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Expo 2015. Lo spettacolo, il kitsch, la violenza
di Giovanna Cracco
“Il kitsch è la negazione assoluta della merda, in senso tanto letterale quanto figurato: il kitsch elimina dal proprio campo visivo tutto ciò che nell’esistenza umana è essenzialmente inaccettabile.”
Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere
L’Expo di Milano si è concluso. Prima dell’inaugurazione e durante l’apertura è stato criticato, seppur da una minoranza di persone e dell’opinione pubblica, da diverse angolazioni: le inchieste della magistratura per corruzione, la quantità di denaro pubblico speso, la gestione del lavoro, con la creazione della figura del ‘lavoratore volontario’. Dopo sei mesi, la chiusura ha registrato un trionfo di dichiarazioni positive, per il numero di biglietti staccati e la carrellata di ospiti illustri, politici e non, che nei 180 giorni hanno varcato l’ingresso, e la Rai non si è fatta mancare uno spot finale celebrativo.
Di fatto, Expo è stato politicamente, culturalmente e mediaticamente un successo: che i visitatori siano stati realmente 21,5 milioni oppure meno, che l’incasso della vendita dei biglietti abbia davvero coperto i costi o prodotto una perdita, non ha importanza. Una enorme massa di persone ha innanzitutto deciso di andarci, e in secondo luogo ne è uscita, nella grande maggioranza, entusiasta. Ogni criticità legata all’Esposizione (che anche Paginauno ha espresso sulle sue pagine), ogni pensiero negativo opposto alla sua stessa realizzazione, sul piano valoriale o economico, sono stati spazzati via dal consenso che ha raccolto.
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L'urgente rilancio dell'occupazione? Col sale in zucca (no "permeismo" allowed)
di Quarantotto
1. Repetita iuvant: secondo Eurostat, l'Istat dell'Unione europea, l'Italia ha una delle più basse spese pubbliche pro-capite in €uropa.
2. Infatti, ciò è confermato dai dati sul numero dei pubblici impiegati.
E si tratta di quelli del 2011, a cui sono seguiti ulteriori accorpamenti di strutture e blocchi del turn over, sul fronte organizzativo pubblico (molti credono che la spending review non sia in corso, solo perchè il livore accecante non consente neppure la memoria a breve sulle leggi sfornate a getto continuo).
In questo numero dobbiamo pure conteggiare un precariato - nei settori dell'istruzione e della sanità, ma non solo-, che è un record UE e che ci pone in infrazione rispetto alle direttive europee sulla preferenza per il contratto a tempo indeterminato.
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Contro l'austerity. Sovvertire il presente
di Guido Viale
Assistiamo da decenni, impotenti, a una continua espropriazione del Parlamento, peraltro consenziente, e per suo tramite del «popolo sovrano». Le principali tappe di questo processo sono state: 1. La separazione della Banca centrale dal controllo del governo (anni '80) per contrastare le rivendicazioni salariali, che ha dato a un organo non elettivo il potere (poi trasferito alla Bce) di decidere le politiche economiche e sociali; ma soprattutto ha fatto schizzare il debito pubblico mettendolo in mano della finanza. 2. Le molte riforme del sistema elettorale, dall'abrogazione del sistema proporzionale («una testa un voto», principio basilare della democrazia rappresentativa) al cosiddetto porcellum, che trasferisce dagli elettori alle segreterie dei partiti la scelta dei propri rappresentanti; 3. La cancellazione della volontà di 27 milioni di elettori al referendum contro la privatizzazione dell'acqua e dei servizi pubblici con ben quattro leggi controfirmate da Napolitano (l'ultima anche dopo che la Corte costituzionale aveva dichiarato illegittime le prime tre), come anni prima, con il referendum per l'abrogazione del finanziamento pubblico dei partiti; 4. L'imposizione di un «governo tecnico» con un programma (l'«Agenda Monti») imposto dalla Bce, e attraverso questa, dall'alta finanza sotto «l'incalzare» dello spread: una sudditanza che non avrà più fine, perché da allora la finanza che controlla il debito pubblico potrà imporre a qualsiasi governo le misure che vuole; 5. il governo Letta, conclusione logica di questo processo, che azzera la volontà di tre quarti degli elettori italiani (un quarto astenuti; un quarto cinque stelle; un quarto «centro-sinistra») tutti determinati, con il voto o il non voto, a cancellare le politiche di Monti e Berlusconi); 6. Il progetto, non nuovo, di cambiare in senso presidenziale la Costituzione.
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Il necessario riposizionamento
La sinistra di classe tra legge elettorale e Articolo 18
Domenico Moro
Dieci anni fa al Circo Massimo, contro l’abolizione dell’articolo 18, si tenne la più grande manifestazione sindacale, tre milioni di partecipanti secondo la CGIL, superata forse solamente dalla manifestazione del 2003 contro la guerra in Iraq. L’articolo 18 fu salvo, con grande entusiasmo a sinistra. Eppure, si trattò di una vittoria tattica, inserita in una sconfitta strategica per il movimento operaio, cioè in un peggioramento dei rapporti dei forza complessivi. Infatti, un anno dopo passò la Legge 30/2003 (Legge Biagi), che, bypassando l’articolo 18, abbassava drasticamente il livello di tutela dei lavoratori. Il grado di protezione del lavoro, già ridottosi con il Pacchetto Treu (varato dal Primo governo Prodi, sostenuto e partecipato anche dai comunisti) crollò al di sotto di quello di Francia e Germania.
Gli esiti delle grandi mobilitazioni contro l’articolo 18 e contro la guerra hanno denotato la medesima difficoltà della sinistra a capitalizzare organizzativamente e politicamente la forte spontaneità di massa. Il decennio che seguì vide la partecipazione dell’Italia a guerre seriali, la riduzione di salari reali e welfare, le privatizzazioni, e la crescita dei profitti dei grandi gruppi in un contesto di decadenza industriale del Paese. Dulcis in fundo, l’estromissione dal Parlamento dei comunisti, per la prima volta dal 1948.
2. Attacco forte del capitale, risposta debole
Ma veniamo all’attualità. Siamo davanti all’attacco più forte condotto dal capitale contro il lavoro salariato dalla fine della Seconda guerra mondiale. Non si tratta “solo” dell’attacco all’art. 18, la controriforma è estremamente articolata e colpisce tutti gli aspetti del mercato del lavoro. [1] Al confronto il “pacchetto Treu” e la Legge Biagi sembrano bacchettate sulle dita.
