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Mazzucato e Jacobs, “Ripensare il capitalismo”

di Alessandro Visalli

000000000010 mtIl libro del 2016 a cura di Mariana Mazzucato e Michael Jacobs è certamente ambizioso ed ampio, coinvolge autori come Joseph Stiglitz, Colin Crouch, Randall Wray, Andrew Haldane, William Lazonick, e poi specialisti come Dimitri Zenghelis e Carlota Pérez, ma anche Stephany Griffith-Jones e Stephanie Kelton, otto uomini e cinque donne, considerando anche i coautori.

Malgrado questo apprezzabile esercizio di bilanciamento di genere (migliorabile), il libro è piuttosto disomogeneo, e in alcune affermazioni non pienamente condivisibile, almeno per me, in particolare l’ultimo saggio, di Carlota Perez, che mi pare un “Majone in salsa verde”, è del tutto non condivisibile, mostra molto bene come nel discorso del tecnologo ambientalista (anche se nel caso non californiano) sia ben incorporato lo spirito del tempo.

Lo scopo dichiarato dei curatori è di trovare una comprensione più chiara di come effettivamente “funziona il capitalismo” in aperta critica del mainstream neoclassico (anche se talvolta ci si scivola dietro). A questo fine già nell’introduzione si mette nella prospettiva aperta dalla crisi del 2008, come esito di un lungo processo nel quale sono crollati ovunque gli investimenti e si è registrata una bassa crescita della produttività, i mercati finanziari quindi hanno in quella circostanza contribuito ad allocare male le risorse, sbagliando valutazione di rischio. Dunque elementi caratteristici dei decenni antecedenti l’apertura della crisi sono che la distribuzione è diventata più sperequata, il mercato del lavoro più polarizzato ed insicuro, la quota complessiva di risorse distribuite tramite il lavoro sono calate.

Tutti questi fenomeni sono espressione per i curatori di difetti strutturali del capitalismo contemporaneo, non sono casuali e quindi riguardano anche la concezione di fondo alla quale si guarda ai fenomeni economici. In particolare gli autori criticheranno l’affidamento al libero mercato, e l’idea quindi che sia la concorrenza a produrre efficienza economica e quindi che possa massimizzare il benessere, in ultima analisi stimolando l’incremento della produttività e l’innovazione. L’evidenza empirica dice il contrario; questo modello concettuale semplice ed elegante non realizza una descrizione corretta ed accurata di ciò che avviene in realtà: i mercati non sono strutture semplici che si comportano nei modi illustrati nei manuali di economia e quelle che individuano come semplici “imperfezioni” sono basilari caratteristiche sistemiche. Questi modelli, con la loro autorevole matematica, dunque, sono inutili e fuorvianti, costruiti per favorire “i soggetti che rivestono posizioni di potere nell’economia” (un modo elegante per dire di un interesse di classe di chi detiene il controllo del capitale e dei relativi discorsi). Quel che vedono come astrazioni, “i mercati”, sono invece sistemi complessi e dinamici, saldamente radicati in società specifiche per comprendere i quali servono sia descrizioni più ricche, sia la comprensione che la creazione di valore è un processo collettivo e che quello di concorrenza è fuorviante.

Ma serve anche una diversa comprensione delle politiche pubbliche, che non sono “interventi sull’economia”, come se questa esistesse indipendentemente dalle istituzioni pubbliche e dalle condizioni sociali e ambientali in cui trovano luogo. Non si tratta affatto di “correggere” i fallimenti dei “mercati”, ma di “contribuire a creare e plasmare i mercati per giungere a una coproduzione, ad un’equa distribuzione, del valore economico” (p.39).

Qui, naturalmente, se qualcuno volesse capire meglio cosa è il “valore economico”, non troverebbe indicazioni (anche se Lazonick riferisce una parte della sua argomentazione a Marx, ma per farne un teorico dell’impresa innovativa). Non si può chiedere ad una tradizione, in fondo, di scavare troppo a fondo sotto le sue fondamenta (e l’accettazione del ‘valore’ come di ciò che appare tale è una di queste, al massimo, come fa Stiglitz si può usare la coppia reale/apparente per criticare gli eccessi speculativi della finanza). Questa linea raggiunge il suo acme nel pezzo della Perez, in cui la mondializzazione è vista come destino proprio per dispiegare la logica interna di “valorizzazione” (cioè accumulo di capitali concentrati dai vasti mercati bersaglio) della tecnica informatica, che tende al monopolio come unica possibile strategia di valorizzazione (essendo a costo marginale zero).

