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Il problema del “noi” e le sacre icone
di Commonware
Dovremmo, bisognerebbe, sarebbe necessario. E poi ancora: se dicessimo, se sostenessimo, se ci alleassimo. Il tutto condito da: i movimenti devono, i movimenti non capiscono, i movimenti sbagliano. Lenin aveva dato al sogno dure fondamenta materialiste, un secolo e passa dopo il sogno è tornato a svolazzare nei molli cieli dell’ideologia. Ancor prima di questo, c’è un problema che salta immediatamente agli occhi: il problema del noi.
Chi è il “noi” che enuncia la posizione corretta, che si lamenta di quella mancante, che suggerisce con piglio normativo ai movimenti ciò che dovrebbero fare? Abbiamo l’impressione che questo “noi” sia spesso quello di gruppi o singoli che parlano in vece di un assente, i movimenti, o assumendo una presunta rappresentanza simbolica di un soggetto (la classe, il precariato, la moltitudine, ecc.).
Partiamo infatti da una pacata constatazione. Al momento – al di là di specifiche situazioni – i movimenti o non ci sono, o faticano terribilmente ad assumere forma complessiva.
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La fine dei partiti-vaselina
di Pino Cabras
Gesù ebbe dei guai quando fu tradito da appena un discepolo su dodici. Prodi e Bersani sono stati traditi da uno su quattro. Nei guai di Prodi e Bersani, un gorgo di guai, c’è tutta la sinistra degli ultimi vent’anni, ormai giunta al capolinea, definitivamente, senza rimedio. Si apre uno squarcio enorme nel sistema, un cataclisma che proietterà i suoi effetti per lungo tempo a venire. La crisi italiana è composta da tanti strati esplosivi: lo strato dell’economia, della politica, della giustizia, e altri ancora. Oggi è esploso definitivamente lo strato della crisi politica. Il Partito Democratico è decapitato nel modo peggiore. Andrea Scanzi, uno dei testimoni più lucidi in questi giorni convulsi, sintetizza così: «Si è dimesso il sicario del Pd. Sbagliando persino i tempi delle dimissioni. Lo ricorderemo come l'uomo che ha sbagliato tutto. Politicamente non ci mancherà. Come non ci mancherà la Bindi. Come non ci mancherebbero le Finocchiaro. Avete fallito. Andate via e non tornate.» Eppure una soluzione istituzionale era lì sotto gli occhi: Rodotà. Non l’hanno voluta, fino a immolarsi. Perché?
Si moltiplicano le analisi sull'inettitudine strutturale del Partito Democratico. Aldo Giannuli ci ricorda che il PD «non ha una cultura politica, ha un gruppo dirigente da operetta, è un aborto politico e, soprattutto, non ha alcuna ragione di esistere che non sia una federazione di emirati contro il Califfo Berlusconi». Un partito diviso come lo era la DC, che tuttavia, ricorda Giannuli, «era un partito vivo (brutto, ma vivo), con una sua cultura politica, un vero gruppo dirigente e, soprattutto, una sua ragion d’essere che non era solo l’occupazione del potere».
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1973-2017, il collasso ideologico della “sinistra” francese (ed europea)
di Bruno Guigue*
Nel 1973, il colpo di stato del generale Pinochet contro il Governo di Unità Popolare in Cile provocò un’ondata di indignazione senza precedenti nei settori progressisti del mondo intero. La sinistra europea ne fece il simbolo del cinismo delle classi dominanti che avevano appoggiato questo “pronunciamiento”. Accusò Washington, complice del futuro dittatore, di aver ucciso la democrazia armando le braccia assassine dei militari golpisti. Nel 2017, al contrario, i tentativi di destabilizzazione del potere legittimo in Venezuela hanno raccolto nel migliore dei casi un silenzio infastidito, un sermone moralizzatore, quando non una diatriba antichavista da parte degli ambienti di sinistra, che si trattasse di responsabili politici, di intellettuali che godono di appoggi o di organi di stampa a grande tiratura.
Dal Ps all’estrema sinistra (ad eccezione del “Pôle de renaissance communiste en France”, che ha le idee chiare), si rimesta, si mette insieme capra e cavoli, si rimprovera al Presidente Maduro il suo “autoritarismo” il tutto mentre si accusa l’opposizione di mostrarsi intransigente. Nel caso migliore, si chiede al potere legale di fare dei compromessi, nel peggiore si esige che si dimetta. Manuel Valls, ex primo ministro “socialista”, denuncia la “dittatura di Maduro”.
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Nostra patria è il mondo intero
di Lanfranco Binni
«Nostra patria è il mondo intero / nostra legge è la libertà / ed un pensiero / ribelle in cor ci sta». Era il 1898 quando Pietro Gori pubblicò l’inno dell’internazionalismo libertario che aveva scritto nel 1895. Il 1898 è anche l’anno della dura repressione dei moti di Milano contro il prezzo del pane, stroncati dalle cannonate del generale Bava Beccaris («il feroce monarchico Bava», canterà un’altra canzone di quegli anni: un centinaio di morti e più di quattrocento feriti), premiato da Umberto I con la Gran Croce dell’Ordine militare di Savoia e un seggio in Senato. Due anni dopo, nel 1900, Gaetano Bresci giustiziò il re per vendicare i morti di Milano. «Internazionalismo», «libertà»: due parole, storicamente nate in Europa, che avranno una storia gloriosa e travagliata nel Novecento, terreno di conflitti, equivoci stalinisti, tradimenti riformisti, imposture liberali, fino ai disastri dell’internazionalismo finanziario del mercato globale e alla “libertà dei servi”, liberi di servire, promossa a colpi di guerra economica dall’affarismo neoliberista.
Lo scenario attuale delle migrazioni (soprattutto da sud a sud, in piccola parte da sud a nord e da est a ovest),provocate da guerre senza confini e dalla devastazione occidentale (climatica, geopolitica) del pianeta, rimette al centro della dinamica storica le tensioni conflittuali tra “chiusura” e “apertura”, in una fase in cui le tradizionali sovranità nazionali sono travolte da determinazioni superiori (di capitalismo globale) e i popoli sono consegnati a oligarchie fiduciarie sempre più ristrette.
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Ukr-ISIS Crisis: caos sistemico e caos sistematico
di Piotr
L'Impero è ogni cosa e il suo contrario, un buco nero che tutto inghiotte, dagli ecologisti ai nazisti, dagli islamofobi agli jihadisti. C'è del metodo
Sulla Stampa on-line è stato pubblicato un articolo sui bombardamenti statunitensi in Siria.
L'articolo è anonimo. Peccato, perché non abbiamo modo di chiedere all'autore se ignora le cose, oppure non le capisce o infine se è semplicemente un oscuro redattore di veline preparate altrove.
Analizziamo solo due passaggi e si capirà il perché della nostra curiosità.
«Dopo tre giorni di offensiva in Siria, più di 350 persone (tra cui civili compresi donne e bambini), sono stati uccisi dalle bombe sganciate dalla coalizione arabo-sunnita guidata dagli Stati Uniti e da quelle - assai più note ai siriani - sganciate dai caccia del regime di Damasco. Nella regione di Idlib, i bombardamenti sono stati condotti quasi all'unisono da caccia della coalizione arabo-occidentale e da velivoli militari russi di Damasco».