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Tav Val di Susa. Una battaglia rivoluzionaria per la democrazia
Paolo Baldeschi
Una battaglia rivoluzionaria, non perché usi la violenza, ma perché, le ragioni dei No-Tav, se fossero accolte, implicherebbero una ‘rivoluzione’ nel sistema partitico-imprenditoriale-tangentizio italiano. Tutto ciò è esaurientemente spiegato in Il libro nero dell'alta velocità di Ivan Cicconi. Il libro, documentato oltre possibile dubbio, spiega non solo le vicende, ma le ragioni strutturali di un affare, l'Alta Velocità, che è, dopo tangentopoli, il nuovo banco di finanziamento dei partiti, della casta e, Fiat in testa, dei capitalisti nostrani. E' un sistema che sfugge a ogni controllo tecnico, contabile e di legittimità e si autoalimenta sestuplicando (come di fatto è accaduto) il costo delle opere.
La chiave dell'architettura è il Project financing combinato alla Legge Obiettivo. Lo stato avrebbe dovuto finanziare attraverso Tav (dal 2010 sciolta in Rete ferroviaria italiana) un quaranta per cento del costo dell'opera, il sessanta i privati; i quali, però, di tasca propria hanno messo gli spiccioli, il resto se lo sono fatto prestare dalle banche, meglio se da loro partecipate. Ma non basta, perché per legge (obiettivo) il General Contractor dell'opera, soggetto privato scelto da Tav, affida direttamente progettazione e realizzazione delle opere a imprese collegate e rappresentative di tutto il capitalismo immobiliare e cementizio italiano: da Caltagirone a Lodigiani, da Todini a Ligresti passando per la Lega delle cooperative, oltre, capofila, Impregilo della Fiat; il tutto senza gare d'appalto e via 'per li rami', cioè per sub-appalti e sub-sub-appalti, fino ad arrivare alle imprese della mafia e della camorra.
Con una fondamentale clausola: che i privati sono concessionari dell'opera per la 'realizzazione', ma non per la 'gestione'.
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La competenza dei tecnici: note su finanza, democrazia e indignazione
written by Marco Assennato
Libero mercato e democrazia.
La storia lunga della forma politica europea è arrivata al tramonto. Prendere parte, in questo crepuscolo, è necessario. Ne va delle parole di domani. Tutti i nodi dell’ultimo scorcio di secolo vengono al pettine. A guardare bene è una buona notizia. Dopo saranno tempi nuovi. Certo, il tramonto può far paura, sembra un abisso, un precipitare lento e inesorabile. Come tutti i passaggi radicali, originari. Ma questa è la partita. Radicale, originaria. Coincide e conferma l’idea, la geografia della crisi: prima la Grecia - impedita, fatto enorme, di procedere ad un referendum popolare, che per quanto inadeguato aveva il sapore d’un appello al popolo in ultima istanza, perchè dicesse, prendesse parola sul destino proprio - poi l’Italia, ex-repubblica parlamentare le cui funzioni sovrane a lungo maltrattate, vengono commissariate da tecnocrati già protagonisti della crisi in corso. E la prossima sarà la Francia.
La Francia, non la Spagna, né il Portogallo. Ma la Francia della rivoluzione borghese del 1789, quella di libertà, eguaglianza e fraternità. Il corpo maturo dell’impero finanziario transnazionale si disfa delle vecchie utopie. Demokratía, nasce in Grecia, come dispositivo che consente al dèmos di costruire un caleidoscopio di forme di vita pubblica che ruotano attorno ai concetti di libertà, uguaglianza, trasparenza. Fu a lungo un fantasma per i poteri pubblici, quest’ipotesi di kràtos del démos. Potere coercitivo del popolo sulla cosa pubblica. Tutta la teoria politica greca si è basata sulla necessità di dargli forma e così limitarlo, farlo coesistere con gli altri poteri. La Grecia, perciò, è stata culla delle costituzioni - dispositivi di legge che tentavano questo rigoroso esercizio della forma.
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Prove d'opposizione
Rossana Rossanda
Finalmente un segnale inequivocabile di opposizione: è venuto dalle diverse fondazioni, che hanno raccolto lunedì scorso a Roma una folla di giuristi e costituzionalisti per dieci fitte ore di lavoro. Tenessero al centro, raccomandava Giuliano Amato ai politici che conludevano la giornata, il tema bruciante della deriva presidenzialista più che la legge elettorale. E se non tutti ne hanno seguito il suggerimento, il risultato è stato chiaro: non un pezzo del Parlamento ma un pezzo del paese ha messo alle verità berlusconiane dei paletti assai fermi.
I primi, e non solo a partire dal 14 aprile. Per esempio, anche ammesso che si diano più poteri al premier, devono essere bilanciati da più poteri delle Camere, oggi quasi esautorate; fra le conseguenze, via i premi di maggioranza. Oppure, si ciancia di variare la Costituzione? Va alzata la barriera posta dall'art. 138. E poi, più che parlare contro la politica, vanno date regole interne precise e verificabili ai partiti e al loro finanziamento, art. 49. E poi ancora, bisogna riflettere su sistemi elettivi troppo diversi (da comuni a regioni a camere), dare minore manovrabilità ai referendum. Infine è uscita la proposta di una legge elettorale «alla tedesca» che, più o meno d'obbligo per le europee del 2009, implichi uno sbarramento non superiore al 3%. E non solo. Quale legittimità ha la decretazione d'urgenza oggi in voga? Quale senso ha il corpaccio della finanziaria?
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Il mito dell’insostenibilità della spesa pensionistica
di Thomas Fazi
Tra i tanti miti che continuano ad essere propagandati sul funzionamento dell’economia, uno dei più perniciosi riguarda senz’altro la spesa pensionistica e la sua presunta insostenibilità, uno dei mantra della politica italiana da almeno vent’anni. L’idea di fondo è che il “normale” nonché effettivo funzionamento dei sistemi pensionistici, e nella fattispecie di quello italiano, consista nel prelevare una certa percentuale dalla busta paga del lavoratore che poi viene “accantonata” in una sorta di “cassetta” previdenziale a cui lo Stato attingerà una volta che il lavoratore è andato in pensione per finanziare la pensione dello stesso.
A qualcuno che basi la sua concezione dell’economia sulla “saggezza convenzionale” – dunque alla maggior parte dei cittadini, ahinoi –, tale sistema potrebbe parere avere una sua logica. Peccato che questa rappresentazione del funzionamento del nostro sistema pensionistico non solo non abbia alcun senso, ma non corrisponda neanche alla realtà. Non ha senso perché gli Stati, a differenza di noi comuni mortali, non “risparmiano” oggi per aumentare la propria capacità di spesa un domani. La stessa idea che un surplus del bilancio pubblico rappresenti un risparmio nell’accezione tradizionale del termine, cioè una somma che viene “messa da parte” per poter essere spesa un domani, è errata: esso certifica semplicemente che in un dato periodo le entrate dello Stato sono superiori alle uscite, ma quei soldi non vengono accantonati, vengono effettivamente distrutti, tramite una semplice operazione contabile (giacché non paghiamo le tasse con i contanti ma per mezzo di trasferimenti bancari). Da ciò si evince come l’idea che lo Stato “metta da parte” i nostri contributi oggi per poi restituirceli un domani non abbia alcun senso.
