’Euro ci ha privato della sovranità monetaria. Sono privazioni in qualche modo volontarie perché giungono a compimento con un voto del Parlamento. Tuttavia, sono limitazioni, e quelle che i cittadini sentono maggiormente oggi sono quelle economiche. Lo Stato italiano resta sovrano come tutti gli Stati che fanno parte dell’unione europea, ma con una cessione di sovranità monetaria: è venuto meno quello gli economisti chiamano il signoraggio, il comando politico sulla moneta, cessato nel 1981 con il cosiddetto divorzio fra ministro del Tesoro e la Banca d’Italia. E ciò consegna lo Stato ai mercati.
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Le Favole di Salvini
di coniarerivolta
Leggenda vuole che molti e molti anni orsono uno sbruffone si vantasse sguaiatamente delle sue gesta. In particolare sosteneva, lo sbruffone, di poter saltare da un piede all’altro del colosso di Rodi. La leggenda racconta anche che non ci volle poi molto a verificare la consistenza delle fanfaronate dello sbruffone. Bastò infatti che uno degli astanti proponesse all’incauto millantatore “Hic Rhodus, hic salta” (fai conto che questa sia Rodi, facci vedere quello che sai fare), per riportarlo a più miti consigli.
Molta acqua è passata sotto i ponti da allora, eppure una vicenda simile si ripete in questi giorni di fronte ai nostri occhi. Secondo un copione già visto, Matteo Salvini ha passato le ultime settimane, non a caso coincidenti con la campagna elettorale, a promettere grandi sconvolgimenti. Basta con l’austerità che ci soffoca! No all’adesione cieca a regole di bilancio che causano disoccupazione e miseria! E se all’Europa non va bene, peggio per lei, ce ne faremo una ragione! Apparentemente il trucco ha funzionato, ancora una volta. Nonostante un anno di governo all’insegna dell’austerità e della continuità totale con i governi che l’hanno preceduto, il leader della Lega è riuscito di nuovo a presentarsi all’elettorato come l’(unica) alternativa ai sacrifici imposti dai Trattati europei e a capitalizzare un impasto esplosivo di rabbia e rancori di una piccola e media borghesia sempre più incattivita. Nelle ore immediatamente successive alle elezioni, Salvini ha rincarato la dose, promettendo una rivoluzione fiscale quantificabile in 30 miliardi di euro di tagli alle tasse, sotto forma di flat tax per i redditi delle imprese e delle famiglie con un reddito fino a 50.000 euro. Il tutto infarcito dal campionario standard con cui Salvini ha mascherato il suo nulla negli ultimi 12 mesi: “non sto a impiccarmi a un parametro, un numero o una regoletta”, “l’era della precarietà e dell’austerità si è conclusa”, non ci importa di “rispettare gli zero virgola”.
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Cybercom
Per l'evoluzione del marxismo
di Marcello Olivieri
Introduzione alla terza edizione
Il presente progetto di ricerca sull'aggiornamento del paradigma del materialismo storico nasce a metà degli anni '90. La prima edizione di Cybercom. Per l'evoluzione del marxismo risale al luglio 2007. Si trattava di un pamphlet a tesi piuttosto breve, grezzo e incompleto come le severe quanto preziose critiche e osservazioni dei lettori mi fecero notare. La consapevolezza delle loro ragioni mi indusse a pubblicare una seconda edizione rivista e ampliata un anno e mezzo dopo. Il risultato fu più che confortante: alle voci cybercomunismo e sociologia della creatività il motore di ricerca Google classificava il sito al primo posto su un totale rispettivamente di 10.300 e risultati al 31 luglio 2011. Posizione occupata dal gennaio 2010 fino a tutto il 2013. All'epoca, i risultati precedenti la pubblicazione del libro erano di circa 7.000 e 230.000. Segno evidente che le integrazioni avevano suscitato un crescente interesse.
Le ulteriori critiche e suggerimenti e gli eventi occorsi da allora hanno prodotto questa terza edizione, cresciuta dalle duecento pagine della prima a oltre quattrocento. L’impianto teorico originale è rimasto invariato, ma sono stati aggiunti i mancanti ampliamenti e le necessarie precisazioni, ulteriori schemi sintetici e molti dati empirici che spero contribuiscano a chiarire in modo più esaustivo le tesi.
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