Notiamo due punti che nell'economia informativa dell'articolo hanno puramente il ruolo di messaggi subliminali.
a) Le bombe sganciate dai caccia del "regime di Damasco" sarebbero "assai più note ai siriani". Sottotesto: A Damasco c'è un dittatore (regime) sanguinario che non fa altro che sganciare bombe sul proprio popolo.
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Il segreto di Macron e della revanche €uropea? La mosca cocchiera reinventa la ruota
di Quarantotto
1. Questo post cercherà di scavare oltre la mera constatazione di sconquassi sociali, arbitrii plateali dell'oligarchia economica, eversione strisciante (ma anche no) dei principi fondamentali della Costituzione, e, soprattutto, della incessante propaganda antidemocratica profusa dalla grancassa mediatica, impegnata a fare il sicario prezzolato della democrazia del lavoro (come in sostanza ci rivelava Gramsci, invitando a boicottare i media, già negli anni '20).
Vorrei introdurre l'argomento muovendo da una sintesi che ci ha proposto Bazaar, relativamente al "come" l'assetto istituzionale del neo-liberismo, incarnato oggi da L€uropa, avrebbe superato lo stato di crisi, dicono addirittura rafforzandosi, almeno oggi nei giorni dell'esaltazione trionfale dell'elezione di Macron:
"La Terza forza - ovvero il gregge moderato - è la stessa forza che doveva rincorrere la Terza via. Qualla che non è il prodotto di alcun Aufhebung.
Più ordoliberismo per tutti.
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Guerre, paure, umiliazioni, stato di polizia
I primi amari frutti dell'Unità Nazionale post Charlie Hebdo
di Saïd Bouamama
«Alla fine, non ricorderemo le parole dei nostri nemici, ma i silenzi dei nostri amici»
Martin Luther King
La grande manifestazione «Je suis Charlie» è stata celebrata dall’insieme dei nostri media, dal governo e dalla quasi totalità della classe politica come simbolo dell’«unità nazionale», vista come strumento necessario di fronte alla minaccia terroristica. È stata altresì presentata come l’esempio di un’unità internazionale contro quello stesso terrorismo.
Le poche voci discordanti che hanno chiesto di far luce sulle cause, sulle poste in gioco e sulle conseguenze prevedibili di quest’obbligazione all’unanimità emotiva, sono state bollate come «sostegno ai terroristi», secondo un ragionamento binario che martella tutto il giorno: se non «sei Charlie», vuol dire che sei per gli attentati. Il seme di questa «unità nazionale» comincia a dare i suoi frutti amari e avvelenati. È giunto il tempo di un primo bilancio.
Una rafforzata legittimazione alle guerre
Tutte le potenze della NATO, così come i loro alleati, erano rappresentate alla manifestazione «Je Suis Charlie» dell’11 gennaio 2015. Capire il significato e la funzione di questa foto di famiglia vuol dire prendere in considerazione il contesto mondiale e i suoi rapporti di forza.
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Gli effetti di un’uscita dall’euro su crescita, occupazione e salari
Riccardo Realfonzo e Angelantonio Viscione
L’analisi tecnica dimostra che hanno torto sia i catastrofisti sostenitori dell’euro senza se e senza ma sia gli ingenui teorici della moneta unica come origine di tutti i mali. L’euroexit potrebbe essere una strada per tornare a crescere, ma al tempo stesso cela gravi rischi, soprattutto per il mondo del lavoro. A ben vedere, tutto dipende da come si resta nell’euro e da come, eventualmente, se ne esce.
1. Con l’austerity l’euro non regge
È dalla fine del 2007 che l’eurozona ha smesso di crescere e i processi di divergenza tra i Paesi centrali e quelli periferici si fanno sempre più impetuosi[1]. Continuando con le politiche economiche di austerità imposte dai Trattati la crisi dell’eurozona è solo questione di tempo[2]. D’altra parte, la permanenza dei paesi periferici nell’euro, nel quadro delle politiche restrittive, produce effetti sociali ed economici drammatici. Il caso italiano è eloquente: stiamo assistendo a un lento, progressivo, declino; con una economia ampiamente decresciuta, la disoccupazione dilagante, una distribuzione del reddito sempre più diseguale, la ritirata dello stato sociale. Certo, cambiare il segno delle politiche europee sarebbe senz’altro l’opzione migliore. Ma si tratta di una soluzione politicamente sempre meno probabile, dal momento che la Germania e i suoi paesi-satellite continuano a respingere ogni apertura in tal senso. Bisogna quindi domandarsi quali potrebbero essere le conseguenze di una fuoriuscita dall’euro.
Naturalmente, non è semplice prevedere gli scenari successivi a una crisi dell’euro. Anche perché molto dipenderebbe dalla possibilità che l’euroexit coinvolga uno o più Paesi, e grande rilievo avrebbe il “peso” economico-politico di tali paesi. Ancora, le cose cambierebbero molto se le fuoriuscite fossero o meno coordinate e se sfociassero o meno in uno o più accordi di cambio. Ed è inutile dire che su tutto ciò per adesso si brancola nel buio.
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Per una politica delle lotte: Syriza, Podemos e noi
di Sandro Mezzadra e Toni Negri
Il 2014 si è chiuso con la mancata elezione del Presidente della Repubblica in Grecia, e dunque con la convocazione di elezioni politiche anticipate. E’ un passaggio politico di grande importanza, destinato a segnare un anno che, in Europa, si concluderà con le elezioni in Spagna (dove già a maggio si voterà per i municipi e le “autonomie”). E’ del tutto evidente che quelle greche non saranno semplici elezioni “nazionali”: le pesanti ingerenze del governo tedesco e della Commissione europea, destinate a intensificarsi nelle prossime settimane, mostrano chiaramente come in gioco vi sia l’assetto complessivo delle istituzioni europee, ridefinito in questi anni attraverso la gestione della crisi. La reazione della Borsa di Atene al semplice annuncio da parte di Samaras della decisione di anticipare le elezioni presidenziali il 9 dicembre, con un crollo superiore al 12%, aveva del resto già lasciato intendere quale sarebbe stato il ruolo di un altro attore fondamentale, ovvero del capitale finanziario.
In queste condizioni, la partita che si appresta a giocare Syriza è evidentemente complicata, e ci sembrano davvero un po’ ingenue le posizioni che all’interno della sinistra europea, magari ammantandosi di realismo politico, propongono scenari lineari di superamento del neoliberalismo e dell’austerity, attraverso un recupero della sovranità nazionale.
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Lati nascosti imperiali e subimperiali
di Piotr
Proprio quando occorrerebbe aiutare gli USA a deimperializzarsi senza collassi verticali, vanno ovunque al governo i bauscia, i fascisti e altri disastri
Il lato nascosto di Bausciolandia
Il 40% al PD di Matteo Renzi mi ha abbastanza sorpreso ma non sconcertato.