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Il prossimo governo? Solo promesse da rimangiare…
di Dante Barontini
Non vi illudete, non ci sarà nulla da redistribuire.
Pausa di riflessione pasquale, in attesa delle consultazioni di Sergio Mattarella per formare il nuovo governo. Pivot di qualsiasi combinazione possibile sono ovviamente la Lega e i Cinque Stelle, i “vincitori” della disfida elettorale. Impensabile un governo senza loro due, molto difficile trovare la quadra per un governo con dentro entrambi.
Il nodo vero non sono le intenzioni e i “magheggi” di Salvini e Di Maio, ma quel che saranno costretti a fare, in totale contrapposizione con le promesse elettorali che li hanno portati in cima alla piramide. In estrema sintesi, Salvini ha giurato che “straccerà la Fornero” (la legge, ovviamente) e interverrà sul sistema fiscale applicando un flat tax, ovvero una tassa sostanzialmente uguale per tutte le fonti di reddito (salari, profitti, rendite finanziarie, ecc). Di Maio ha a sua volta garantito che abbatterà i “costi della politica” e introdurrà il reddito di cittadinanza.
Tralasciamo qui l’analisi puntuale alcune di di queste misure, che abbiamo già espresso in molte occasioni (una tassa uguale per tutti è un premio favoloso soltanto per i più ricchi, il reddito di cittadinanza grillino è in realtà un obbligo ad accettare qualsiasi lavoro, eliminare quasi del tutto i “costi della politica” significa consegnare i parlamentari completamente nudi alle “offerte” delle lobby, ecc) e concentriamoci invece sulla realizzabilità di queste misure all’interno del quadro istituzionale ed economico esistente.
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Il problema della sintesi del complesso umano
di Pierluigi Fagan
Questo articolo ha in oggetto la conoscenza del fenomeno umano nel suo complesso. E’ un articolo di riflessione sul metodo, sull’unità e diversità delle discipline, degli oggetti, delle menti che tentano di catturarli
Io sono solo e lo specchio infranto
(S. Esenin, L’uomo nero, 1925)
In una articolo del 1960[1], F. Braudel torna su un tema a lui -ed a noi- particolarmente caro, il problema dell’unità e diversità delle scienze sociali. Schematicamente, la conoscenza umana, si modula su tre ambiti generali. Le scienze naturali si occupano del mondo fisico-chimico e biologico, la filosofia, l’arte e la religione si occupano dell’uomo in quanto tale, le “scienze” umane si dovrebbero occupare di quel territorio in comune in cui l’uomo (psicologia) incontra ed entra in relazione con gli altri uomini (demografia, etno-antropologia, sociologia, linguistica), per fare cose (economia, politica, storia evenemenziale cioè basata su gli “eventi”, date, luoghi, uomini illustri; storia delle idee e delle culture) all’interno di un contesto (geografia) e di un tempo (storia di media-lunga durata). Il cruccio di Braudel è leggere con evidenza che l’oggetto generale di questo gruppo di discipline intermedie è comune ed unico -l’interrelazione, l’organizzazione e l’azione umana, singola e collettiva, nel contesto dello spazio-tempo- ma gli sguardi (ed i metodi di osservazione, analisi e categorizzazione) delle varie discipline sono assai diversi. La specializzazione della varie discipline, istituzionalizzata in dipartimenti non solo incomunicanti ma addirittura in competizione tra loro, sviluppando metodi, patrimoni di conoscenza, linguaggi del tutto eterogenei, crea una babele di prospettive che non arriva mai a sintesi.
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Fine della lentezza
Paolo Gervasi
Lamberto Maffei ha scritto, per la collana “Voci” del Mulino, un Elogio della lentezza (Il Mulino, 2014) percorso dal gusto rinascimentale ed erasmiano per il paradosso. Il libro si apre con l’immagine di una tartaruga sul cui dorso è issata una grande vela gonfiata dal vento, accompagnata dal motto Festina lente, “affrettati lentamente”, l’emblema al quale Cosimo I de’ Medici affidava la sintesi della sua filosofia politica. Anziché inscenare un conflitto schematico, da risolvere unilateralmente, tra lentezza e velocità, Maffei, riprendendo alcuni degli spunti contenuti nel suo precedente, importante libro La libertà di essere diversi (Il Mulino, 2014) mostra la complessità delle relazioni tra due modalità del pensiero, tra due attitudini cognitive biologicamente radicate. Da un lato il pensiero rapido, prevalentemente automatico e inconscio, che guida le reazioni irriflesse e immediate agli stimoli ambientali, legate alle necessità primarie della sopravvivenza, ed è riconducibile alle aree più arcaiche del cervello, alle facoltà tradizionalmente associate all’emisfero destro. Dall’altro lato il pensiero lento, riflessivo, logico, il pensiero razionale associato all’emisfero sinistro, strutturato secondo sequenze temporali, espresso e messo in forma attraverso il linguaggio, modellato da un alto quoziente di plasticità neuronale, dalla plasmabilità delle connessioni sinaptiche, che si modificano a contatto con l’ambiente e nell’interazione sociale e culturale.
Se il pensiero lento ha bisogno di stabilità e di durata, si fonda sulla continuità e sulla stratificazione dinamica di elementi concatenati nel tempo e legati da rapporti consequenziali, il pensiero rapido crea una dimensione temporale discreta, in senso matematico, o saltatoria, che tende a dissolvere sia la continuità retrospettiva costituita dalla memoria, sia quella proiettiva della progettazione del futuro.
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Perchè il ministro sbaglia su salari e costo del lavoro
Domenico Moro*
1. Confronti incongrui
Qualche giorno fa le agenzie di stampa hanno riportato che, secondo Eurostat, le retribuzioni lorde italiane nel 2009 erano ben al disotto della media Ue a 27. Quintultime, per la precisione, inferiori anche a quelle di Spagna e Grecia. Il ministro Fornero ha colto la palla al balzo per ribadire che le retribuzioni sono basse perché il costo del lavoro è alto. Come da sempre sostiene Confindustria, i lavoratori sarebbero pagati poco a causa di tasse sul lavoro troppo alte. Il governo, invece, si è affrettato a precisare che la tabella Eurostat era stata letta male e che retribuzioni e costo del lavoro italiani sono nella media Ue. Qual è la verità? Alcune precisazioni sono necessarie. In primo luogo, non è corretto confrontare retribuzioni e costo del lavoro annui. Orari e ore effettivamente lavorate variano da Paese a Paese. È come se al supermercato comparassimo i prezzi di confezioni di tonno di dimensioni diverse, senza impiegare una unità di misura comune, il prezzo in euro al chilo. Per un confronto corretto dobbiamo prendere le retribuzioni orarie. In secondo luogo, ha senso confrontare le retribuzioni di Paesi con gradi di sviluppo, Pil pro capite[1], e costo della vita molto diversi? Cioè ha senso paragonare l’Italia con la media della Ue a 27, costituita anche da Paesi come Romania, Bulgaria, Estonia, ecc.? Ha molto più senso confrontare l’Italia con la media della Ue a 16 (area euro), e ha ancora più senso, all’interno dell’area euro, confrontare l’Italia con i Paesi con caratteristiche socio-economiche più simili. In terzo luogo, è corretto confrontare i salari complessivi di strutture economiche nazionali, in cui commercio, turismo, costruzioni, manifattura – cioè settori con retribuzioni differenti - pesano in modo diverso?