In particolare quando la Mazzucato e Jacobs sostengono che “la creazione di valore è un processo collettivo” e che bisogna giungere ad una “coproduzione del valore”, hanno a mente solo che il valore, come accumulo di segni di ricchezza in ultima analisi corrispondenti a beni e servizi concreti cui avere accesso, è in ultima analisi creato quando il pubblico, con le sue istituzioni di ricerca, formazione, ed i suoi investimenti infrastrutturali, interviene sistematicamente nella catena, combattendo la tendenza del capitalismo al breve termine ed alla valorizzazione nominale.

In questo senso, fondamentalmente keynesiano, va rivisto il capitalismo. Del resto se c’è un elemento in comune tra gli autori, oltre l’orientamento progressista, è il profilo accademico e di consulente di alto livello di istituzioni pubbliche e in alcuni casi di grandi aziende multinazionali, in particolare tecnologiche o finanziarie.

I diversi contributi affrontano in modo ampio, ed anche plurale, questi nodi. Comincia Stephanie Kelton (Università del Missouri, ex economista capo del Senato degli Stati Uniti e consulente economica della campagna di Bernie Sanders), che illustra le ragioni del fallimento dell’austerità come effetto di una teoria errata dei disavanzi di bilancio. Un approccio molto più utile, per comprendere il tema, è l’approccio dei saldi finanziari di Wynne Godley, fondati su una necessaria identità contabile tra i saldi (positivi o negativi) dei settori. Per cui se si calcolano i saldi complessivi di un sistema economico come somma a zero di saldi del settore pubblico, del settore privato e del settore estero si vede immediatamente una cosa che è nascosta sistematicamente dalle analisi disgiunte che sono normalmente propagandate: se un settore (ad esempio quello pubblico) si contrae deve crescere la somma degli altri due. Se il debito pubblico diminuisce deve aumentare quello privato o il saldo con l’estero (e quindi, al converso, il resto del mondo si deve contrarre).

Dunque la ragione per cui in America la crisi privata è stata stabilizzata è la spesa pubblica (che è esplosa fino all’11% sul Pil). Il Big Government ha impedito una nuova recessione. Oppure detto in altre parole il disavanzo pubblico, in gran misura automatico, ha fornito le attività che servivano per risanare il settore privato. Negli Stati Uniti, infatti, il terzo settore, quello estero, è andato ancora più in deficit, quindi ha contribuito in modo negativo ai saldi.

In sostanza la visione normale è “capovolta”: “i disavanzi pubblici sono un flusso di fondi che incrementano la consistenza delle attività finanziarie del settore privato”. Cioè, semplicemente ed ovviamente, approvvigionano qualche altro settore dell’economia. E non ha molto senso richiamarsi alla cosiddetta “equivalenza ricardiana” (rinnegata dallo stesso Ricardo), per sollevare l’obiezione che in questo modo la “fatina fiducia” (Krugman) si spaventa, mentre se si contraesse la spesa pubblica si incoraggerebbe. Questa idea (la cosiddetta “austerità espansiva” di Alesina) è completamente infondata, si spende oggi quando si pensa di avere una domanda, non quando si ha una indistinta fiducia in un prossimo futuro.

Certo spendere in disavanzo può far crescere il debito (che ha un costo in linea generale) o richiedere nuove tasse, che hanno un effetto depressivo (inferiore alla spesa, se ben disegnata), ma per l’autore ciò non è necessariamente vero. Ci tornerà sistematicamente Wray, ma chi può espandere la moneta ha altre soluzioni (salvo che nell’eurozona).