Tuttavia conta anche il sempre più forte calo dell'affluenza alle urne, così che il 40% del 58,6% fa meno del 24%. Ovviamente è un discorso che vale per tutti.
Il 40% a Renzi è il 18 aprile del PD. Ma con una differenza rispetto all'alba della DC. Mentre nel 1948 la Democrazia Cristiana aveva dalla sua il dopoguerra, la ricostruzione e le prime avvisaglie di quello che verrà chiamato il ventennio d'oro del capitalismo, Renzi ha contro la resa dei conti di una drammatica crisi sistemica. Certo, il fiorentino cerca di usare le stesse tecniche propagandistiche ma si capisce da lontano che è un "bauscia". Non è solo una questione di stile personale o di gorgia fiorentina. Chiunque al suo posto, con la sua missione da compiere, non potrebbe essere altro che un bauscia. Diciamo che forse è il bauscia giusto al monumento giusto.
Povero Renzi, se la DC dei tempi d'oro - composta per nulla da bauscia ma da gente molto seria, democristiana ma seria - poteva giustamente mostrare al "popolo sovrano" mezza pagnotta italiana e mezza pagnotta americana, perché era nell'ordine degli eventi che l'altra mezza pagnotta venisse dalla sponda opposta dell'Atlantico, oggi le cose sono capovolte e Obama ha fatto capire chiaramente che lui ha solo mezza pagnotta e il resto glielo devono dare i suoi alleati, ad esempio tramite il "Transatlantic Trade and Investment Partnership", il famigerato TTIP.
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Odio il lunedì
Un racconto del dopo elezioni
Clash City Workers
Chi normalmente visita il nostro sito sa che difficilmente pubblichiamo commenti a caldo. Di solito preferiamo aspettare e analizzare le cose in modo scientifico. Se non si fa così si rischia di andare “a sensazione”, di rappresentarsi in testa tutto un mondo a misura del pezzo di realtà che si conosce… Questa volta però facciamo un’eccezione e abbiamo voglia di buttare giù anche noi qualcosa rispetto all’esito delle elezioni. Perché non ci convincono molte cose che abbiamo letto. Perché sentiamo che forse il pezzo di realtà che conosciamo da vicino ci può permettere di capire cosa è successo domenica…
A questo proposito, iniziamo con l’ammettere una cosa. A differenza di chi afferma che aveva già previsto tutto, noi non abbiamo problemi a dire che non avevamo alcuna certezza su quale sarebbe stato l’esito delle votazioni. Anzi: per noi il risultato è stato francamente sorprendente. Ma non per questo ci sentiamo stupidi: anche la stessa borghesia, che qualche strumento in più ce l’ha, sembrava abbastanza incerta. E se oggi è tanto tronfia è anche perché un exploit del genere non se l’aspettava.
Per noi svegliarci e trovarci difronte al trionfo del PD è stato veramente duro e ha reso questo lunedì di gran lunga peggiore degli altri. C’è da rimanere sconcertati nel vedere più del 40% dei votanti dare la preferenza al partito che ha storicamente iniziato, e in questi mesi sta conducendo, uno degli attacchi più violenti al mondo del lavoro che il proletariato italiano possa ricordare.
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Esercizi di retorica sul DEF
di Maurizio Sgroi
La retromarcia dell’avanzo primario
Mi sorprendo sempre nel notare il grande consumo di intelligenza e talento che circonda le cose economiche. Cervelli oltremodo eccellenti si cimentano in esercizi astrusi, compilano tabelle e disegnano grafici, al solo fine di convincere qualcuno di qualcosa, in un modernissimo esercizio di retorica.
E poiché questo qualcosa ha a che fare con il denaro, in un modo o nell’altro, ecco che ricevono un’attenzione ormai quasi più a nessuno riservata. Sicché finisce che gli economisti, o i semplici compilatori di tabelle e grafici, diventino delle piccole star.
La seduzione dell’economia è il modo contemporaneo col quale celebriamo l’antica e immutabile seduzione del denaro, a ben vedere.
Ed è comprensibile che tutto ciò, specie in tempi di crisi, germini una pletora di popolazioni economaniache.
Oggidì gli studiosi/esperti/appassionati/doscenti/discenti di cose economiche nel nostro paese è probabile abbiano superato per numero quelli che una volta compilavano formazioni e strategie della nazionale di calcio.
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I nodi vengono al pettine
I “Forconi” a Torino
di Salvatore Cominu
In questa settimana, le manifestazioni e i blocchi attuati dal cd. “movimento dei forconi” sta interessando un po’ tutta l’Italia. Partendo dall’esperienza di Torino, Salvatore Cominu analizza il fenomeno in atto, anche alla luce di alcune preoccupazioni relative alle possibili infiltrazioni di estrema destra. Si tratta di impressioni a caldo: la situazione è in continua evoluzione e per analisi più compiute servirà più tempo. Ma cominciamo a ragionarci.
* * * * *
Quanto sta accadendo in questi giorni (soprattutto a Torino e nel Ponente Ligure, altrove per caratteristiche e intensità la mobilitazione dei “forconi” si presta ad altre valutazioni) è troppo importante e complesso per essere liquidato con poche battute impressionistiche. Peraltro molte/i compagne/i hanno seguito in modo continuo la situazione ed è soprattutto alle loro analisi che mi sento di fare riferimento, oltre che ad alcune impressioni dirette che mi sono fatto seguendo per un po’ di tempo uno dei blocchi stradali in città e parlando con conoscenti vari.
Molti dei nodi di cui abbiamo discusso in questi anni stiano venendo al pettine.
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La Grande Convergenza e il revival del colonialismo occidentale
di Stefano G. Azzarà (Università di Urbino)
1. Dal “guevarismo” alla riabilitazione del colonialismo
In un libro del 1931, Der Mensch und die Technik, un Oswald Spengler impegnato a combattere la Repubblica di Weimar ma soprattutto a impedire che la sua crisi avesse un esito rivoluzionario, e dunque intenzionato a delegittimare i comunisti che intendevano riproporre l’esperienza bolscevica in Germania, notava che «anche i popoli “sfruttati” all'interno dei paesi europei e degli Stati Uniti», in spregio alla retorica internazionalista dei partiti marxisti (compresa la SPD), hanno in realtà a loro volta «beneficiato dello sfruttamento internazionale». Anche le classi subalterne, anche gli operai che lamentano rumorosamente la sottomissione del regime di fabbrica e l’estrazione di plusvalore, a guardar bene, hanno goduto e godono di un «lussuoso tenore di vita», se confrontato con quello dei popoli extraeuropei. E questo in virtù dell’«alto salario dell'operaio bianco», un salario di lusso che «si basa esclusivamente sul monopolio fondato dai capitani d'industria» e dunque sulla compartecipazione ai sovraprofitti coloniali1 .
Si trattava certamente di un espediente retorico, volto a contrapporre alla versione marxista del socialismo quella versione “nazionale”, già esposta in Preupentum und Sozialismus (1919)2, che postulava un interesse comune e una comune responsabilità tra l’operaio e l’imprenditore, entrambi al servizio della comunità. Nelle sue parole c’era tuttavia qualcosa di vero, dato che a suo tempo anche Lenin aveva inquadrato questo fenomeno e aveva dovuto mettere in guardia dal socialsciovinismo della socialdemocrazia, la quale con Bernstein e altri suoi esponenti aveva pensato già diversi anni prima di risolvere la questione sociale tramite l’espansione coloniale3.