2. Retribuzioni più basse della media Ue a 16
Per tutte queste ragioni, abbiamo preso in considerazione la retribuzione oraria nella manifattura, che in Italia conta quasi 4,3 milioni di dipendenti, pari al 22,4% del totale (2007).
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Aggressione all'umanità
Alessandro dal Lago
Quando qualcuno, affamato, malato o bisognoso, bussa alla nostra porta, dovrebbe scattare un imperativo primordiale al soccorso. Questo almeno sostengono le mitologie religiose. L'umanità, prima ancora di un'astrazione filosofica, è l'espressione di questo riflesso. Anche se non crediamo al diritto naturale e tanto meno alla retorica dei diritti umani, soprattutto nell'epoca delle guerre umanitarie, sappiamo che il limite minimo della comune condizione umana è definito da quell'imperativo. Rinviando i barconi dei migranti in Libia, il governo italiano ha deciso di rinunciare di fatto e di diritto a qualsiasi minima considerazione umana. O meglio: ha stabilito che la cittadinanza, italiana o occidentale che sia, è il requisito indispensabile perché qualcuno sia trattato da essere umano. E dunque che abbia diritto a vivere, a essere curato e trattato come una persona.
Tra i migranti respinti senza nemmeno mettere piede sul nostro sacro suolo ci sono persone in fuga dalla guerra, dagli stermini e dalla fame. Impedendo loro persino di chiedere asilo e riconsegnandoli ai porti d'imbarco, l'Italia li condanna alla detenzione, alle angherie e, come è già documentato da anni, alla morte.
Così nel nome della difesa paranoica della nostra purezza territoriale che accomuna la maggioranza di destra e parti consistenti dell'opposizione, noi rispediamo nel nulla i nostri fratelli, uomini, donne e bambini. Proprio come, a diecimila chilometri di distanza, in nome della nostra sicurezza, le nostre pallottole uccidono i bambini e le nostre bombe cancellano dalla faccia della terra cento civili in un colpo solo.
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Covid. Il comando della finanza sul mondo
di Alberto Lombardo*
La situazione sanitaria che si sta creando nel mondo in seguito alla seconda ondata del Covid-19 impone riflessioni politiche che non sono facili. Infatti, per fare un’analisi scientifica, si dovrebbe essere in grado di partire da competenze tecniche (epidemiologiche, mediche, sanitarie) che evidentemente sono molto complesse, spesso sono viziate dal punto di vista di chi le formula e soprattutto possono condurre a una guerra tra negazionisti e “affermazionisti” che seppellisce sotto una sterile polemica la corretta disamina della situazione. Cercheremo in queste riflessioni di astenerci da tali diatribe ma, dovendo pervenire a un punto di vista politico, che poi è quello che interessa i comunisti, non possiamo non tenere conto di alcuni dati.
Partiamo da un fatto. La gestione della prima fase della pandemia, dei mesi intercorsi tra la prima fase e la seconda e, conseguentemente, la gestione di questa seconda fase non sono state affatto omogenee in tutto il mondo. Pertanto anche gli effetti sulle conseguenze che stanno vivendo i vari paesi non sono affatto gli stessi. Le discriminanti che si possono intravedere non riguardano tanto i regimi che governano i diversi paesi, ma apparentemente sembrano più legate alle collocazioni geografiche delle nazioni coinvolte. Potremmo mettere da un lato Europa, poi l’America (con significative eccezioni), dall’altro l’Asia e infine l’Africa. Escludendo in un primo momento quest’ultimo continente, possiamo vedere che, nel combattere gli effetti della pandemia, hanno avuto più successo nazioni come la Cina (sia la RPC, che Taiwan), il Giappone e la Corea del Sud; mentre Europa e America (con l’eccezione di Cuba) stanno di nuovo precipitando nel baratro, nonostante abbiano intrapreso strategie molto diverse (USA e Brasile, Europa continentale, Gran Bretagna, Svezia).
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In Iran hanno vinto i centristi
Occidente accecato dai pregiudizi
Nicola Pedde*
Una grande confusione ha caratterizzato la lettura dei risultati elettorali iraniani da parte della stampa internazionale, nell'interpretazione di un voto per le elezioni parlamentari e dell'Assemblea degli Esperti in Iran che ha visto i principali titoli dividersi tra una vittoria netta dei riformisti e del presidente Rohani e le smentite dall'Iran che hanno dato invece per vittoriose le forze conservatrici.
La ragione di questa confusione è in larga misura da individuarsi nel modo in cui, ancora una volta, gli europei e gli occidentali in genere si ostinano a leggere le dinamiche politiche e sociali dell'Iran, delineando una netta linea di demarcazione tra i riformisti e i conservatori.
I riformisti, per gli occidentali, rappresentano il "desiderata politico" con cui misurarsi e che immaginano come una forza ideologica anti-regime, anti-rivoluzionaria e pro-occidentale, animata dal solo desiderio di mutare il connotato politico dell'Iran in un qualche ibrido vicino ai modelli occidentali.
Allo stesso tempo, i conservatori sono visti dalla gran parte degli occidentali come un insieme di anziani teocrati radicali, fanaticamente religiosi e anti-democratici, animati dal solo desiderio di mantenere in vita l'apparato tradizionale islamico forgiato con la rivoluzione.
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"Non è affatto detto che la fine dell’euro comporti una svalutazione di una 'nuova lira' italiana"
Cesare Sacchetti intervista Gennaro Zezza*
Professore secondo i recenti dati dell’Istat, l’Italia nell’ultimo trimestre del 2014 ha superato il rapporto deficit/PIL dei parametri di Maastricht, toccando quota 3,5%. Il Governo ha dichiarato che con le misure correttive inserite nella legge di stabilità, conta di ridurre la percentuale fino al 3% nel corso dell’anno. Lei crede che tutto ciò basterà a Bruxelles, o corriamo il rischio di nuove misure correttive con un commissariamento ancora maggiore? Quali sono gli effetti delle politiche procicliche di riduzione del deficit in questa fase congiunturale?
