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L’utopia contro la distopia del tecno-capitalismo
di Lelio Demichelis
Nazionalismi, seccessioni, biopotere. Che fare? - davanti a un potere che de-sovranizza il demos espropriandolo della sua demo-crazia?
L’articolo di Pierluigi Fagan, ripreso da Megachip è una sintesi perfetta dei problemi che affliggono questa nuova crisi di quella lunghissima modernità che ci accompagna dalla rivoluzione scientifica e soprattutto dalla prima rivoluzione industriale e dal tradimento ottocentesco della rivoluzione francese - quando nascono l’individuo moderno e il liberalismo ma anche, con Foucault, la società disciplinare/biopolitica e del controllo.
Ma allora, che fare? - davanti a questa crisi che nuovamente produce l’esplosione delle identità collettive, lo svuotamento delle identità individuali, la rinascita di autoritarismi nazionalismi e populismi, mentre illude di nuove soggettività/diritti individuali cancellando allo stesso tempo quei diritti sociali che ne sono la premessa e la sostanza?
Che fare? - davanti a un potere che de-sovranizza il demos espropriandolo della sua demo-crazia?
Servono risposte che siano davvero altre rispetto a quelle inventate fin qui dalla modernità per gestire il suo potere e le sue crisi (lo Stato, la sovranità, l’individuo, i totalitarismi, il fordismo, il consumismo, l’industria culturale, oggi la rete).
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Genere e famiglia in Marx: una rassegna
di Heather Brown
Molte studiose femministe hanno avuto, nel migliore dei casi, un rapporto ambiguo con Marx e il marxismo. Una delle questioni oggetto di maggiore contesa riguarda il rapporto Marx/Engels.
Gli studi di György Lukács, Terrel Carver e altri, hanno mostrato significative differenze tra Marx ed Engels circa la dialettica, così come su molte altre problematiche (1). Basandomi su tali lavori, ho esplorato le loro differenze riguardo alle questioni di genere nonché della famiglia. Ciò è di particolare rilevanza in rapporto ai dibattiti attuali, considerato che un certo numero di studiose femministe hanno criticato Marx ed Engels per quello che considerano il determinismo economico di questi ultimi. Tuttavia, Lukács e Carver indicano proprio nel grado di determinismo economico una notevole differenza tra i due. Entrambi considerano Engels più monistico e scientista di Marx. Raya Dunayevskaya è tra le poche a separare Marx ed Engels riguardo al genere, indicando nel contempo la natura maggiormente monistica e deterministica della posizione di Engels, in contrasto con una comprensione dialetticamente più sfumata delle relazioni di genere da parte di Marx (2).
In anni recenti, vi è stata scarsa discussione intorno agli scritti di Marx su genere e famiglia, ma negli anni Settanta e Ottanta, essi erano oggetto di numerosi dibattiti. In alcuni casi, elementi della più complessiva teoria marxiana andavano a fondersi con la teoria femminista, psicoanalitica o di altra forma, nel lavoro di studiose femministe come Nancy Hartsock e Heidi Hartmann (3). Queste hanno visto la teoria di Marx come primariamente chiusa rispetto alle questioni di genere, insistendo sulla necessità di integrazioni teoriche al fine di comprendere meglio le relazioni di genere.
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L’impossibile economia pubblica
Il paradosso ideologico dell’articolo 81 della Costituzione di fronte al nuovo ciclo di privatizzazioni
Militant
L’approvazione del nuovo articolo 81 della Costituzione, avvenuta con il consenso di tutto l’arco parlamentare nel maggio 2012, è all’origine del nuovo paradossale ciclo di privatizzazioni dei restanti lembi di economia pubblica italiana. Nel giro di pochi mesi sono state privatizzate Poste e Ferrovie (quest’ultime ancora in corso di privatizzazione), gli ultimi due colossi economici ancora di proprietà statale, senza che nessuno abbia avuto da ridire e anzi con il benestare di tutte le forze politiche. Le stesse che da anni spingono per la definitiva privatizzazione di tutta l’economia “municipalizzata”, quella cioè legata ai servizi pubblici comunali. E questo per l’ormai dichiarato motivo per cui se tra ceti politici c’è una lotta allo spodestamento del gruppo concorrente, socialmente tutti i “rappresentanti” politici in parlamento condividono lo stesso modello economico, il liberismo, nelle sue vesti corporative (centrodestra) o transnazionali (centrosinistra). Se però nel precedente ciclo di privatizzazioni, tra la metà degli anni Novanta e i primi Duemila (sempre inequivocabilmente a trazione centrosinistra, tanto per non confondere i protagonisti in campo), le giustificazioni erano sostanzialmente di due tipi: da una parte “fare cassa” con la vendita di determinati beni pubblici; dall’altra migliorare l’efficienza delle imprese sottratte al controllo statale, oggi è intervenuta una nuova e più sottile opera di convincimento: la privatizzazione è la soluzione al problema degli investimenti produttivi, investimenti impossibilitati allo Stato per via del “debito pubblico” o dei “vincoli europei” (qui, quo e qua per rendersi conto di cosa parliamo, ma ancora qui). Ci troviamo di fronte però ad un paradosso zenoniano, stranamente poco rilevato da chi vorrebbe opporsi al governo Renzi. Secondo tutti gli analisti economici, l’unico modo per far ripartire la domanda e dunque l’occupazione è quello di far ripartire gli investimenti.
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Paint it red. L’ordine della guerra e il nostro disordine transnazionale
∫connessioni precarie
Tanto la guerra santa quanto quella democratica pretendono oggi di imporre un principio d’ordine. Entrambe dividono con precisione i campi, chiedono di schierarsi per raggiungere gli scopi stabiliti. Rifiutare l’ordine della guerra non significa però confidare nel pacifismo. Non appare neppure lontanamente possibile ripetere l’esperienza del grande movimento che, dopo l’aggressione all’Iraq nel 2003, era stato addirittura indicato come la seconda grande potenza mondiale. Nonostante la diffusa diffidenza verso la guerra come soluzione, nonostante la scarsa fiducia in coloro che la guerra dovrebbero condurla, contrapporre semplicemente la pace alla guerra in corso appare velleitario e, in fondo, impraticabile. C’è una gran fretta di dichiarare una guerra per la quale gli aggettivi ormai si sprecano. C’è chi, con tutta la sua autorità, dice che è già scoppiata la terza guerra mondiale, c’è chi aggiunge che questa guerra mondiale è guerra civile e c’è chi dice che siamo in presenza della madre di tutte le guerre, la guerra globale. E prima di tutto c’è ovviamente la guerra santa. Il tempo che abbiamo di fronte, però, non è fatto solo di combattimenti, ma anche di una pace segnata dall’oppressione e da linee di confine che si confondono in continuazione dentro le metropoli e sulle strade che le congiungono. Se dunque vogliamo l’opposto di questo tempo, non possiamo chiedere semplicemente la sospensione della guerra, dobbiamo puntare decisamente alla trasformazione delle condizioni che lo rendono possibile. Nonostante i proclami, non siamo nemmeno di fronte allo scontro fondamentale tra principi inconciliabili. Il 13 novembre a Parigi non è stata dichiarata la guerra che rende finalmente evidente i fronti, perché nonostante tutto non è auspicabile consegnare questo tempo alle relazioni tra gli Stati, nelle quali i nemici possono improvvisamente diventare se non amici, almeno alleati. Per noi, invece, questo è decisivo. Dobbiamo individuare con chiarezza i nostri nemici senza guardare ai fronti disegnati da altri.