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La libertà di non essere sfruttati
di David Harvey
La destra si erge a difesa delle libertà individuali. Ma essere liberi veramente significa sottrarre le nostre vite ai vincoli rigidi del capitalismo. Un'anticipazione dal nuovo libro di David Harvey
Il tema della libertà è stato sollevato mentre tenevo alcune lezioni in Perù. Gli studenti erano molto interessati alla domanda: «Il socialismo comporta che la libertà individuale debba essere sacrificata?». La destra è riuscita ad appropriarsi del concetto di libertà come proprio e a usarlo come arma nella lotta di classe contro i socialisti. Bisogna evitare la sottomissione dell’individuo al controllo statale imposto dal socialismo o dal comunismo a tutti i costi, sostengono.
Ho risposto che nell’ambito di un progetto socialista di emancipazione non bisogna rinunciare al concetto di libertà individuale. Il raggiungimento delle libertà individuali è, ho sostenuto, uno scopo centrale di tali progetti di emancipazione. Ma questo risultato richiede la costruzione collettiva di una società in cui ognuno di noi abbia adeguate possibilità di vita e possibilità per realizzare ciascuna delle proprie potenzialità.
Marx e la libertà
Marx diceva cose interessanti su questo argomento. Una di queste è che «il regno della libertà inizia quando il regno della necessità viene lasciato indietro». La libertà non significa nulla se non hai abbastanza da mangiare, se ti viene negato l’accesso a un’adeguata assistenza sanitaria, alloggio, trasporti, istruzione e simili. Il socialismo deve soddisfare le necessità di base in modo che le persone siano libere di fare ciò che vogliono.
Il punto finale di una transizione socialista è un mondo in cui le capacità e i poteri individuali sono completamente liberati da desideri, bisogni e altri vincoli politici e sociali.
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Governo umanitario, neoliberalismo e populismo
di Valerio Romitelli
Una recensione di Valerio Romitelli al libro di Didier Fassin, Ragione umanitaria. Una storia morale del presente, da poco pubblicato in Italia per DeriveApprodi, nella traduzione di Lorenzo Alunni. Il testo ha suscitato dibattito sulla lista di Effimera. A breve pubblicheremo un confronto tra Salvatore Palidda e Valerio Romitelli proprio a partire dai lavori di Fassin e dai temi da lui trattati
È uscita la traduzione in italiano del libro di Didier Fassin, La raison humanitaire. Une histoire morale du temps présent, pubblicato in Francia nel 2010 (Ragione umanitaria. Una storia morale del presente, traduzione di Lorenzo Alunni, DeriveApprodi, Roma, 2018). L’autore che può essere considerato uno dei più importanti antropologi contemporanei, docente e direttore di ricerca in prestigiose università francesi e statunitensi, è già noto al pubblico italiano per la traduzione di sue non poche opere (Fassin, 2013, 2014, 2016). In questa ultima tradotta egli presenta nove rapporti di inchieste svolte tra il 1996 e il 2003, cinque in Francia e quattro tra Sudafrica,Venezuela, Palestina e Iraq. Tema ricorrente: “La messa in pratica della ragione umanitaria all’interno delle politiche rivolte alla vita precaria” altrimenti dette anche “politiche della sofferenza”, (p 24). Rapporti di grande interesse, dedicati a svariati ed eterogenei casi di studio. Ad esempio, le iniziative condotte da psichiatri e psicologi nelle periferie di alcune città francesi al fine di attivarvi luoghi d’ascolto per giovani disagiati o l’epidemia di Aids che all’inizio del 2000 ha toccato particolarmente i bambini sudafricani o ancora l’esperienza di Ong intervenute nei territori occupati da Israele al momento della seconda Intifada. Le dotte, puntuali e affascinanti analisi di Fassin non temono di cimentarsi coi problemi più scabrosi di simili tragiche situazioni. Il suo approccio che si vuole “analitico” (p. 15) e “critico”, senza astenersi dal discutere in dettaglio del senso da attribuire a questo termine (pp. 313-19), lo porta non di rado a conclusioni a dir poco scomode. Si può così comprendere ad esempio come gli interventi psichiatrici e psicologici tra i giovani delle periferie francesi abbiano finito per tacitare ogni ineguaglianza sociale non traducibile nel linguaggio della salute mentale (p. 25), mentre a proposito dell’epidemia di Aids in Sudafrica appaiono tutti gli equivoci e i fraintendimenti derivati dalla “mobilitazione emotiva” alimentata attorno a stereotipate figure di bambini sofferenti.
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Nel rovescio della libertà: il neofeudalesimo neoliberale
di Daniele Lo Vetere
Una recensione all’ultimo, magmatico, ma coerentissimo, libro di Massimo De Carolis, “Il rovescio della libertà. Tramonto del neoliberalismo e disagio della civiltà”, Quodlibet, 2017
Dopo l’attentato suicida di Manchester, Theresa May ha chiesto a Google, Facebook, Twitter di fare di più per contrastare il terrorismo. Siamo di fronte a qualcosa che fino a non troppo tempo fa sarebbe stato persino inconcepibile: un rappresentante del potere politico legittimo che chiede a un’azienda privata di farsi carico di una propria prerogativa, ovvero rispondere al sentimento politico fondamentale del bisogno di sicurezza, altresì detto paura. Una dichiarazione del genere, in fondo, ormai non ci stupisce (o terrorizza) quanto in effetti dovrebbe. L’ambizioso libro di Massimo De Carolis, Il rovescio della libertà, spiega molto bene perché.
De Carolis va alla radice di quel vero e proprio «congegno di civilizzazione» che è il neoliberalismo: non una semplice copertura ideologica e sovrastrutturale per un capitalismo rapace, ma l’unico esperimento che, ad oggi, avrebbe cercato di dare una risposta operativa all’ormai secolare disagio della civiltà moderna, di cui il principio di sovranità era uno dei perni. Questo congegno, però, sarebbe già fallito in modi abbastanza disastrosi: ecco perché ci troviamo immersi in una società in cui la schmittiana “guerra partigiana” si è ormai sostituita alla guerra fra nazioni e in cui il potere politico è stato strutturalmente marginalizzato, ma solo per avvantaggiare nuovi poteri feudali monopolistici non legittimati democraticamente.
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Commenti sui risultati dei ballottaggi
Si è rotta la diga
di Redazione Contropiano
La vera partita comincia ora. La batosta subita da Renzi e dal centrodestra rivela che gli equilibri sociali consolidati si sono ormai rotti, a partire fondamentalmente dalle realtà metropolitane. Governare questo paese secondo le linee guida dell’Unione Europea e della Troika diventa dunque di fatto molto più difficile, mentre l’alternativa possibile e concreta resta avvolta – purtroppo – nella nebbia delle buone intenzioni inconsapevoli delle caratteristiche fondamentali del “sistema”.