Quanto è successo in Europa, ed in particolare in Grecia, negli ultimi anni dovrebbe aver chiarito che il tentativo di ridurre il rapporto tra debito pubblico e PIL con una contrazione fiscale – aumentando le tasse e riducendo la spesa pubblica – ha effetti devastanti sull’economia. Il reddito diminuisce, e con il reddito cala anche il gettito fiscale, l’economia va a rotoli e – se pure si riesce a diminuire il deficit, la caduta contestuale del PIL rende la manovra insostenibile per il Paese. La Grecia ha raggiunto a stento un precario equilibrio dei conti pubblici, pagando un prezzo esorbitante in termini di disoccupazione e di povertà. I governi italiani non sembrano aver imparato la lezione: a mio avviso la lunga recessione italiana è dovuta in gran parte alla politica di “risanamento” dei conti pubblici attuata nel momento peggiore. Sarebbe invece urgente sospendere i vincoli imposti dai trattati europei per pensare alla creazione di posti di lavoro.
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Il che fare di Pomigliano
Mario Tronti
Lo slogan «da Pomigliano non si tocca a Pomigliano non si piega» è emerso dall'interno di una conricerca che un gruppo di giovani ricercatori del Crs sta conducendo da tempo in quella fabbrica insieme agli operai. Descrive l'arco di sviluppo della vicenda, fino all'esito a sorpresa del referendum: dalla difesa del posto di lavoro alla rivendicazione della dignità e della libertà del lavoratore. La posta in gioco infatti si è alzata. E chi l'ha alzata imprudentemente è stato l'intelligentissimo ed efficientissimo management Fiat, con una ben orchestrata manovra politica su una delicata situazione economica. Hanno commesso un errore. E una volta tanto hanno perso.
Non era solo Marchionne. E non ha perso solo lui. Mi sono chiesto: perché la questione Pomigliano è salita al centro dell'attenzione politica, primi titoli sui giornali, prima notizia nelle tv? Era forse morto per incidente sul lavoro un grappolo di operai, unico motivo di visibilità per queste sottopersone? No, semplicemente si tentava un colpo in fabbrica, in un pezzo di paese, per dire a tutti che cominciava una nuova età di rapporto tra impresa e lavoro - l'ormai famoso e incredibilmente supponente dopo Cristo - e che esemplificava brutalmente ed empiricamente l'intento più generale di rovesciare il dettato costituzionale del vetusto, avanti Cristo, art. I, Repubblica democratica fondata sul lavoro.
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Il Niger e il Ribollire Africano
di Alessio Galluppi
Che succede in Niger, fra i paesi confinanti come il Burkina Faso, il Mali e tutta l’area del Sahel?
Dai giornali occidentali apprendiamo ci sarebbe stato un nuovo colpo di Stato diretto da una giunta di militari che comanda la Guardia Presidenziale dell’Esercito del Niger. Poi però le immagini mandate in onda su tutti i canali televisivi ci mostrano manifestazioni popolari di sostegno al “colpo di Stato”, non solo, ma che i manifestanti innalzano cartelli di condanna nei confronti della Francia e inneggianti a Putin. I riflettori dei media Occidentali si accendono sull’Africa commentando i fatti con serissima preoccupazione. Intanto, a Niamey c’è un fuggi fuggi generale di civili stranieri Francesi, Italiani ed Europei che si trovano in Niger, mentre le forze militari in missione di Stati Uniti, Francia e Italia si barricano nelle rispettive basi militari presenti nel paese. Gli Stati Uniti, che hanno decuplicato il numero delle basi militari in Africa dagli anni di Obama ad oggi (almeno una dozzina concentrata nella regione del Sahel e sei proprio in Niger), temono di perdere il loro migliore ed ultimo avamposto nel West Africa.
E allora cerchiamo di capirci di più, senza nasconderci dietro il dito e da subito diciamo che l’esultanza di masse di oppressi e sfruttati africani è un ulteriore segnale della fase di destabilizzazione del modo di produzione a egemonia occidentale, altrimenti detto: la rivoluzione procede il suo inarrestabile corso.
Questo colpo di mano di una unità d’élite dell’Esercito del Niger – di cui molti comandanti ed esponenti della nuova giunta militare sono stati addestrati dal Comando Operazioni Speciali dell’Esercito degli Stati Uniti presso la Base Aerea 201 o a Fort Benning in Georgia – è parte del medesimo processo caratterizzato da eventi improvvisi dello scorso anno, accaduti nei confinanti Burkina Faso e Mali.
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Il Capitale e il suo punto cieco: il denaro come tecnica di misura
di Frank Engster*
Abstract: In the 1960s, a logical-categorial reading of Marx’s Capital began, especially with focus on the value-form analysis, from which the so-called «New Marx Reading» in Germany was one of the outcomes. These readings on the one hand found, with the necessity of synthesizing the theory of value with that of money, the key to opening up the further development of the capitalist mode of production. On the other hand, they stayed fixed on money’s second function as a medium of exchange and on money-mediated commodity exchange, remaining trapped in the contradiction between use-value and exchange-value and the need for an abstraction to quantify the commodity relations. In contrast, the thesis of this paper is that it is money’s first function as a measure of value which is decisive for the development of the inner connection of money and value and for the capitalist mode of production as a whole. Only through the first function can the technique of quantification be deduced, the technique to turn the negativity of a pure social relation into the positivity of quanta and to release with this turn the productive power of the capitalist mode of production. Quantification in capitalism is neither an abstraction, nor a reduction or a form of counting. Rather, in capitalism society is subjected to a measurement of its own productive power; a productive power which through its measurement is, in the first instance, released and systematically expanded. Developing the capitalist mode of production from the “standpoint” of money – the standpoint of an ideal unit which becomes by money’s main function the measure of value, the means of the realization of value and the form of its valorization – opens up an adequate understanding of how to make society an object of both science and critique
«Tutte le illusioni del sistema monetario derivano dal fatto che dall’aspetto del denaro non si capisce che esso rappresenta un rapporto di produzione sociale, sia pure nella forma di una cosa naturale di determinate qualità». (Marx 1961, 22)[1]
C’è un compito della critica dell’economia politica che precede l’esposizione vera e propria del modo di produzione capitalistico. La prima sfida – nel senso più autentico del termine – è motivare perché la società capitalistica possa essere in generale per noi oggetto di critica e al contempo di scienza[2].