Non si può dipingere di rosso una porta nera. In questi ultimi giorni molto è stato giustamente detto sul differente peso dei morti, misurando le poche lacrime versate davanti alle stragi sui diversi e distanti fronti di guerra e lo scandalo per l’attacco a una delle più importanti capitali d’Europa.
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Silenzi, apartheid democratico e futuro delle lotte
di Caprimulgus
C’erano oltre duemila persone sabato scorso a Bologna alla manifestazione per i diritti dei migranti e l’abolizione della Bossi-Fini. La parte schiacciante dei manifestanti erano i migranti stessi, mentre la presenza italiana era rarefatta per l’assenza delle tradizionali forze politiche e sindacali che, pur in modo contraddittorio, avevano sostenuto i lavoratori migranti negli anni scorsi. Un solco del resto già scavato nel 2010, quando le grandi centrali sindacali definirono lo sciopero del primo marzo contro la Bossi-Fini uno sciopero «etnico» e la gran parte dei sindacati di base lo ignorò, usando come paravento l’appoggio a quella giornata da parte di esponenti del PD. Con questi precedenti non stupisce che nessun sindacato, ad esclusione di quello incarnato dagli stessi migranti presenti in piazza, abbia organizzato una sua presenza.
D’altra parte i media avevano ben lavorato nel trascurare la manifestazione: perfino il Manifesto, che pure con tanta oculatezza aveva seguito lo sciopero nella logistica del giorno precedente, di cui la manifestazione era la naturale prosecuzione, non le ha dedicato un francobollo.
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Draghi ha sempre ragione
di Gianni Giovannelli
El povaro me dise:
son vigliaco, sì, ma ‘scolta: gò la mare vecia,
el pare vecio,
la mugier piutosto zòvene,
e i fioi da mantigner.
Saria la fame.
Giacomo Noventa
(Versi e poesie)
Milano, Edizioni di Comunità , 1956
Il Senato, nella seduta del 15 settembre, ha approvato la conversione in legge del decreto n. 105/2021, su cui il governo, per non correre rischi, aveva chiesto il voto di fiducia; conseguentemente ha trovato conferma la strategia del lasciapassare utilizzato come principale strumento di contrasto del Covid e di regolamentazione dell’emergenza, mettendo a tacere la peraltro tiepida opposizione interna alla maggioranza delle larghe intese. Il giorno successivo il presidente del consiglio ha varato un nuovo decreto legge, trasmettendo il testo al Quirinale per una firma che viene data per scontata, nonostante la delicatezza del contenuto; il nuovo provvedimento non è solo innovativo rispetto alla legislazione europea vigente, ma si caratterizza per una natura a modo suo costituente, con una interpretazione cioè dei precetti costituzionali quanto meno assai disinvolta, certamente fino ad oggi mai percorsa nei paesi dell’Unione.
Il green pass – la certificazione verde europea – assume, con questo decreto, la funzione di un vero e proprio lasciapassare, senza il quale viene inibito d’imperio l’accesso ai luoghi di lavoro, e conseguentemente al reddito.
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Il “governo del cambiamento”: cambiare tutto per non cambiare niente
di coniarerivolta
Dopo giorni concitati e continui ribaltamenti di fronte, la crisi di governo si è risolta in un governo Cinque Stelle – Lega. Nel giro di poche settimane è accaduto di tutto e non è accaduto nulla. Il teatrino a cui abbiamo assistito potrebbe essere riassunto in un titolo: storia di una normalizzazione. Le forze politiche intenzionate a formare un governo insieme avevano inserito nella lista dei ministri un nome, quello di Paolo Savona, in passato associato a un fantomatico “piano B”, un piano per l’uscita dell’Italia dall’Euro. Il piano B, più che essere applicato alla lettera, doveva servire, nelle intenzioni degli autori, come strumento di contrattazione per ottenere un ampliamento dei margini di manovra dei governi nazionali rispetto agli stringenti vincoli dei Trattati europei. Si è ben presto capito che anche la semplice minaccia dell’uscita dall’euro come strumento di leverage nei confronti della Commissione e delle altre istituzioni europee era ostativa alla formazione di un governo. Alla fine, pur di ottenere l’incarico, Cinque Stelle e Lega si sono piegati agli ordini di Mattarella, delle Istituzioni europee e dei mercati. Una manifestazione di forza dei guardiani dello status quo e di debolezza dei finti ribelli giallo-verdi, ma anche la conferma che la messa in discussione dei dogmi dell’austerità è ciò che i primi temono di più. Questo il punto dal quale partire per costruire una vera alternativa alla stagnazione e alla precarietà che l’Europa ci impone.
Al di là dei toni da farsa, la telenovela politica messa in scena nei giorni scorsi lascia emergere una serie di nodi sostanziali che vale la pena sciogliere per aver chiara la trama di quanto accaduto e di quanto potrà accadere da qui al futuro prossimo:
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Machiavelli 2017 - Tra partito connettivo e partito strategico
di Mimmo Porcaro
Ho tenuto a lungo nel cassetto questo breve articolo, pensato per lettori non italiani – e già pubblicato in versione tedesca (in cooperazione con la rivista Jacobin) su LuXemburg (periodico della fondazione omonima), n. 2, 2016 – perché temevo che la concezione “stretta” di partito che qui propongo potesse influenzare negativamente il processo di costruzione di una vera forza socialista nel nostro paese. Se è infatti vero che abbiamo bisogno anche di un partito fatto di elementi molto selezionati, è altrettanto vero, però, che tale selezione deve avvenire su una platea molto più vasta di quella che abbiamo a disposizione oggi. Oggi servono organismi politici capaci di avviare la crescita di una prospettiva socialista attraendo forze di buona consistenza numerica e di diversa estrazione sociale e culturale: solo sulla base di questa prima crescita si potrà operare, o verrà operata dai fatti, una selezione che estragga gli elementi più consapevoli e determinati. Considerato che organismi del genere stanno per fortuna iniziando a nascere, e con il passo giusto (penso alle pur diverse esperienze di Eurostop e della Confederazione di Liberazione Nazionale), mi sembra adesso che questo scritto posa avere una qualche utilità anche per la discussione italiana. Per questo lo rendo pubblico, con minime modifiche rispetto alla precedente versione.
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Lo spettro di Marx
Andrea Vitale
Il pensiero di Marx è per tutti i sostenitori del capitalismo un’ossessione costante, da esorcizzare in tutti i modi. Nessun credito può esser dato da parte loro a chi ha sostenuto la necessità di un diverso ordinamento sociale, senza padroni e sfruttamento. In epoche di crisi, in cui si palesano violentemente tutte le contraddizioni insite nell’economia di mercato, questa preoccupazione è destinata a crescere in maniera esponenziale. L’espressione teorica del movimento degli operai verso la loro liberazione va cancellata, fatta passare come una sterile e dannosa utopia.