Ma ora si può cominciare a giocare una partita che prima era semplicemente bloccata e già vinta dal potere più fetido.
Non vi può essere alcun dubbio che la sconfitta subita da Renzi – per certi versi clamorosa quanto a dimensioni e realtà sociali – sia anche la sconfitta delle politiche di austerità, malamente mascherate da provvedimenti “populisti”, come gli 80 euro, ma saldamente incentrate su un diluvio di misure che più antipopolari non si può:
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Ballottaggi: una prima analisi dei risultati
di Aldo Giannuli
Al momento in cui scriviamo i risultati si può solo abbozzare un giudizio, non essendo ancora disponibili i dati in cifra assoluta. A quanto pare è andata così, in primo luogo l’astensione è cresciuta –come sempre accade nei ballottaggi- e al di là del solito, per cui ha votato solo la metà degli elettori, ma non nelle due città dove era più incerta la sfida, Milano e Torino, e dove la flessione fra primo e secondo turno è stata più contenuta.
Il che è un dato che fa riflettere: se questa è la tendenza nazionale, questo significa la fine della rappresentatività del parlamento, perché una forza che, magari, ha avuto il 20% dei voti al primo turno si aggiudica il 54% dei seggi grazie ad un 1% percento in più in un secondo turno dove, per ipotesi, ha votato il 48% degli elettori e, magari, batte un altro partito che aveva avuto il 38% al primo turno. Vi riesce di immaginare una cosa più disrappresentativa?
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Ballottaggi amari
di Augusto Illuminati
Che bilancio possiamo trarre dai ballottaggi? Non facciamo parte dei vincitori (tranne che a Napoli), però a nostro modo abbiamo vinto anche noi. Se vincere vuol dire cominciare a sgomberare la strada da ostacoli, abbiamo vinto
Il Faraone è sgomento per le piaghe, ma noi stiamo ancora in Egitto. Se vincere vuol dire costruire basi positive sufficienti per avviare un’alternativa, allora non ci siamo, se non inizialmente a Napoli.
Abbiamo goduto come ricci per la sconfitta tattica e strategica di Renzi e per lo scacco dell’arroganza sabaudo-fordista di Fassino e della liquidità postfordista del “doganiere” Giachetti. Non parliamo neppure delle campagne tutte fallite di Repubblica, la cui irrilevanza dovrebbe spingere alle dimissioni il suo direttore, secondo solo al menagramo Stefano Esposito nella navetta Torino-Roma.
Ma la nostra (sempre eccetto Napoli) non è la schietta gioia che spinozianamente si collega a un incremento di potenza di cui noi stessi siamo causa.
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Renzi azzoppato ma... nessun dorma!
Moreno Pasquinelli
Non avevamo dubbi che i ballottaggi avrebbero confermato ed anzi appesantito la batosta subita da Renzi e dal Pd al primo turno. E non avevamo dubbi che il Movimento 5 Stelle, dove aveva un adeguato radicamento, sarebbe uscito vincente.
Non ci volevano doti profetiche per capirlo, bastava sintonizzarsi col rumore sociale di fondo, sentire ciò che ribolle nella pentola sociale. Di passata ricordiamo che noi abbiamo dato indicazione di voto per i candidati Cinque Stelle ed a Napoli per De Magistris — "Colpire il Pd per cacciare il governo Renzi".
Escono con le ossa rotte tutti quei cretini che avevano pronosticato una lunga vita al governo Renzi, quelli che cianciavano di una stabilizzazione politica della crisi italiana,
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Lo stupore e la rabbia dei commentatori per lo schiaffo al ducetto
di Carlo Formenti
Stupore, frustrazione, rabbia, denegazione, depistaggio, seduzione: questi gli atteggiamenti che ho visto/ascoltato affiorare sui volti e nelle parole di politici, giornalisti ed <<esperti>> mentre seguivo (rimbalzando fra Rai1, Rai3 e La7) le reazioni a caldo a exit poll e proiezioni la notte di domenica scorsa.
Stupore: non se lo aspettavano, malgrado gli innumerevoli segnali di irritazione (a partire dai tassi di astensionismo sempre più elevati) che da tempo salivano dal basso, le élite di questo Paese erano convinte di poter seguitare a manipolare a tempo indeterminato un’opinione pubblica che, evidentemente, stimano incapace di intendere e di volere.
Frustrazione e rabbia: lo spettacolo più spassoso, in tal senso, lo ha offerto l’ineffabile Piepoli che, dando un limpido saggio della sua <<obiettività scientifica>> in veste di analista-sondaggista, commentava in diretta, con espressioni di stizza degne di un Gollum derubato del suo tesoro, la débâcle dei propri datori di lavoro.
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Via Matteo Renzi chiusa per frana
di ilsimplicissimus
Qualche giorno fa avevo spezzato una lancia a favore della Raggi e dio sa con quanta difficoltà. Ma ieri notte ho avuto la riprova e la consolazione di non essermi sbagliato, vedendo come in un incubo il modo e i riflessi pavloviani in cui la vecchia, asfittica compagnia di giro di tromboni giornalisti e commentatori, praticamente a reti unificate visto che il dissenso è ormai inesistente, ha cercato di dare un’interpretazione del voto che farebbe invidia al brigante Musolino travestito da Heidi. Non voglio nemmeno occuparmi delle cose miserabili, come la traduzione di titolo di un quotidiano inglese: “Per la prima volta una donna alla guida della città” come Per la prima volta un populista alla guida della città (rai24). O il fatto che l’ex assessore Esposito, importato da Marino a Roma e poi tornato nelle braccia di Fassino, nero come la notte, abbia sostenuto che chissà cosa faranno i cinque stelle nella capitale, ” certo manca un urbanista”, mentre l’unica squadra in tutti i luoghi in cui si è votato che comprende un urbanista è proprio quella della Raggi con Paolo Berdini.
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#VirginiaRaggi & Co. - Ballottaggi e spartiacque
di Piotr
Effetto #CinqueStelle. Gli inamovibili, destinati a perdurare, grandi o piccoli, oggi stanno scomparendo a un ritmo maggiore del rinoceronte bianco
1. La mia educazione politica è avvenuta nella sinistra extraparlamentare degli anni Sessanta-Settanta. La mia formazione filosofica è all'insegna di Marx.
Può quindi non stupire che i miei amici e conoscenti abbiano guardato con sconcerto il progressivo allontanamento delle mie simpatie dai partiti e movimenti che si autodichiaravano di sinistra e utilizzavano la simbologia e la terminologia che più sentivo mie per ammantare ragionamenti che ritenevo sempre più inaccettabili. Non perché li ritenessi "vecchi", ma proprio perché erano - e sono - sbagliati.
Come disse ironicamente una volta Gioachino Rossini commentando la composizione di un giovane musicista, quando c'è del nuovo e del bello, il bello può essere vecchio e il nuovo può essere brutto.