La pretesa critica della critica marxista in quanto tale e, per così dire, l’assioma materialistico che la fonda, è il tentativo di comprendere le categorie economiche come «modi d’essere, determinazioni dell’esistenza» sociali (Marx 1961, 635; cfr. anche Marx 1976, 40). Ciò significa che le categorie sono tanto forme soggettive del pensiero, della conoscenza, e necessità logiche quanto categorie dell’oggettivo esserci sociale. Esse sono inoltre storicamente connotate, e più precisamente capitalisticamente connotate, dunque non prestabilite sovratemporalmente dalla natura o da Dio, né determinate antropologicamente od ontologicamente.
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La critica come resistenza militante
di Militant
E’ spesso faticoso ragionare su opere datate nel tempo. Troppo stratificata la mole di commenti di cui tenere conto, le interpretazioni date, l’universo del già detto. Se poi l’opera in questione non è solo un “classico”, ma dall’autore così importante e “ingombrante”, il rischio della superficialità diviene una quasi certezza. Eppure mai come oggi crediamo che questo rischio vada corso, visto il deperimento ormai definitivo della critica nel nostro paese. Tutto il già detto su opere del genere è oggi sepolto da strati di decadenza culturale che hanno disattivato completamente un messaggio, e un linguaggio, un tempo in grado di emancipare generazioni di militanti. Partiamo affermando allora questo: non è possibile predisporsi alla critica di un qualsiasi lavoro culturale – sia esso letterario, artistico, teatrale, cinematografico, eccetera – senza aver assimilato i concetti fondamentali presenti in questo Marxismo e la critica letteraria. Senza aver compreso, cioè, le basi del rapporto tra marxismo e cultura. Un rapporto che non è decisivo unicamente per una critica “di sinistra” (concetto d’altronde molto equivoco), ma per ogni genere di critica, perché la relazione tra la dialettica materialista e la cultura è una relazione universale e non ingabbiata nell’ideologia (marxista in questo caso). In altre parole: Marx ed Engels hanno svelato, pur in assenza di opere di sintesi sul tema, il rapporto tra essere umano ed espressione culturale mediato dalle relazioni capitalistiche entro cui questo specifico rapporto prende forma. Come si può procedere a una critica culturale senza possedere le basi di questa relazione, che è una relazione generale, ma che assume caratteri peculiari riguardo all’estetica?
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La via della pace. M5S e altri
Ci vuole una strada larga, subito
Francesco Santoianni e Giulietto Chiesa
Un botta e risposta fra Francesco Santoianni e Giulietto Chiesa sulla questione ucraina, il tema della pace e le remore del Movimento Cinque Stelle
Carissimo Giulietto
C'ero anche io, ieri a Napoli, ad applaudire la tua splendida conferenza sull'Ucraina e sulla imminenza di una ancora più devastante guerra. Davvero splendida. Problemi di tempo, non sono potuto intervenire dal pubblico, per cui mi esprimo qui su una tua affermazione e cioè sul Movimento Cinque Stelle unica forza sulla quale potere costruire una mobilitazione contro la guerra. Credo di poter contraddirti con cognizione di causa in quanto, da anni - a differenza di tanti altri compagni che non vogliono "sporcarsi le mani" - stando nel Movimento Cinque Stelle, ho cercato di schiodarlo dal suo sostanziale immobilismo, tentando anche di coinvolgerlo in iniziative contro la guerra.
L'ultimo mio fallimento in ordine di tempo è stata la mobilitazione per Gaza che pure sembrava nel cuore di molti attivisti Cinque Stelle a giudicare dai loro innumerevoli post su Facebook.
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Europa, quando perseverare è ideologico
di Lelio Demichelis
Urge che il demos si riprenda il potere, uscendo dall’incubo della biopolitica/tanatopolitica neoliberale. Cercando, fuori dall’ideologia, un’idea virtuosa e umana di Europa
Un po’ di filosofia e di psicanalisi; spunti dalla riflessione di Hannah Arendt sul totalitarismo, ma applicandola al capitalismo; e Michel Foucault. Sono alcuni degli strumenti utili per capire la crisi di questa Europa.
Dal 2008 gli europei vivono un incubo che coniuga ideologia (il neoliberismo), autoritarismo (lo stato d’eccezione, i governi di larghe intese, il non poter votare e decidere), volontà di potenza (il capitalismo totalitario), moralismo religioso (protestante), inquisizione (cattolica), nichilismo (ancora il capitalismo), pulsioni libidiche e aggressive (l’austerità e il pareggio di bilancio). Secondo una colossale menzogna (sempre l’ideologia neoliberista), che ha prodotto (come ogni ideologia) altrettanto colossali meccanismi difalsificazione della verità e della stessa razionalità economica (l’austerità come via virtuosa per la crescita, mentre è una politica pro-ciclica che peggiora la crisi, non correggendone le cause). Il tutto emarginando ogni tentativo di fare parresia. Di dire ilvero contro la menzogna.
L’Europa (gli europei): in questo incubo l’hanno portata le sue classi dirigenti (sic!) e le oligarchie economico-finanziarie.
Non per un incidente della storia, ma perché la loro azione era ieri ed è ancora oggi finalizzata ad una trasformazione politica in senso antidemocratico e totalitario del potere; ed economica in senso definitivamente neoliberista. Suda, soffre, si impoverisce ma l’Europa subisce in silenzio questa ideologia neoliberista e questo collegato sadismo economico del capitalismo.
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Disagio psichico e democrazia
di Antonio Martone
Il disagio psichico ha raggiunto vette record nel mondo occidentale. Già negli Stati Uniti, punta di diamante del capitalismo consumistico globale e patria del consumismo, è considerata un’ “emergenza”, benché tutto sommato “normalizzata”, l’overdose da pain killer (farmaci antidolorifici su base oppioide). A questo, si aggiunge l’iperconsumo di psicofarmaci. Probabilmente, il fenomeno ancora più rilevante non si è ancora del tutto manifestato: riguarderà le dipendenze tecnologiche, la cui gravità sono le meno misurabili e anche le più sistemiche e, in quanto tale, difficili da affrontare.
Le cause sono tante e quelle politiche, sociali ed economiche sono ovviamente fondamentali. La ECity (città elettronica) globale è costantemente attiva nell’erodere lo spessore delle identità e potenziare la dimensione del precario e del contingente. I processi di sradicamento globali procedono senza sosta nella direzione di un iper-individualismo nel quale i vincenti sono pochi e i perdenti masse sterminate e, a volte, interi paesi. Non credo occorra sottolineare in quale misura la dimensione del precario e del contingente (o dell’eccezione elevata ormai a norma), e la logica della competizione neoliberista, possano incidere sulla coscienza dell’uomo e sui processi di formazione della personalità.
Peraltro, e rimanendo all’interno dei paesi occidentali, sembra che la situazione sia fuori controllo anche per professionisti e benestanti. Non è certo che le persone si rendano conto dello sforzo psicofisico necessario per correre verso standard professionali che permettano di stare sul mercato. La verità è che questa nuova schiavitù sta producendo dei veri e propri disastri psichici.