L’ultimo esempio in questo senso lo abbiamo avuto lo scorso mercoledì 15 marzo su Il Fatto Quotidiano. Ne è stato autore Marco Ponti, professore ordinario di Economia applicata al Politecnico di Milano, uno che è fiero di essere definito “un pericoloso comunista-liberista”, oltre ad essere imprenditore, esser stato consulente di molti ministri dei trasporti ed economici, consigliere di amministrazione di alcune società pubbliche e collaboratore della Commissione Europea. Dall’alto di questo curriculum di tutto rispetto, “garanzia” di sicura imparzialità di giudizio, il Ponti pubblica un articolo dal titolo significativo “Lo spettro di Karl Marx sulla sinistra anti mercato”, il cui occhiello ne rivela subito lo spirito: “LA LEZIONE. Senza concorrenza le forze produttrici si sviluppano pochissimo e i beni comuni tendono a essere distrutti. Il capitalismo non è il male assoluto”.
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Divisione del lavoro e funzione sociale dell’intellettuale
di Renato Caputo
L’intellettuale potrà realmente contribuire all’emancipazione della società da ogni forma di dominio e sfruttamento soltanto se opererà in funzione del superamento di se stesso. In altri termini, unicamente se rinuncerà ai relativi privilegi dovuti alla propria separazione dal lavoro manuale e dalla propria conseguente subalternità alla classe dominante potrà essere realmente autonomo, critico, e svolgere una funzione progressiva.
La primigenia divisione del lavoro fra lavoratori manuali e lavoratori della mente è in qualche modo fondativa della stessa storia della società umana per come la abbiamo sino a ora conosciuta. Tale originaria lacerazione del corpo sociale è alla base della scissione della società in gruppi sociali, caste e poi classi con interessi divergenti e potenzialmente conflittuali.
Tale divisione del lavoro, da cui è sorto l’intellettuale, ha così caratterizzato in profondità la società umana tanto quanto quella altrettanto primigenia fra i sessi. Essa è certamente alla base dell’eccezionale progresso storico del genere umano, genialmente sintetizzato da Stanley Kubrik in una celebre scena di 2001 Odissea nello spazio, in cui il bastone, usato per la prima volta come strumento da un uomo primitivo, in un arco di tempo relativamente limitato si trasforma nell’astronave proiettata alla “conquista” dello spazio. Allo stesso tempo però – e questo costituisce certamente il lato oscuro del progresso, troppo spesso colpevolmente occultato – esso è stato il prodotto di un incessante conflitto sociale. Quest’ultimo – sviluppatosi in seguito a livello internazionale e che ha strumentalizzato la stessa differenza fra i sessi – si è articolato ora in modo aperto, ora in forma latente, nel caso in cui è stato portato avanti in modo sostanzialmente unilaterale dal gruppo sociale dominante, da sempre interessato al mantenimento della “pace sociale” in funzione di una più agevole salvaguardia dei propri privilegi.
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Governo Letta: larga l’intesa, stretta la via
di Alfonso Gianni
Mentre il nuovo segretario del Pd Guglielmo Epifani incassa l’assenso della Direzione del suo partito con soli sei astenuti, sulla base della dichiarazione che la discussione sulle riforme costituzionali va fatta in Parlamento e che bisogna tenere fuori sia il governo che la Presidenza della Repubblica, accade esattamente il contrario. Un caso di mala informazione? Non credo è che ormai le parole hanno perso di significato. In effetti il Pd aveva già votato, assieme al Pdl e approvato una mozione che impegnava il governo a presentare una modifica dell’articolo 138 per affrettare il dibattito parlamentare sulle riforme. Dal canto suo Napolitano aveva già dettato i tempi e i ritmi della discussione parlamentare, mentre Enrico Letta procedeva alla nomina di 35 esperti, con qualche presenza di sinistra per dividere il fronte, al fine di “confortare” il governo durante l’iter della riforma della seconda parte della Costituzione e della legge elettorale.
Se sul terreno delle riforme costituzionali il governo Letta mostra un’insolita determinazione, su quello delle politiche economiche la continuità è indubbiamente il tratto caratteristico che lo unisce al governo Monti. Se ne vedevano i segnali ante litteram: infatti non era difficile, per come si stavano predisponendo le cose, scommettere su una ultrattività del programma montiano al di là delle vicende e delle sorti politico-elettorali non travolgenti del suo alfiere.
La ragione di fondo sta nel fatto che tanto Monti quanto Letta si sono mossi e si muovono dichiaratamente entro il perimetro programmatico stabilito dalla nuova governance europea fin dalla famosa lettera della Bce al morente governo Berlusconi dei primi di agosto del 2011.
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La crisi e le politiche sociali
di Felice Roberto Pizzuti
La sottovalutazione della crisi e, in particolare, delle sue cause di natura reale continua ad essere uno dei maggiori ostacoli al superamento della crisi stessa.
La «Grande crisi» esplosa nel 2008, il cui decorso è ancora incerto, si è manifestata inizialmente nelle Borse e nel sistema bancario a livello internazionale; ciò ha contribuito a un’interpretazione diffusa che la sua natura sia essenzialmente finanziaria; invece, la crisi riflette anche e soprattutto contraddizioni di natura reale delle relazioni economiche, sociali e politiche tuttora irrisolte.
Le cause più recondite della crisi sono :
• L’aumento dell’incertezza nei mercati, che negli ultimi tre decenni è stata sottovalutata dalle teorie economiche prevalenti, proprio mentre veniva accentuata nei fatti dalla globalizzazione e dalla finanziarizzazione dell’economia;
• Il contemporaneo indebolimento delle istituzioni e delle politiche economiche e sociali preposte a compensare l’instabilità dei mercati;
• Gli effetti negativi dell’accresciuta sperequazione distributiva sugli equilibri economici e sociali;
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Coincidenze parallele
Teo Lorini
Molte riflessioni si stanno dipanando in queste ore dal complicato garbuglio di omissioni e ricatti, video apparsi e scomparsi, smentite e ammissioni che ha per protagonista il presidente PD della regione Lazio, Pietro Marrazzo.
A cominciare dalla constatazione (ovvia ovunque tranne che in Italia) per cui è inammissibile che sia esposto a ricatti il titolare di una carica politica di quel livello e –a maggior ragione- il detentore di un ancor più importante incarico. Perché allora Marrazzo si sospende dalla carica e non lo fa invece il primo ministro che da mesi ha ammesso, con l'ardito eufemismo "non sono un santo", di essere un puttaniere e del quale sono, per di più, provati gli intensissimi rapporti con un corruttore sotto inchiesta per induzione alla prostituzione, ma anche per detenzione di cocaina a fini di spaccio?
Più a fondo ancora ci si potrebbe chiedere, come fa Piergiorgio Paterlini, se tutto si possa ridurre alle usurate categorie della 'debolezza', degli ormai logori vizi privati e delle sempre più implausibili pubbliche virtù o se invece non si debba almeno tentare un'esplorazione più ampia, nei campi ancora ostinatamente tabù "del desiderio, dell'identità, del sesso che si paga".