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La rottamazione del rottamatore
di Fabrizio Casari
E’ un voto netto, senz’appello, che indica due letture distinte ma non distanti. Quella di un voto contro Matteo Renzi e il PD, e l’affermazione decisa del M5S, che del governo Renzi è avversario acerrimo. Movimento 5 Stelle che da ieri smette di essere un’ipotesi, un’incertezza, una scommessa politica. E’ ora, a tutti gli effetti, una forza di governo, sebbene la sua affermazione risulti ancora a macchia di leopardo, con consensi importantissimi in alcune zone del paese e maggiori difficoltà in altre. Vedremo da oggi quale sarà la capacità di proporsi come alternativa di medio-lungo termine per un movimento che, difficile da inquadrare ideologicamente, rappresenta certamente una forza di rottura del sistema politico italiano.
Ma sarebbe un errore leggere solo come voto di protesta il consenso ai M5S: il voto di protesta si registra semmai nell’astensione, mentre il voto ai pentastellati appare piuttosto come consapevole, ragionato, che identifica nella novità politica una rappresentanza possibile.
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Una provocazione repressiva in grande stile, contro il proletariato della logistica, il SI Cobas, il sindacalismo conflittuale
di Tendenza internazionalista rivoluzionaria
Dopo due anni di pandemia e dentro una guerra che non finirà a breve e avrà effetti di devastazione sociale enormi anche fuori dall’Ucraina, il padronato e le forze parlamentari di governo e “opposizione” sanno che il malessere sociale ha raggiunto un livello tale di tensione che può esplodere da un momento all’altro. Di qui l’intensificazione della repressione in chiave preventiva: mettere sulla difensiva, terrorizzare, disorganizzare, delegittimare, dividere e normalizzare quella che è stata finora la frazione della classe lavoratrice più attiva e combattiva
All’alba di questa mattina è partita una pesante ed insidiosa operazione repressiva contro dirigenti del SI Cobas (il coordinatore nazionale Aldo Milani, Mohamed Arafat, Carlo Pallavicini, Bruno Scagnelli) e dell’USB, a sei dei quali sono stati comminati gli arresti domiciliari.
La provocatoria imputazione è quella di associazione a delinquere per avere compiuto atti di violenza privata, resistenza a pubblico ufficiale, sabotaggio, interruzione di pubblico servizio in occasione di scioperi e picchetti per “estorcere” da padroni e padroncini condizioni di “miglior favore” non per i lavoratori, ma per sé stessi – in una sorta di “faida”, anch’essa a fini privati, tra sindacati “di base”.
Insomma: la realtà dei fatti negata, mistificata, rovesciata. Perché negli ultimi 10-15 anni, a cominciare dalla Bennet di Origgio, i proletari della logistica, immigrati in grande maggioranza, sono stati protagonisti del solo, significativo ciclo di lotta avvenuto in Italia negli ultimi decenni – il solo fatto di lotte vere, di scioperi veri, di picchetti veri, di veri coordinamenti tra le diverse realtà, con piattaforme di lotta vere. Lotte realmente auto-organizzate dai lavoratori in prima persona che hanno dato vita a un’esperienza di nuovo sindacalismo militante impersonato soprattutto dal SI Cobas. Le sole lotte che – in un quadro di generale arretramento della classe lavoratrice – hanno segnato significativi avanzamenti nella condizione materiale (salari, orari, garanzie, etc.) e nei livelli di organizzazione e di coscienza di classe di decine di migliaia di proletari, sia facchini che driver.
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Investimenti, profitti e ripresa: il problema italiano
Un’analisi di lungo periodo
di Leonello Tronti
La lunga fase di declino economico dell’Italia si può sintetizzare nella “legge del meno uno”: dal 1995 in poi, l’economia cresce ogni anno (in media) un punto in meno dell’insieme dell’Eurozona. In questo deludente risultato quale ruolo svolgono gli investimenti? Per rispondere a questa domanda l’articolo sottopone a un’analisi di lungo periodo (1995-2019) l’indebolimento della funzione di investimento dell’economia italiana. L’analisi empirica è anzitutto comparativa con altri paesi europei, in termini sia di crescita del volume degli investimenti, sia dell’incidenza sul Pil, sia degli effetti sulla crescita. In tutti i casi si conferma il continuo peggioramento relativo della situazione italiana. Un altro aspetto di rilievo è quello della comune tendenza prociclica alla riduzione in rapporto al valore aggiunto degli investimenti pubblici e privati, con un più forte ridimensionamento di quelli pubblici. Nel caso del settore pubblico la riduzione è legata alle politiche di austerità che, in un paese caratterizzato da una spesa corrente elevata, hanno investito in misura crescente la spesa in conto capitale. In quello del settore privato si riscontra invece la compresenza di ragioni opposte: da un lato l’indebolimento della maggioranza delle imprese ad opera delle sfide tecnologiche, di apertura dei mercati globali e della moneta unica; ma dall’altro la creazione di un ambiente interno particolarmente se non eccessivamente favorevole, non solo in termini di costo del denaro e del lavoro (diretto e indiretto), ma anche di politiche contributive e fiscali attuate da governi di varia coloritura politica. In questa situazione, nonostante le fortissime perturbazioni che attraversano il periodo, il saggio di profitto in rapporto al valore aggiunto si è fortunatamente dimostrato notevolmente stabile e resiliente.
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Lo Stato può emettere titoli fiscali senza downgrading per finanziare l'economia
di Enrico Grazzini
L'autunno si profila molto caldo per l'Italia. Il nuovo governo vorrebbe realizzare manovre espansive per contrastare l'austerità ma i mercati finanziari puniscono l'aumento del deficit pubblico. Di fronte ai rischi incombenti di crisi della finanza pubblica, cercherò di dimostrare che l'emissione di Titoli di Sconto Fiscale da parte del governo non solo NON creerebbe un aumento del deficit ma rilancerebbe l'economia nazionale e rafforzerebbe anche il sistema bancario e assicurativo attualmente penalizzato dai rendimenti crescenti dei Titoli di Stato. Inoltre mi propongo di spiegare perché i Titoli di Sconto Fiscale verranno prevedibilmente promossi come investment grade dalle Agenzie di Rating, e quindi saranno accettati dalla Banca Centrale Europea e dai mercati finanziari e, da ultimo ma non per ultimo, potrebbero complessivamente rafforzare il sistema dell'euro[1].
Il governo, il Parlamento e le forze politiche e sociali, i sindacati e la Confindustria, dovrebbero discutere e approfondire questa proposta innovativa, controcorrente ma concreta, e promuovere rapidamente l'introduzione di questa nuova tipologia di titoli di stato. I Titoli di Sconto Fiscale non rappresentano certamente la panacea per tutti i mali ma possono costituire la soluzione più efficace e meno rischiosa per ridare liquidità e ossigeno all'economia reale.
In Italia non mancano le industrie e le capacità di produrre – come testimonia il saldo commerciale positivo verso l'estero -: mancano invece le risorse monetarie per fare ripartire l'economia. Manca il combustibile liquido per fare ripartire gli investimenti pubblici e privati, e i consumi. Il problema contingente è innanzitutto di natura monetaria e creditizia. Per questo motivo lo stato deve assumersi la responsabilità di introdurre strumenti di politica monetaria, pur restando pienamente nel campo dell'euro. Si tratta di mettere benzina in un motore che marcia troppo lentamente per mancanza di carburante.