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La campagna vaccinale anti-covid-19 in Italia ha evitato milioni di eventi sanitari negativi?
di Marco Mamone Capria
Introduzione
Lo scopo di questo articolo è cercare di dare, con l’esame di un caso particolare, una risposta al problema: come si può reinterpretare il disastroso fallimento di una politica sanitaria come se fosse stato uno straordinario successo?
Non entro in dettaglio nelle motivazioni per tentare una tale reinterpretazione – anche perché in sostanza sono ovvie: a nessuno piacerebbe essere identificato come responsabile, o corresponsabile, di un disastro, e il costo di circuire, corrompere, comprare chi dovrebbe identificare, accusare, perseguire i responsabili è tanto inferiore a quello di sopportare le conseguenze della pubblica colpevolezza, quanto maggiore è stato il disastro e più alta la posizione dei colpevoli.
Non ripeterò nemmeno quanto ormai riconosciuto da sempre più commentatori, e cioè l’importanza cruciale dell’asservimento dei principali media, in particolare, al governo italiano, cosa indubbiamente facilitata dalla convergenza tra le politiche di questo e gli interessi degli oligarchi che controllano o addirittura possiedono i principali media.
Intendo invece soffermarmi sulle tecniche utilizzate per “ristrutturare” i dati attestanti il fallimento in modo che questo appaia come un successo. Per farlo, un buon punto di partenza è offerto dal rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e del Ministero della Salute (MS) intitolato: Infezioni da SARS-CoV-2, ricoveri e decessi associati a COVID-19 direttamente evitati dalla vaccinazione - Italia, 27 dicembre 2020-31 gennaio 2022 - NOTA TECNICA e apparso nella settimana di Pasqua, il 13 aprile 2022 (d’ora in poi: Rapporto).
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Basta propaganda: siamo seri, almeno coi morti
di Paolo Bellavite
Si sa che personalmente non sono contrario ai vaccini per partito preso, tanto che ho iniziato la “carriera” di vaccinologo nel 2017 con un libro intitolato “Vaccini sì, obblighi no”. Se dovessi riscriverlo, sceglierei il titolo “Vaccini se, obblighi no”, dove il “se” indica la valutazione accurata dei rischi e dei benefici. Comunque non sono un “novax”, sono solo contrario agli obblighi vaccinali, tomba della scienza e dell’etica medica, e sono contrario alla disinformazione. Non può esservi libertà di scelta se non c’è corretta informazione.
Uno degli argomenti di maggiore interesse per l'opinione pubblica riguarda gli effetti avversi dei vaccini e in particolare la mortalità. Per questo vale la pena commentare un articolo di Antonio Socci, comparso su Libero del 13 Ottobre, intitolato “Ma perché qualcuno ha più paura del vaccino che del COVID? Una riflessione statistica”. Tale articolo è emblematico di quale confusione si possa generare su un argomento così delicato e per questo prendendo spunto da questo ritengo utile trattare in modo tecnico alcuni aspetti della questione. Per brevità, pubblico il testo nel mio fascicolo in “Sfero” in attesa di altre eventuali possibilità di pubblicazione.
Socci analizza il tema delle morti improvvise, che definisce “uno dei temi più diffusi, fra i Novax, forse quello che più alimenta la paura e il rifiuto della vaccinazione”. I cosiddetti “Novax” sono accusati di rilanciare sui socials le notizie di cronaca relative a morti di persone che da pochi giorni hanno fatto il vaccino, come se ciò fosse espressione di ignoranza di statistica. Successivamente, l'autore si lancia in considerazioni tecniche in difesa delle vaccinazioni che lasciano stupiti per la loro scarsa consistenza scientifica.
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“Il Parlamento cancelli i provvedimenti che vietano le manifestazioni di protesta”
Daniele Nalbone intervista Emiliano Brancaccio
Per l’economista le proteste di Napoli sono solo l’inizio: la crisi del Covid distrugge i vecchi equilibri sociali ed è destinata a scatenare un’onda caotica di rivendicazioni. Per scongiurare tentazioni repressive occorre mettere in chiaro che il diritto costituzionale di manifestare va posto allo stesso livello del diritto alla salute
“Siamo sull’orlo della più violenta ‘doppia depressione’ nella storia del capitalismo. I vecchi equilibri sociali stanno saltando, dobbiamo attenderci un’onda caotica di rivendicazioni che metterà a dura prova l’intero assetto democratico. In questo scenario, chiedo al governo e al parlamento di assumere un impegno: la tutela costituzionale della libertà di riunione e di manifestazione pubblica deve esser situata allo stesso livello della salvaguardia della salute. Non sono più ammissibili decreti e ordinanze che vietino assembramenti e cortei a causa del covid. Le autorità dovrebbero piuttosto impegnarsi affinché tutte le manifestazioni di protesta si effettuino liberamente, in condizioni di rischio sanitario adeguatamente contenuto”. Per Emiliano Brancaccio, docente di politica economica all’Università del Sannio e voce critica del pensiero progressista, la crisi scatenata dal coronavirus è destinata a minacciare il sistema dei diritti su cui reggono le attuali liberaldemocrazie. Una tesi che l’economista documenta nel suo ultimo libro, in uscita il 12 novembre, dal titolo eloquente “Non sarà un pranzo di gala” (a cura di Giacomo Russo Spena, edito da Meltemi), di cui la rivista Il Ponte ha pubblicato un estratto che sta già facendo discutere. Con questa intervista a MicroMega, rilasciata all’indomani delle proteste di piazza a Napoli, Brancaccio commenta l’ipotesi di un nuovo lockdown, analizza i rigurgiti di crisi sanitaria ed economica e lancia un appello in difesa dell’articolo 17 della Costituzione, che sancisce il diritto di manifestare pubblicamente.
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Professor Brancaccio, il Fondo Monetario Internazionale ha sostenuto che un lockdown generale potrebbe ripristinare la fiducia dei cittadini e aiutare così la ripresa economica. Lei ha criticato questa presa di posizione. Perché?
Il FMI non ha fornito evidenze a sostegno di questa tesi ardimentosa. Anzi, i suoi stessi dati indicano il contrario: i lockdown più duraturi sono statisticamente correlati con le crisi economiche più profonde e persistenti.
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“Flat tax”, “reddito di cittadinanza”, immigrazione e austerity
Chiarimenti sui temi caldi del momento
di Nicoletta Forcheri
Una campagna denigratoria basata sulle solite fake news è stata scatenata da una opposizione fittizia che non fa onore alla democrazia e che, arrampicandosi sugli specchi, ha passato al setaccio l’intervento di insediamento alle camere di Conte, pur di trovare appiglio, non su quanto è stato detto, ma addirittura sulle parole non pronunciate (“mancava Nazione o Patria, mancava Scuola, mancava Pace, mancava Banca”!), per scagliarsi in un processo alle intenzioni tanto più veemente quanto più periclitante laddove il concetto era stato comunque compiutamente espresso, anche in assenza della parola.