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Un po' di storia recente per gli ignari
di Gianfranco La Grassa
1. Da qualche punto debbo cominciare questa mia breve (e fin troppo succinta) memoria della storia che abbiamo attraversato da molti decenni a questa parte. Intanto partirò da una premessa di tipo personale. Ho aderito al comunismo nel 1953. Mi trovai subito immerso nei dubbi e perplessità, direi perfino in opposizione, quando uscì l’articolo di Togliatti su Nuovi Argomenti nel 1956 con la trovata della “via italiana al socialismo”. In quell’anno fui contrario al XX Congresso del PCUS (tenutosi a febbraio) e poi ammirai l’intervento di Concetto Marchesi all’VIII Congresso del PCI (verso la fine del ’56), in cui svillaneggiò Chruščëv, il meschino ricostruttore delle vicende dello stalinismo in chiave puramente personalistica e come si trattasse del frutto di una psiche disturbata e tendenzialmente criminale; con metodo insomma del tutto simile a quello, criticato dai comunisti (almeno da quelli che conoscevano un po’ il marxismo), quando si parla di Hitler folle e “mostro”, ricostruendo la storia in base a simili fatue categorie interpretative. Ricordo che Togliatti andò a stringere la mano a Marchesi dopo l’intervento e ciò rinsaldò il mio atteggiamento critico di fronte a quello che ho sempre considerato l’opportunismo dell’allora segretario piciista. Nell’ottobre del ’56 fui senza esitazioni per l’intervento in Ungheria, non approvando però l’atteggiamento incerto dei sovietici (una prima mossa aggressiva frettolosa e poco giustificata, poi l’arresto dell’operazione, infine la repressione troppo brutale).
Accettai inoltre quel fatto per ragioni che oggi si direbbero geopolitiche. Ritenevo un disastro che si sbriciolasse il campo avverso a quello atlantico (guidato e comandato dagli Usa). Cominciai tuttavia a chiedermi quale coincidenza ci fosse tra il “socialismo” imparato sui testi marxisti e quello in atto.
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Le cose dette, quelle non dette, quelle taciute e le parole vuote
di Elisabetta Teghil
“Oh che bel castello marcondiro ndiro ndello,
oh che bel castello marcondiro ndiro ndà”
“Il mio è ancora più bello marcondiro ndiro ndello,
il mio è ancora più bello marcondiro ndiro ndà”
”E noi lo ruberemo marcondiro ndiro ndello,
e noi lo ruberemo marcondiro ndiro ndà”
”E noi lo rifaremo marcondiro ndiro ndello,
e noi lo rifaremo marcondiro ndiro ndà”
Filastrocca
Nei documenti e negli appelli in vista dello sciopero delle donne chiamato per questo 8 marzo 2017 dalla socialdemocrazia femminile, vengono dette e sono state dette tante cose. Vengono dichiarate le condizioni lavorative ed economiche a cui sono sottoposte le donne, i salari ridotti in molti casi rispetto a quelli maschili, la licenziabilità, il ricatto della gravidanza, lo strumento infido del part-time, le molestie sessuali a svariatissimi livelli sul posto di lavoro e le vessazioni quotidiane, la subalternità e lo sfruttamento delle lavoratrici migranti…
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Contro le primarie*
di Rino Genovese
Sono radicalmente contrario alle primarie. E provo a spiegare perché. Anzitutto, come nascono le primarie in Italia? Le volle Romano Prodi, che non aveva alcun partito alle spalle e, in quei tempi che sembrano ormai lontani, guidava una variegata coalizione di centrosinistra in chiave antiberlusconiana. Come spesso accade per le cose italiane, erano una merce d’importazione dagli Stati Uniti. Laggiù sono una cosa relativamente seria (per esempio ci s’iscrive alle liste elettorali un annetto prima), e la più tipica espressione di un presidenzialismo da sempre molto personalizzato, organizzato attorno a due grandi partiti che in realtà, più che partiti politici nel senso europeo, sono dei giganteschi comitati elettorali. Contro il berlusconismo politico-televisivo e il suo plebiscitarismo senza plebisciti (basato sulla macchina della propaganda, sull’uso dei sondaggi che anticipavano costantemente il risultato elettorale trionfalistico, ecc.), parve a Prodi che la sua figura di tecnico o intellettuale prestato alla politica, e di leader di una coalizione virtualmente rissosa (come poi si ebbe modo di vedere), avesse bisogno di un di più d’investitura popolare, che gli consentisse di non ripetere la brutta esperienza che gli accordi e i disaccordi tra le segreterie di partito gli avevano riservato nel 1998, ai tempi del suo primo governo. Di pari passo, Prodi spinse moltissimo verso la costituzione di un partito di centrosinistra, il Pd, che avrebbe dovuto essere il suo partito nato dalla fusione della parte maggioritaria della sinistra erede del vecchio Pci con quella frangia centrista o popolare di sinistra, che era un pezzo del mondo cattolico-sociale interno alla vecchia Dc.
Come sappiamo, le cose andarono molto diversamente da come Prodi aveva immaginato: al punto che oggi egli non è più nulla nel partito che pure aveva voluto, e finanche il suo messia, Arturo Parisi, è praticamente scomparso dalla scena.
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Classi medie e proletari nel "movimento dei gilet gialli"
di Agitations
La mobilitazione proletaria e interclassista dei "gilet gialli" suggerisce che esista una rabbia che si cristallizza sotto forme e discorsi differenti a seconda dei blocchi e degli spazi, creando una sorta di atonia critica, se non degli appelli romantici ad essere popolo. Di fronte a questo movimento, non rimane altro da fare che un lavoro noioso: quello di interessarsi ad una settimana di mobilitazioni attraverso quelle che sono le strutture spaziali e demografiche che lo attraversano e che ci danno informazioni a proposito della sua composizione sociale
Sotto i gilet gialli, delle magliette gialle
Pur non essendo di massa, la partecipazione alla mobilitazione di sabato 17 novembre è stata importante (sebbene più debole di quella di sabato 24 novembre). Le modalità originali di partecipazione erano minime: indossare un gilet giallo oppure metterlo sotto il parabrezza. Nel corso di questa mobilitazione, dei proletari, vestiti da "popolo", manifestavano insieme a dei piccoli padroni e a dei piccoli sfruttatori, al punto che, a prima vista, rimane difficile capire su quali basi profonde affondasse le sue radici l'appello al blocco. Dal momento che qui non si tratta né di un semplice essere stufi delle tasse, né di una jacquerie (e questo, detto al di là dell'anacronismo di tale analogia). Fondamentalmente, questo movimento contesta la diseguale distribuzione dell'imposizione fiscale sui dipendenti salariati e sui commercianti, e ne contesta soprattutto la sua forma indiretta (IVA, aumento globale delle tasse...), ritenuto come «il più ingiusto». Tale movimento avviene in un contesto di stagnazione dei salari, delle pensioni e dei sussidi che si trovano al di sotto del livello dell'inflazione, e in un contesto di diminuzione degli aiuti (APL [sussidio abitativo], Assurance chômage [Cassa di Disoccupazione], CSG [Contribuzione Sociale Generalizzata]), allo stesso tempo in cui «il costo della vita» (alloggi, trasporti, generi alimentari) aumenta. I primi ad essere colpiti da queste inuguaglianze sono gli operai e i dipendenti delle aree suburbane e delle zone rurali, ma possiamo domandarci legittimamente se questi ultimi possono mobilitarsi rispetto a dei luoghi da bloccare che talvolta sono lontani, e mentre il costo per arrivarci potrebbe dissuadere alcuni entusiasti.