Con un richiamo ad Abba Lerner la Kelton conclude con una dura critica alla politica monetaria USA, che ha spinto la crescita aggregata, ma in modo altamente ineguale ed a prezzo di alti rischi (dato che si è scaricata, intenzionalmente, sui valori dei titoli finanziari).

Randall Wray (professore a Bard College ed esponente del MMT) firma un interessante saggio che prende l’avvio dalla dimensione dell’espansione monetaria a vario titolo garantita dalla crisi ad oggi dalla FED, si parla dell’incredibile somma di 27.800 Mld di dollari, oltre 4.500 ad oggi di acquisti di titoli tramite il QE. Contemporaneamente a questa immensa iniezione di sostegni al mercato privato di capitali sono state portate avanti politiche di austerità procicliche per la funzione pubblica. Queste sono state logicamente giustificate da una indebita assimilazione dello Stato alle imprese ed alle famiglie, le quali possono spendere solo ciò che contestualmente guadagnano, o che prendono in prestito. Questa idea si ancora alla vetusta concezione della moneta esogena, sulla quale Milton Friedman ancorò la sua teoria dell’inflazione (p.79). Questa teoria, che non è il caso di ripercorrere essendo più che nota (la moneta è una merce, prodotta esogenamente dallo Stato, che trova il suo valore nel riferimento alle altre e dunque è insidiata quando la sua offerta supera la domanda per effetto della ‘stampa’ da parte delle Banche Centrali) non si accorda con la realtà. Nella pratica la grandissima parte della moneta è ‘endogena’, cioè è in effetti creata legalmente in un rapporto di credito (e fondata sulla promessa di onorarla da parte del sistema bancario, sulla base del suo equilibrio complessivo e delle scritture contabili nelle quali si genera). La fiducia nel valore della moneta (elettronica) che deteniamo, ed il motivo per il quale tutti l’accettiamo, è per Wray che essa è accettata in pagamento delle tasse.

Tutto è imperniato nel rapporto tra banche centrali e banche commerciali (si può anche confrontare la ‘quarta lezione’ del libro di Cesaratto “Sei lezioni di economia”) e nel sistema delle “riserve”.

Ma il punto è che in effetti lo Stato non è soggetto a vincoli di bilancio (qui si apre la divergenza tra l’MMT e la scuola sraffiana di Cesaratto, si può leggere qui e qui la replica) in quanto il normale circuito che si immagina è rovesciato. Lo Stato non spende i soldi dopo aver incassato le tasse, ma incassa le tasse perché spende i soldi. Uno stato sovrano non può diventare insolvente nella sua valuta (mentre uno nell’eurozona, che non è più sovrano sotto questo profilo, lo può). Secondo le sue parole: “dato che lo Stato è l’unica fonte dei pagherò pubblici [il denaro a corso legale], ne consegue, per logica, che deve prima emetterli e poi riceverli” (p.83). Il ritorno compensa il debito che si era aperto con l’emissione.

Allentando i motivi di polemica, Wray chiarisce subito che questo non significa che uno Stato sovrano più spendere senza limiti, o meglio, che dovrebbe farlo. Perché in effetti se si esagera nel rapporto con le “risorse reali”, cioè “i governi devono far i conti con vincoli legati alle risorse reali”, in altre parole “spendere più dell’output gap può condurre all’inflazione” (differenza tra prodotto interno lordo effettivo e potenziale). Quando la domanda aggregata (che la spesa pubblica espande) supera l’offerta aggregata (la capacità produttiva dell’economia), in condizioni evidentemente di pieno impiego dei fattori, può generarsi inflazione. O più specificamente spendere per acquistare risorse specifiche che sono già pienamente utilizzate dal settore privato induce una pressione all’aumento dei prezzi di quelle risorse. Dunque, e questo va tenuto presente, l’inflazione è specifica e viene generata da un eccesso di spesa, non di moneta. Il modo in cui la spesa è finanziata non rileva differenza specifica.

In sostanza per la MMT “una volta messa da parte la teoria quantitativa della moneta, la quantità di moneta nell’economia [ossessione della scuola monetarista di Milton Friedman] diventa una variabile relativamente trascurabile: la cosa che conta è il livello totale della domanda aggregata, e questo non è determinato dalla quantità di moneta, ma è più che altro una conseguenza della decisione di prestare per finanziare la spesa desiderata” (p.92).