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Il buon uso dell'indignazione
di Augusto Illuminati
Con questo primo articolo apriamo uno spazio di dibattito sul tema populismo, verso il seminario di Euronomade, che si terrà dal 16 al 18 giugno a Roma, a ESC. Ospiteremo volentieri i contributi che ci perverranno
Ognuno si porta dietro gli anni e i pregiudizi che ha, siate clementi.
Per esempio, qual è la contraddizione principale oggi in ballo sul materialissimo piano ideologico? Il populismo dilagante o il neoliberalismo ancora saldo in sella? Interessante, non tanto per aderire all’uno o all’altro, ma per decidere se associarci o meno alle campagne in corso. Campagne orchestrate e finanziate in pari misura da forze geopolitiche e finanziarie ben note e da cui ci sentiamo egualmente distanti.
Populismo: «epíteto peyorativo como crítica política conservadora sin validez epistémica», scriveva Enrique Dussel nella seconda delle Cinque tesi sul populismo del 2007. Pensava naturalmente al neopopulismo latino-americano e ai regimi progressisti che si erano affermati al volgere del millennio in Venezuela, Argentina, Bolivia, Ecuador e Brasile, non alle “comunità del rancore” dei sovranisti di sinistra e alle formazioni xenofobe e neofasciste. Per dirla con Rancière, «la nozione di populismo serve ad amalgamare tutte le forme di politica che si oppongono al potere delle competenze autoproclamate e per ricondurle a un’unica immagine: il popolo arretrato e ignorante se non astioso e brutale. Il potere del popolo è assimilato allo scatenamento di un branco razzista e xenofobo», quando oggi il razzismo è gestito dallo Stato, come dimostra la legislazione sulle migrazioni e sulle classi pericolose – pensiamo ai malfamati decreti Minniti subito tradotti in leggi e retate.
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La questione nazionale e il compito del proletariato italiano
Michele G. Basso
In una recente intervista alla Gabbia, Toni Negri ha definito le nazioni “cose barbare, cose tribali”. Potremmo notare, ispirandoci a un famosa battuta di Marx al tempo della Prima Internazionale, che Negri non sta parlando in esperanto, ma in una delle lingue delle barbare nazioni, l’italiano, e che, inoltre, tramite altre barbare lingue nazionali (inglese, francese, tedesco…) è riuscito a raggiungere una cultura di tutto rispetto. Dice che gli Stati Uniti si credevano imperiali e hanno perso il controllo della globalizzazione. Si tratta di posizioni abbastanza diverse da quelle sostenute in “Impero”, il libro scritto con Michael Hardt. Là affermavano: “La storia delle guerre imperialiste, interimperialiste e antimperialiste è finita. La storia si è conclusa con il trionfo della pace. In realtà, siamo entrati nell’era dei conflitti interni e minori. Ogni guerra imperiale è una guerra civile: un’operazione di polizia – da Los Angeles a Granada (forse s’intendeva Grenada), da Mogadiscio a “Sarajevo”…(1)
Il libro fu ultimato poco prima della guerra in Kossovo, ma la concezione dell’Impero fu subito smentita dalla storia, perché le guerre in Jugoslavia, in Afghanistan e in Iraq non erano certo operazioni di polizia. Chi ha visto le foto di bambini deformi di Falluja, a causa dell’uranio impoverito, inevitabilmente pensa ad Hiroshima. Più in là, Hardt e Negri scrivevano: “Nello spazio liscio dell’Impero non c’è un luogo del potere – il potere è, a un tempo, ovunque e in nessun luogo. L’Impero è un’utopia, un non-luogo”.
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Hosea Jaffe e il colonialismo
Enrico Galavotti
1. Giustamente Hosea Jaffe sostiene, in Davanti al colonialismo: Engels, Marx e il marxismo (ed. Jaca Book, Milano 2007), che l'idea engelsiana di favorire il colonialismo europeo per accelerare il processo d'industrializzazione nelle periferie coloniali, al fine di porre le basi per una transizione al socialismo, era un'idea non "socialista" ma "imperialista", frutto di un'interpretazione meccanicistica o deterministica del materialismo storico-dialettico.
E ha altresì ragione quando afferma che la contraddizione principale, nell'ambito del capitalismo, è diventata, a partire dalla nascita del colonialismo, non tanto quella tra capitalista e operaio delle aziende metropolitane, quanto quella tra Nord e Sud, dove con la parola "Nord" non si deve intendere solo l'imprenditore ma anche lo stesso operaio che nell'impresa capitalista si trova a sfruttare, seppure in maniera indiretta, le risorse del Terzo mondo.
Detto questo però Jaffe non è in grado di porre le basi culturali per comprendere la nascita del capitalismo (che non può essere considerato una mera conseguenza del colonialismo, in quanto quest'ultimo s'impose già nel Medioevo con le crociate ed esisteva già al tempo della Roma e della Grecia classica e non per questo è possibile parlare di capitalismo, che storicamente nasce solo nel XVI sec.). Jaffe non è neppure in grado di porre le basi politiche di un accordo tra il proletariato del Nord e quello del Sud.
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Abbandonate ogni speranza (l’estate sta arrivando)
di Mark Fisher
Pubblichiamo una densa ma intrigante analisi di Mark Fisher, giornalista freelance, ospite spesso sulle colonne del Guardian e autore del libro “Capitalist Realism and Ghosts Of My Life” (Zero Books, 2014), sull’esito delle recenti elezioni inglesi, che hanno visto il trionfo del Partito Conservatore. Originalmente pubblicato qui
Quindi, dopotutto, doveva essere una riedizione del 1992. Sembra che anche le elezioni siano soggette alla retromania, adesso. Eccetto che questa volta è il 1992 senza Jungle. E’ Ed Sheeran and Rudimental piuttosto che Rufige Kru. Ignora sempre i sondaggi elettorali, ha scritto Jeremy Gilbert a tarda notte la sera delle elezioni. “E’ più facile capire quali saranno i risultati delle elezioni annusando il vento, rimanendo sensibili agli spostamenti affettivi, alle correnti molecolari, alle alterazioni nella struttura del sentire. Ascolta della musica, guarda la tv, entra in un pub o prendi la metro. Gli studi culturali battono la psefologia ogni volta.”
La cultura popolare inglese contemporanea, con il suo antiquato cameratismo post-moderno, la sua mascolinità furbesca (qualcuno vuole una birra con Nigel? [Farage, ndt]), la sua pornografia della povertà, il suo vile culto degli affari, sono diventati come gigantesche simulazioni del Poundbury Village, in cui nulla di nuovo accade mai, per sempre… mentre ubiqui i cartelli Keep Calm, in modo ostentatamente eccentrico o ironico, funzionano di fatto come i comandi di They Live, contengono il panico e la disperazione.