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E’ successo un sessantotto!
di Sandro Moiso
Guido Viale, il 68, Interno 4 Edizioni 2018, pp. 328, € 22,00
Dal poco che si vede sui banchi delle librerie, tutto sembra esser pronto per celebrare nel 2018 un ’68 farlocco i cui i protagonisti non sembrano più essere gli operai e i giovani, studenti o meno, che lo agitarono ma soltanto gli intellettuali, gli autori, i rappresentanti della Legge e della Kultura, gli uomini e le donne buoni per tutte le stagioni, tutti rappresentanti attuali dell’establishment politico, culturale e mediatico, con le cui noiose e perniciose testimonianze alcune riviste hanno già imbottito le pagine dedicate all’attuale cinquantenario di un movimento che in realtà iniziò ben prima e da ben altri lidi. Così come ha già ben sottolineato Valerio Evangelisti nei giorni scorsi proprio su Carmilla.
Per questo motivo l’attuale quarta edizione del testo di Guido Viale “Il sessantotto tra rivoluzione e restaurazione”, uscito per la prima volta nel 1978 per le edizioni Mazzotta, potrebbe rivelarsi utile e necessaria, considerato anche il fatto che alla stessa sono state aggiunte una nuova introduzione dell’autore, 64 pagine a colori che riproducono volantini, manifesti, opuscoli e libri dell’epoca oltre al fondamentale manifesto della rivolta studentesca “Contro l’università”, scritto da Viale e pubblicato nel febbraio di quello steso anno sulle pagine del n° 33 dei Quaderni Piacentini. Mentre per gli amanti della grafica e della memoria compare anche la ristampa (estraibile) del manifesto diffuso dal Soccorso Rosso, negli anni successivi, a difesa di Pietro Valpreda e di denuncia delle trame terroristiche di Stato, disegnato da Guido Crepax.
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Dialoghi con Georges Corm
Intervista di Lorenzo Carrieri*
Riportiamo qui di seguito un'intervista a Beirut con Georges Corm, economista, storico ed intellettuale libanese, professore presso la Saint Joseph University. Profondo conoscitore della realtà mediorientale e delle sue dinamiche, lo intervistiamo spaziando dalle primavere arabe al balance-of-power in medio-oriente, analizzando quella che è la questione sociale ed economica del mondo arabo, e per una critica delle categorie epistemologiche occidentali sul medio oriente.
D: Tempo fa abbiamo visto l'esplodere delle primavere arabe: di quelle esperienze cosa sopravvive oggi? Ha ancora senso, oggi, parlare di primavere arabe dopo il colpo di stato militare in Egitto (e in questi giorni la vittoria di Al-Sisi alle elezioni, segnate da un fortissimo astensionismo), la vittoria degli islamisti di Ennhada in Tunisia e il sempre crescente potere delle milizie islamiste in Libia?
Uno, nel breve termine, è tentato di essere pessimista guardando a cosa è successo. Ma non dobbiamo dimenticare che le primavere del 2011 sono un evento storico che può ancora produrre molte ondate di riflusso, una serie di tentativi rivoluzionari da parte delle classi sociali arabe: le rivolte del 2011 rappresentano un'impronta, un' inizio, all'interno del mondo arabo. Se guardiamo ad ogni rivoluzione, la russa, la francese, anche la cinese, ognuna di queste ha avuto le sue tappe, lo stesso sta accadendo nel mondo arabo: la rivoluzione non può darsi in 3 giorni, è un processo di lunga durata!
Credo comunque che gli eventi del 2011 siano importantissimi: essi hanno contribuito a ricostituire ciò che io chiamo “la coscienza collettiva araba”, che è qualcosa di totalmente differente e antagonista rispetto al modo in cui i paesi arabi sono stati governati.
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Capitali europei, la festa Usa è finita
di Claudio Conti
Con un articolo in calce di Guido Salerno Aletta
Qualche giorno fa “i falchi” del sistema finanziario europeo – Jens Weidmann, presidente di BundesBank; Oliver Bate, ceo di Allianz; Francois Villeroy de Galhau, governatore di Banque de France; Klaas Knot, pari grado di quella olandese – hanno attaccato pubblicamente Mario Draghi, presidente uscente della Bce, per la sua politica di tassi “eccessivamente accomodanti” e il recente rilancio del quantitative easing (acquisto di titoli di stato sul mercato, per 20 miliardi al mese).
Un fatto inconsueto, che rivela un “malessere” di lunga durata, esploso solo ora che “l’italiano” se ne va e sta per subentrare Chistine Lagarde, notoriamente molto più “sensibile” ai richiami di alcuni di questi poteri.
Più o meno negli stessi giorni, Donald Trump tuonava contro il suo governatore della banca centrale – Jerome Powell, alla testa della Federal Reserve – per aver seguito negli ultimi anni una politica monetaria diversa, se non opposta, rialzando per qualche tempo i tassi di interesse.
Siccome a questi livelli del potere non si discute della migliore teoria economica, ma di vantaggi, sarà meglio dare un’occhiata ai dati sui movimenti di capitali speculativi (quelli alla ricerca dei migliori rendimenti).
La consueta impietosa analisi di Guido Salerno Aletta su Milano Finanza chiarisce efficacemente cos’è accaduto nell’ultimo decennio post-crisi del 2007-2008.
E ci spiega che i capitali europei si sono riversati in quantità crescente verso il mercato Usa proprio perché garantiva tassi di interesse superiori a quelli europei, da tempo fermi a zero.
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Quale prospettiva dopo la dissoluzione della politica?
di Giovanni Mazzetti
Quaderno Nr. 2/2017, Formazione online - Periodico di formazione on line a cura del centro studi e iniziative per la riduzione del tempo individuale di lavoro e per la redistribuzione del lavoro sociale complessivo
Presentazione
Se ad un partito comunista con milioni di iscritti e militanti subentra un suo presunto erede, che nell’arco di due generazioni finisce col racimolarne a fatica trecentomila; se il giornale che ne rappresentava la “bandiera” passa da vendite giornaliere superiori al milione o mezzo di copie a settemila, si può tranquillamente riconoscere che è intervenuto un cataclisma sociale. Se si registra questo fatto senza interrogarsi sul suo significato, si finisce però con l’essere come i sismografi che, pur misurando l’energia sprigionata dai terremoti, non sanno nulla della natura del fenomeno che registrano. Se è evidente che i progetti di quel partito, il suo linguaggio e le sue forme di lotta, hanno smarrito ogni presa sulla dinamica della vita sociale, non è limitandosi a prendere atto di questa evoluzione che ci si spiega perché e come tutto ciò sia accaduto.