Sulle espressioni presenti, però, ce ne sono 2 che richiedono chiarimenti: flat tax e reddito di cittadinanza. Queste espressioni sono ingannevoli, e per onor del vero, questa volta non sono i giornalisti che le hanno stravolte, sono gli uffici stessi dei partiti, rispettivamente Lega e M5S ad averle ideate e propagandate! Come dire, un modo per prestare il fianco alle facili accuse di “populismo”, parola per la verità completamente sdoganata dal Premier Conte. Chapeau!
Ma sono espressioni improprie in quanto “il reddito di cittadinanza” dei pentastellati è un semplice sostegno al reddito dei lavoratori disoccupati e suboccupati, conformemente a quanto avviene in tutti i paesi europei tranne in Grecia, sarebbe quindi meglio chiamarlo “assegno di disoccupazione” e assegno di “integrazione al reddito dei suboccupati”, del resto sancito dalla Costituzione.
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L’incoerenza della Lettanomics
di Stefano Lucarelli
Enrico Letta ha messo il lavoro e la lotta alla disoccupazione al centro delle sua agenda di governo. Si tratta di (buoni) propositi che però mal si conciliano con la zelante accettazione dei vincoli europei (le famigerate politiche di austerity) più volte ribadita dallo stesso premier. Molte riserve suscita anche il “modello di crescita” sul quale si impernia la politica del nuovo governo: trasformare l’Italia nella “piattaforma logistica d'Europa” è davvero una buona soluzione per uscire dalla crisi?
1. Introduzione
Un governo di larghe intese difficilmente può proporre una linea coerente di politica economica. L’analisi economica delle istituzioni politiche (new political economy) – una linea di ricerca sviluppatasi a partire dalla scuola della Public Choice i cui risultati, costruiti su ipotesi comportamentali talora eroiche, sono senza dubbio da approfondire – mostra che il disavanzo fiscale è tendenzialmente più elevato nei governi di coalizione, in cui il potere politico è più disperso. In tal caso infatti tenderà a prevalere una logica di gestione delle risorse pubbliche finalizzata a ridurre gli elementi conflittuali che caratterizzano le varie anime della coalizione[1]. Da qui sorge l’incoerenza che può segnare le politiche economiche messe in campo da un governo di larghe intese.
Certamente tra i lettori ci sarà chi ricorderà l’aforisma di Giuseppe Prezzolini, secondo il quale “La coerenza è la virtù degli imbecilli”, oppure quello di Oscar Wilde, “La coerenza è l’ultimo rifugio delle persone prive di immaginazione”. Negli aforismi in effetti si può proteggere il buon senso, e forse quanto detto dagli artisti appena ricordati può valere per la coerenza intesa nel senso della logica matematica; in tal senso si dice coerente un sistema in cui non è dimostrabile nulla di contraddittorio, quando cioè non sono dimostrabili contemporaneamente un’espressione e la sua negazione.
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Primarie centrosinistra, parte la brigata del niente
nique la police
Risulta praticamente impossibile prendere sul serio commentatori, alcuni con curriculum prestigioso e buona produzione scientifica, che affermano che il “Pd ha un programma innovativo” oppure che “Bersani ha superato lo scoglio delle regole sulle primarie”. Si possono comprendere le dinamiche di posizionamento, sottintese a queste affermazioni, ma si deve evidenziare anche che in certi commentatori è ormai conclamata l’incapacità di capire che è finito un mondo. Quello in cui in cui, assieme al posizionamento entro il più importante partito dello schieramento progressista, si potevano negoziare spazi di autonomia politica e personale. Ricordando che, effetto dei tagli sull’onda dell’antipolitica e del potere reale sull’Italia che passa tra Bruxelles e Berlino, si stanno esaurendo anche i margini concreti per i posizionamenti di carriera tramite la politica istituzionale.
Ma che altro dire degli intellettuali mainstream della sinistra istituzionale italiana? Da moltissimi anni, del numero si è persa la memoria, hanno accettato di buon grado di vivere un percorso intellettualmente docile in una Italia controriformata. Moriranno quindi con quel mondo ammesso che siano ancora intellettualmente vivi. E che dire, a questo punto, delle primarie del Pd? Che possiamo descriverle come nelle vignette di Riccardo Mannelli, il più interessante disegnatore di convention, convegni, eventi pubblici, di situazioni da nonluoghi in Italia da almeno un paio di decenni. Mannelli, che ha disegnato per diverse testate italiane, ha il pregio di mantenere un doppio equilibrio di rappresentazione: disegnare volti e corpi in primo piano senza perdere il senso della folla e sempre all’interno una fisiognomica del grottesco, che non è solo caricatura, che è anche informazione sulle relazioni sociali,sui codici simbolici, sulla cifra antropologica di una parte di paese alla deriva.
L’atteggiamento che si deve avere con le primarie del centrosinistra, per estrarci qualcosa di cognitivamente utile, è proprio quello dell’equilibrio presente nelle vignette di Mannelli.
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Un’aspra stagione*
di Sandro Moiso
Da molti anni non affido le mie speranza di rinnovamento sociale alle urne elettorali, sia in occasione delle elezioni amministrative che di quelle politiche.
Ciò non toglie però che ogni risultato elettorale debba essere vagliato ed analizzato, anche per il poco che può rivelare dello stato di cose presenti. E, da questo punto di vista, l’ultima tornata elettorale, italiana ed europea, non presenta novità di poco conto… anzi.
Diciamolo subito: c’è poco da gioire per la vittoria di Hollande.
Un candidato anonimo che ha vinto più per l’insofferenza dei francesi nei confronti dell’ormai decotto duo Sarkò-Carlà che per i propri meriti personali.
Un candidato di “sinistra” che sotto il tavolo si prepara a far piedino alla solita cancelliera e che ha già dichiarato che “la TAV è essenziale per lo sviluppo e il rilancio dell’economia europea” ha ben poco di interessante da proporre a chi medita su come uscire positivamente, in termini di classe, dalla crisi attuale. Piace pure a Monti, e quindi alla Trilateral e a Goldman Sachs, che c’è da dire d’altro?
Sì, qualcos’altro da dire forse c’è, ovvero che lo striminzito 51,9% con cui Hollande ha battuto Sarkozy non a caso è stato sventolato come un trionfo non solo dal nostrano PD, ma da tutte le forze interessate a mantenere la dittatura bancaria europea sulla forza lavoro.
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