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Marx un cane morto?
di Salvatore Bravo
L’accettazione del sistema sociale vigente quale unico possibile è il volto abbagliante dietro il quale si cela la sua verità, l’abbaglio è il disorientamento, il turbocapitalismo vive e si espande nella caduta del senso critico, nella rinuncia individuale e di massa al riorientamento disalienante verso la condizione disumana a cui, tutti, sono sottoposti, malgrado le innegabili differenze delle condizioni materiali. Naturalmente la sua ideologica fatalizzazione consente al capitale trasformato in motore della Storia collettiva ed individuale di essere il vero protagonista delle storie, in quanto la storia è nel concreto il luogo delle scelte individuali che si aprono all’alterità per fondare la comunità. Le storie con il vociare del possibile sono sostituite con velocità crescente di ordine geometrico dal capitale, il quale divenuto ipostasi non riconosciuta, ed in forza omologatrice delle storie individuali. Le vite divengono in quanto abitate dal capitale indifferenziate, non hanno che gli stessi attributi del valore di scambio, così come le merci sono valore di scambio e dunque astratte perché hanno perso il valore d’uso, nella stessa maniera i soggetti sono posti tutti sulla stessa linea indifferenziata, essi sono tempo astratto, e quindi il valore di ciascuno passa per le forche caudine della rinuncia alla propria individualità in favore di criteri astratti di quantificazione. Il tempo di lavoro di ciascun individuo è sottoposto alla legge comune a tutti, ogni individualità è soppressa, svuotata perché serva del tempo astratto, ovvero del tempo dedicato alla produzione ed al consumo coatto.
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Io non ho paura - del robot
di Sebastiano Isaia
Tu non sei padrone tu non sei più re.
Tu non sei padrone tu non comandi più.
Prima eri tu a far girare il mondo, ora
invece è un pezzo di metallo.
Hai creduto nei libri della storia, hai
creduto che il progresso fosse questo.
Ma tu non sei padrone, tu non sei più re.
Tu non sei padrone, tu non comandi più.
A un anno dalla morte di Sergio Ricossa, «economista accademico, raffinato saggista, divulgatore appassionato», l’Istituto Bruno Leoni ha pubblicato «un profetico testo sull’automazione» scritto appunto da Ricossa nel 1987, il cui titolo è, come si dice, tutto un programma: Grazie, Robot. In effetti il brevissimo saggio, dedicato al rapporto tra l’automazione “spinta” (o “intelligente”) e l’esistenza umana è di un certo interessante, anche perché l’autore tocca, o sarebbe più corretto dire sfiora, diversi temi (di natura etica, prevalentemente) che personalmente frequento con una certa costanza – quanto ai risultati di questa ostinazione è meglio sorvolare. Un solo esempio:
«Senza il male, da intendere e da combattere, non c’è atto di genio e non c’è scelta morale. […] L’uomo moralmente meritevole non è l’uomo obbligato al bene: è il peccatore potenziale, che resiste alla tentazione. L’uomo può peccare e non deve peccare. Il suo errore può essere colpa, mentre non lo è per il robot».
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Dal sommerso ai robot
Lo stato di salute del lavoro e le sfide che ci aspettano
di Francesco Seghezzi
Nelle ultime settimane il dibattito politico sul lavoro è stato calamitato dal tema dei voucher, al punto che, immaginando uno straniero che legge per la prima volta le notizie del nostro Paese, potrebbe facilmente pensare che la maggioranza della popolazione italiana venga oggi retribuita mediante buoni lavoro.
Ma, volendo provare a tracciare alcune delle tematiche che il mondo del lavoro dovrà affrontare nel 2017, la prima affermazione da fare è che quello dei voucher è un piccolo problema, piccolissimo, come ci ha ricordato qualche giorno fa la prima nota congiunta sui dati del lavoro prodotta da Istat, Inps, Ministero del lavoro e Inail: i voucher corrispondono allo 0,23% del costo del lavoro complessivo italiano.
Questo non significa che non vi siano casi di abuso e non vi siano settori che colpevolmente utilizzano questo strumento per ridurre il costo del lavoro e le tutele dei lavoratori, ma di certo non siamo di fronte al problema principale del problematicissimo mercato del lavoro italiano.
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La forma-partito nella società liquida
Ricostruire il partito comunista: elitismo intellettuale o proposta strategica di lungo respiro?
Claudio Valerio Vettraino
Dal 3 al 5 Luglio si svolgerà a Via Monte testaccio a Roma la Festa Comunista, organizzata dal Partito Comunista di Marco Rizzo e compagni, che cerca – nella palude teorica e politica italiana, di ridare voce e prospettiva ad un’analisi marxista della società capitalistica e finanziaria contemporanea.
Un tentativo ambizioso e forse titanico ma per molti ritenuto necessario, per aprire una seria e profonda riflessione sul “caos” odierno e per tentare di ridefinire un’alternativa di sistema all’attuale ordine mondiale, ridando la parola ai popoli e ai lavoratori, costruendo (assieme per esempio alla coalizione sociale di Landini e di parte della Fiom) quel fronte rappresentativo del mondo del lavoro, oggi indispensabile per ridefinire qualsivoglia azione di rivendicazione e di lotta sociale, in Italia, in Europa e nel Mondo.
Impossibile su questo, non essere d’accordo; chi scrive è del tutto convinto che questa è la strada maestra da intraprendere. Dare voce e rappresentanza ad un mondo del lavoro quanto mai diviso e frammentato, precarizzato e disperso, atomizzato ed alienato; assuefatto alla barbarie e allo sfruttamento come dati “naturali” del sistema e della vita quotidiana.
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Alle origini del declino economico italiano
di Guglielmo Forges Davanzati
Le tesi più accreditate nel dibattito sulle cause della recessione italiana – eccessivo debito pubblico, settore pubblico ipertrofico e poco produttivo, adozione dell’euro – non tengono conto che la crisi attuale è il prodotto di un lungo sentiero di declino economico che parte dagli anni novanta, la cui principale causa risiede nella rinuncia all’attuazione di politiche industriali
Nel dibattito sulle cause del c.d. declino economico italiano, le due tesi più accreditate sono le seguenti. Da un lato, vi è chi sostiene che esso dipende dall’eccessivo debito pubblico e dall’esistenza di un settore pubblico ipertrofico e poco produttivo; dall’altro vi è chi ritiene che esso sia imputabile, in ultima analisi, all’ingresso nell’Unione Monetaria Europea e alla conseguente adozione dell’euro, che, impedendo la svalutazione, avrebbe ridotto la domanda interna a causa della contrazione delle esportazioni. Ciò che accomuna queste posizioni è il ritenere che la recessione italiana trovi le sue cause in vicende che si sono determinate in un passato relativamente breve e il ritenere che il declino italiano abbia una radice monocasuale.
In quanto segue, si proverà a mostrare, per contro, che il declino economico italiano è semmai da imputare a una dinamica di lungo periodo e che si è manifestato con la massima intensità in questi ultimi anni a seguito di un shock esogeno (l’esplosione della bolla dei mutui subprime negli USA come esito dell’accelerazione dei processi di finanziarizzazione) innestatosi su una struttura produttiva la cui fragilità era palese già da almeno un ventennio.
Si parta dal presupposto che le caratteristiche strutturali dell’economia italiana sono fondamentalmente queste.
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