La parabola discendente è cominciata nella seconda metà degli anni settanta, quando si è innescata la crisi che stiamo attraversando. Allora si pose il problema di capire la natura di quello che stava succedendo, conservando l’insegnamento metodologico più prezioso di Marx: dopo una fase di straordinario sviluppo, come quello di cui abbiamo goduto nel Welfare keynesiano, le forze produttive acquisite entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti.
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I nove passi per ripudiare il debito pubblico
Guido Viale
La tenuta del progetto di «rinegoziazione radicale» lanciato da Syriza (e dell’Altra Europa) è l’unica chiave per superare la crisi devastante dell’eurozona. Uscire dalla moneta unica come vogliono Salvini e Le Pen, infatti, massacrerebbe soprattutto lavoratori e famiglie
La rinegoziazione radicale dei debiti pubblici dei paesi dell’eurozona in difficoltà, inclusa da tempo nel programma di Syriza e condivisa dall’Altra Europa, presenta risvolti complessi e delicati che vanno affrontati anche in sede tecnica: per prevederne le conseguenze macroeconomiche più dirompenti e cercare di prevenirle; ma soprattutto per proteggere i piccoli risparmiatori.
Nell’affrontare questi problemi occorre mettere però al primo posto la «politica» e non l’«economia», le scelte che possono orientare il conflitto sociale e non l’idea che il sistema possa continuare o addirittura riprendere a funzionare come sempre.
Siamo di fonte o alla vigilia di una grande rottura: «L’Europa è a un bivio», come recita l’incipit dell’appello da cui è nata la lista L’Altra Europa con Tsipras. Per questo, prima di entrare negli ineludibili aspetti tecnici è opportuno fissare alcuni punti di carattere generale.
1. I debiti pubblici di alcuni paesi dell’eurozona, tra cui Grecia e Italia, ma non solo, sono insostenibili. Quale che sia lo spread, gli interessi da pagare sono tali che divorano le risorse senza consentire, non solo una «crescita» duratura, ma nemmeno il livello di attività economica raggiunto in passato.
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Così muore l’economia italiana
di Guglielmo Forges Davanzati
Il declino economico italiano data ben prima dell’adozione della moneta unica, ed è imputabile al combinato della continua caduta della domanda interna e, a questa collegata, della produttività. In uno scenario di desertificazione produttiva, le politiche di austerità e le c.d. riforme strutturali raccomandate dalla commissione europea, recepite in toto dai Governi che si sono succeduti negli ultimi anni, non producono altri esiti se non aggravare il problema
Che il declino economico italiano sia essenzialmente imputabile alla caduta della produttività è cosa nota da tempo, e sorprende che il Ministro Padoan se ne accorga solo ora o che lo renda noto solo ora, al Festival dell’Economia di Trento il 31 maggio scorso. La riduzione della produttività è imputabile a numerosi fattori, fra i quali, non da ultimo, la caduta della domanda aggregata che si è registrata, in Italia, almeno a partire dagli ultimi venti anni, aggravata dalle politiche di austerità, dalla rilevante riduzione della quota dei salari sul Pil e dalla altrettanto rilevante contrazione della produzione industriale.
La Fig.1 evidenzia che il tasso di crescita della produttività, dal 2001 al 2010, è stato, per l’Italia, sistematicamente inferiore a quello registrato in tutti gli altri Paesi europei e negli Stati Uniti. Data l’ampiezza del periodo considerato, il fenomeno può considerarsi strutturale, derivante da una dinamica di lungo periodo che ha generato la progressiva desertificazione industriale dell’economia italiana; dinamica che si è prodotta ben prima della crisi, e che ovviamente la crisi (e le politiche economiche messe in atto) ha contribuito ad amplificare. Confindustria rileva, a riguardo, che dal 2008 al 2013 la produzione industriale in Italia si è ridotta di circa il 25%.
Fig.1: La dinamica della produttività in Italia, in Europa, negli USA (fonte ISTAT, 2011)
Il nesso che lega la dinamica della domanda a quella della produttività passa attraverso questi meccanismi.
1) Se aumenta la domanda, le imprese sono incentivate a produrre di più, dunque ad accrescere le loro dimensioni. L’aumento delle dimensioni d’impresa genera aumenti di produttività, per l’operare di economie di scala, ed è di norma associato a più alti salari. Vi è di più, dal momento che la dinamica della domanda aggregata ha anche effetti sulla produttività tramite variazioni della struttura demografica. Ciò a ragione del fatto che riduzioni di domanda di beni di consumo e di investimento si associano a riduzioni della domanda di lavoro (soprattutto a danno di individui giovani) e, per conseguenza, accentuano i flussi migratori (prevalentemente di giovani con elevati livelli di scolarizzazione), determinando una condizione di progressivo invecchiamento della popolazione. Una popolazione con età media elevata genera, con ogni evidenza, una forza-lavoro meno produttiva rispetto a una condizione nella quale è più bassa l’età media degli occupati [1].
2) La caduta della domanda incide anche sulla specializzazione produttiva. Nel caso italiano, essa si è associata all’intensificazione del processo di specializzazione produttiva dell’economia italiana in settori a bassa intensità tecnologica (oltre ad aver generato ondate di fallimenti d’impresa), tipicamente il made in Italy, l’agricoltura, il turismo. Si tratta di settori nei quali operano imprese con bassa propensione all’innovazione, che non occupano lavoratori con elevata dotazione di capitale umano. I Governi che si sono succeduti negli ultimi anni si sono, per così dire, limitati ad assecondare questo processo (ovvero a dequalificare la forza-lavoro), con una decurtazione di fondi alla ricerca scientifica di entità tale da mettere seriamente a rischio la tenuta del sistema formativo italiano. E poiché è innegabile che la ricerca scientifica è la necessaria pre-condizione per l’attivarsi di flussi di innovazione, non vi è da sorprendersi se – anche per questa via – le politiche economiche hanno significativamente contribuito alla progressiva desertificazione produttiva del Paese alla quale stiamo assistendo.
3) La caduta della domanda è anche all’origine della restrizione del credito. Ciò a ragione del fatto che, riducendosi i mercati di sbocco, si riducono i profitti e, per conseguenza, si riduce la solvibilità delle imprese, rendendo sempre meno conveniente per le banche finanziarle. Date le piccole dimensioni aziendali delle nostre imprese (soprattutto nel Mezzogiorno), risulta per loro sostanzialmente impossibile attingere risorse nei mercati finanziari. Il che comporta una contrazione dei fondi destinabili per investimenti e, a seguire, la riduzione degli investimenti – in quanto accresce l’obsolescenza degli impianti – ha effetti negativi sulla dinamica della produttività.
4) La caduta della domanda aggregata agisce negativamente sulla dinamica della produttività anche a ragione del fatto che, accrescendo il tasso di disoccupazione, e riducendo conseguentemente il potere contrattuale dei lavoratori, incentiva le imprese a competere riducendo i costi di produzione (salari in primis), ovvero disincentiva le innovazioni [2].
Le opzioni di politica economica che derivano da queste considerazioni sono essenzialmente riconducibili a misure di stimolo della domanda, soprattutto per gli effetti che questi producono dal lato dell’offerta. Per contro, la Commissione Europea ha recentemente (ri)proposto una linea di politica fiscale di segno esattamente opposto, ovvero: per accrescere l’occupazione occorre “lo spostamento del carico fiscale dal lavoro alle imposte ricorrenti sui beni immobili, sui consumi e sull'ambiente, in modo da rafforzare il rispetto dell'obbligo tributario e combattere l'evasione fiscale”.
Si tratta, a ben vedere, non solo della reiterazione di proposte che si sono rivelate palesemente inefficaci (se non del tutto controproducenti), assumendo, contro ogni evidenza, che sia sufficiente la detassazione del lavoro per spingere gli imprenditori ad assumere; ma si tratta anche di provvedimenti che accrescono le diseguaglianze distributive, dal momento che l’aumento dell’imposizione indiretta grava con uguale incidenza su percettori di redditi alti e bassi [3]. Ed è anche poco difendibile l’idea che solo rendendo sempre più regressiva la tassazione che si rende possibile un aumento delle entrate fiscali, dal momento che questa misura, accrescendo le diseguaglianze distributive, deprime ulteriormente i salari reali, potendo incidere negativamente sulla produttività del lavoro, sul tasso di crescita e sulla stessa base imponibile.
Ma soprattutto, la detassazione del lavoro pone semmai le imprese nella favorevole condizione di competere tramite riduzione dei costi e, se il problema italiano è il problema della caduta della produttività, questa linea di politica economica non può che accentuarlo [4].
NOTE
[1] A ciò si aggiunge che la riforma pensionistica voluta dal Governo Monti ha significativamente contribuito ad accrescere l’età media dei lavoratori, con effetti di segno negativo sull’occupazione giovanile.
[2] Come osserva Alain Parguez, “a full employment policy automatically pushes for increased investment and therefore for the embodiment of more and more technology-innovations in the stock of equipment. It is tantamount to the proposition that a full employment policy sustains the growth of productivity in the long run” (A.Parguez, Money creation, employment and economic stability: The monetary theory of unemployment and inflation, “Panoecnomicus, 1, 2008, p.50). E’ rilevante, su questo aspetto, sgombrare il campo da un equivoco. L’indicazione prevalente, in materia di politiche del lavoro, suggerisce di commisurare i salari all’andamento della produttività del lavoro, data la duplice tacita assunzione secondo la quale i) la produttività del singolo lavoratore è quantificabile, ovvero è isolabile il suo specifico contributo alla produzione ii) le variazioni della produttività del lavoro sono interamente imputabili all’intensità lavorativa. Il punto qui in discussione è che, anche accettando l’ipotesi che la produttività del singolo lavoratore sia misurabile, il suo salario reale non può dipendere dal suo impegno individuale, giacché dipende, in ultima analisi, dalle decisioni autonome delle imprese in merito alla scala e alla composizione merceologica della produzione (ovvero al cosa e al quanto produrre). E’ del tutto evidente che una riduzione della produzione di beni di consumo riduce i salari reali, indipendentemente dal contributo del singolo lavoratore alla produzione. Cfr. A.Graziani, The monetary theory of production, Cambridge, Cambridge University Press, 2003.
[3] Si tratta anche di un un’impostazione tecnicamente discutibile. E’ infatti difficilmente difendibile l’idea che si possano raggiungere due obiettivi (accrescere l’occupazione e ridurre l’evasione fiscale) con un solo strumento (l’aumento dell’imposizione indiretta).
[4] Per una trattazione approfondita di questi aspetti si rinvia a P.Pini, Regole europee, cuneo fiscale e trappola della produttività, “Quaderni di Rassegna Sindacale”, 2, 2014.
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Le illusioni perdute della generazione trenta-quaranta
di Roberto Ciccarelli
Il manifesto dei Trenta-Quarantenni che si autodefiniscono "generazione perduta" stringe il cuore e impone rispetto. Rispetto per il "dramma" di "dieci milioni di italiani" che, giunti alla mezza età, sono "senza speranze né futuro". Rispetto per l'istinto di auto-compatimento che s'impadronisce di una vita quando si accorge di essere "il risultato di un esperimento dall'esito fallimentare, che ha avuto per laboratorio il Paese intero e noi come cavie". Rispetto per chi, in nome della "questione generazionale", avanza come Prometeo contro "chi pretende di tenerci ancora ai margini delle decisioni che riguardano il nostro presente ed il nostro futuro e quindi quello del Paese".
Scrivono:
E' forte l'impressione di essere in presenza di 24 pugili suonati. I promotori del manifesto rientrano nel lavoro indipendente di ceto medio come giornalisti, docenti universitari precari architetti, e diversi avvocati, insomma in quella zona grigia dove i "giovani" professionisti vivono accanto al "precariato", e spesso lo sono pienamente.
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Il fondamentale contributo di Piero Sraffa al riscatto del pensiero economico classico
di Federico Fioranelli
Piero Sraffa è un economista che ha lasciato un segno profondo nella storia dell’economia politica. Con i suoi lavori, è riuscito infatti a portare a termine due progetti estremamente ambiziosi: mettere in luce i punti deboli dell’approccio neoclassico all’economia e rafforzare le fondamenta della scuola classica di pensiero economico risolvendo l’unica questione lasciata irrisolta da David Ricardo e Karl Marx.
Nato a Torino il 5 agosto 1898 in una famiglia ebraica benestante, si laurea in giurisprudenza nel novembre 1920 con una tesi su “L’inflazione monetaria in Italia durante e dopo la guerra” con Luigi Einaudi come relatore.
All’Università di Torino stringe un rapporto di amicizia con Antonio Gramsci. Quando quest’ultimo fonda “L’Ordine nuovo”, Sraffa collabora con degli articoli e con alcune traduzioni dal tedesco. In seguito, dopo l’arresto di Gramsci nel 1926, Sraffa si impegna a fare arrivare libri e riviste all’amico in carcere, a ricercare le strade per fargli ottenere la libertà (senza con questo cedere al fascismo, ad esempio con una domanda di grazia) e a tenere i collegamenti con i dirigenti comunisti in esilio.
Nel novembre 1923 viene nominato docente di economia politica e di scienza delle finanze presso l’Università di Perugia.
Nel 1925 Sraffa pubblica “Sulle relazioni fra costo e quantità prodotta”, il suo primo contributo importante di critica distruttiva della scuola neoclassica di Jevons, Menger, Walras e Marshall. In particolare, con questo articolo, vuole mettere in evidenza gli aspetti che mancano di coerenza logica all’interno della teoria marshalliana dell’equilibrio parziale dell’impresa.
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Karl Marx, la comune rurale e la questione russa
di Alessandro Visalli
Un interessante saggio di Pier Paolo Poggio, direttore della Fondazione Luigi Micheletti, pubblicato su Sinistrainrete, dal titolo “Marx sulla Russia”, consente di tornare sulla valutazione che il Marx maturo compie sul vasto movimento rivoluzionario russo che di lì a qualche decennio porterà alla rivoluzione del 05 e poi del 17. Ci sono da trenta a quaranta anni tra la lettera alla «Otecestvennye Zapiski», che è del 1877, e gli eventi rivoluzionari; una distanza pari a quella che ci divide da eventi come “via Fani”, o il compromesso storico che questa interrompe.
Nella lettera (che viene pubblicata solo dopo un decennio) e nella successiva lettera a Vera Zasulic, di cui abbiamo parlato nella lettura del libro di Marcello Musto “L’ultimo Marx” che è del 1881, prende posizione per la obšcina e la proprietà collettiva della terra. Ovvero, sposando anche tatticamente (contro Bakunin) la posizione di Cernyševskij, Marx tenta di connettere comunità ed individualità.
Il tema era, ed è, di enorme difficoltà, e viene infatti rimosso completamente dal “marxismo” che comincia a formarsi già negli ultimi anni di vita del filosofo di Treviri e si consoliderà nel marxismo-leninismo dopo l’esperienza di radicale rottura del ‘17.
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Scienza della letteratura e critica della vita
Note su “The Bourgeois” di Franco Moretti
Raffaello Palumbo Mosca
Uscito nel 2013, “The Bourgeois” di Franco Moretti non ha ricevuto in Italia tutta l’attenzione che merita. Si tratta tuttavia di uno dei frutti più maturi delle digital humanities e del metodo del distant reading. La riflessione su questo metodo porta inoltre a interrogativi ancora più generali sullo statuto della critica letteraria
Il libro
Pubblicato nel 2013 presso la casa editrice Verso e subito entusiasticamente recensito da tutte le maggiori riviste americane e inglesi, The Bourgeois. Between History and Literature di Franco Moretti non ha avuto, in Italia, l’attenzione che merita. Ed è stata un’occasione persa. Innanzi tutto perché questo volume è, a oggi, il frutto più maturo e interessante delle digital humanities e in particolare di quel metodo di distant reading i cui vantaggi Moretti illustrava già in Graphs, Maps, Trees: Abstract Models for a Literary History del 2005. Ma The Bourgeois è anche ‒ forse soprattutto ‒ uno studio nel quale la virtuosistica capacità dell’autore di bilanciare e perfettamente intrecciare l’analisi storica e teorica, l’analisi dei dati e quella più propriamente critico-letteraria, tocca il suo apice.
Il risultato, notevolissimo, è uno studio che, per quanto agile, non solo riscrive e analizza in modo originale la storia e il declino della borghesia europea, ma ci consente anche di guardare da una prospettiva nuova e diversa le tecniche letterarie di volta in volta utilizzate nel corso di due secoli. Da una parte, quindi, Moretti rifiuta ‒ come vorrebbe una lettura ormai sclerotizzata di Simmel, Weber, Sombart e altri ‒ di identificare borghesia e capitalismo come due facce della stessa medaglia, o di ridurre il borghese all’etica del lavoro (come lo stesso Weber sembrava inclinato a fare), per restituirci invece una storia più complessa e sfaccettata, in grado di illuminare sia le contraddizioni interne alla borghesia stessa, sia l’ambiguo rapporto che essa intrattiene con lo sviluppo del capitalismo europeo.
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Si vota a giugno?
Imbrigliare M5S e cancellare la volontà popolare
di Emmezeta
Il tema è ormai dibattuto apertamente. Ed in molti fanno gli scongiuri. I più patetici sono gli scribacchini del Corsera. Ieri, con il direttore De Bortoli, ad invocare il «Napolitano bis»; oggi dopo aver incassato il no del Quirinale —«la questione è chiusa», ha detto il portavoce— affidandosi ad astrusi calcoli tesi a dimostrare l'indimostrabile, e cioè l'impossibilità tecnica di votare a giugno.
In realtà il titolo del pezzo di Roberto Zuccolini si commenta da solo: «Votare a giugno? Impossibile (o quasi)». Non entriamo qui nei dettagli tecnici della tempistica istituzionale. Non è necessario, dato che il «quasi» sta esattamente a significare che è possibile eccome, purché ve ne sia la volontà (o la necessità) politica. E' questo il punto da analizzare, non certo i tecnicismi a cui si aggrappano i tanti De Bortoli in circolazione, che proprio non riescono a digerire il terremoto elettorale di febbraio.
Costoro avevano scommesso sul Salvatore della Bocconi, abbiamo visto quanto apprezzato dagli elettori. Il colpo è stato duro, ma non per questo si sono arresi: in fondo il Quisling con cagnolino fu insediato a Palazzo Chigi dal «comunista preferito» da Kissinger, uno che di golpe se ne intende. Dunque, hanno pensato, perché arrendersi ad un voto? Che tutto venga posto nelle (per loro) sicure mani di Napolitano! Già, ma il golpista novembrino è a scadenza.
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Etica e stato di diritto
Franco Buffoni
1. Giosuè Carducci, nella sua storia della letteratura italiana (Dello svolgimento della letteratura nazionale 1868-1871), al termine del capitolo dedicato a Firenze alla fine del Quattrocento, considerando il passaggio dall’Umanesimo al Rinascimento, con riferimento a Savonarola descrive ciò che questi – a parer suo – non aveva compreso: “Che la riforma d’Italia era il rinascimento pagano, e che la riforma puramente religiosa era riservata ad altri popoli più sinceramente cristiani”. Questa frase di Carducci continua a ronzarmi in testa. Alla fine del Quattrocento altri europei erano più sinceramente cristiani degli italiani. Alla fine del Quattrocento altri popoli europei credevano fermamente nella incarnazione e nella resurrezione. E si comportavano di conseguenza. Oggi non ci credono più e si comportano di conseguenza. Più sinceramente cristiani allora. Più sinceramente illuministi oggi. Sono popoli seri. Hanno buone leggi sulla fecondazione assistita, sul testamento biologico, sulle adozioni, sulle coppie di fatto e non disprezzano le unioni omosessuali. E gli italiani, meno sinceramente cristiani allora? Ipocriti quant’altri mai oggi. E cinici. E pavidi. E senza più speranza di Rinascimento.
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Turchia nel mirino di Israele: colpire uno per educarne cento
Alfatau
La storia dello Stato ebraico dimostra che l'impiego della forza militare è stato sempre deciso in piena corrispondenza con gli assunti strategici della Realpolitik israeliana e prestando grande attenzione agli effetti psicologici sugli avversari.
La gravità di quanto accaduto nelle acque internazionali al largo di Gaza, quindi, non consiste tanto nell'evidente violazione delle regole del diritto internazionale umanitario (cosa questa per nulla nuova alla prassi israeliana), quanto nel rappresentare una diretta conferma di un disegno strategico di potenza che osservatori attenti, negli ultimi anni, hanno già analizzato e descritto in dettaglio (1).
Tanto più vera è questa affermazione in relazione alla situazione di Gaza: già dopo l'attacco del dicembre 2008 abbiamo tentato di spiegare su queste colonne (2), che quell'offensiva era stata costruita, sul piano politico, diplomatico e militare, secondo un'impostazione strategica autonoma che aveva cioè ben poco a che fare con la semplice reazione punitiva agli attacchi, del tutto inconsistenti sul piano politico-militare, dei razzi di Hamas - come Israele sosteneva.
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