Ora, per la zona euro, detto che il QE della BCE, come tutti, può fare relativamente poco e spinge verso l’alto solo le attività del 5% delle famiglie, provocando una tendenza distorsiva a lungo termine pericolosa (creazione di bolle sui titoli-bersaglio), si vedono al massimo grado gli effetti negativi della teoria ortodossa della moneta sulla quale è stata interamente disegnata. Dopo la crisi del 2008 il deficit pubblico è esploso automaticamente per effetto degli stabilizzatori e della contrazione del Pil, dunque del rimborso del debito per via delle tasse, ed è stato esasperato dalla tendenza difensiva delle famiglie di ridurre le spese sia per effetto dell’alto livello di indebitamento, sia come misura prudenziale data la crisi.

Nella zona euro, ad una contrazione del settore privato (ricordando la lezione dei saldi settoriali) non ha fatto da contraltare né una sufficiente espansione delle esportazioni (salvo che per la Germania ed alcuni altri), né una espansione del settore pubblico, che anzi si è contratto per effetto dei vincoli europei. In conseguenza si sono contratti i prezzi ed il disavanzo è aumentato.

In assenza di meccanismi automatici di redistribuzione tra gli Stati, come ci sono nelle federazioni (ad esempio in USA), ogni intervento è stato duramente negoziato, mentre i mercati inchiodano tutti alle politiche di austerità per effetto della programmata mancanza di una valuta nazionale e della relativa potestà di battere moneta. La neutralizzazione della funzione di “compratore di ultima istanza” (in Italia antecedente e avvenuta in occasione della famosa “lite delle comari”), per garantire la cosiddetta “disciplina di bilancio”, induce a questa situazione.

Andrew Haldane (economista capo della Bank of England) si concentra su una acuta e informata critica della propensione al “breve termine” degli operatori economici ed il suo impatto su tassi ed investimenti, come le implicazioni sulla politica economica. E quindi sugli interventi necessari per aumentale la trasparenza, modificare la struttura dei contratti e la governance e ridisegnare la tassazione ed i sussidi (p.121).

William Lazonick (professore all’Università del Massachusetts) sottolinea come gli economisti, per quel che studiano (e non studiano) sono “molto male attrezzati per comprendere le relazioni tra l’allocazione delle risorse, la crescita della produttività e la ridistribuzione del reddito”. Essi sviluppano una vera e propria “incapacità addestrata” a comprendere che sono le organizzazioni e non i mercati che investono le risorse che a loro volta generano la produttività.

Gli economisti, in effetti, non capiscono i mercati. In particolare non capiscono che lo scambio di mercato, in sé e per sé, non accresce la produttività (come dicevano sia Marx e sia Schumpeter, per Lazonick). In realtà la “teoria della concorrenza perfetta”, che è il cardine della posizione neoclassica, è una vera e propria teoria dell’impresa improduttiva e stagnante. L’idea centrale è che nella concorrenza “perfetta” tutte le imprese sono tanto piccole da vendere sempre l’intero prodotto senza poter influenzare i prezzi, parimenti possono acquistare tutti fattori al minimo prezzo senza influenzarne il relativo mercato. Sulla base di una dimostrazione per opposti, si dice, se c’è il monopolio si massimizza il profitto ad un livello produttivo inferiore, e ad un prezzo superiore. Dunque c’è meno valore collettivo.

La dimostrazione di questa necessità poggia, nei manuali, su assunti “piuttosto strampalati” (p.133) e lontani dalla pratica. In effetti inserendo innovazione e investimento tecnologico si vede come ciò non sia necessario: l’innovazione è un processo collettivo, cumulativo e incerto, dunque è ostile al breve termine di una impresa puramente ottimizzante, ovvero all’impresa della teoria neoclassica.

Mariana Mazzuccato (di cui abbiamo letto il libro “Lo stato innovatore”) ripercorre i temi del suo famoso libro, sostenendo l’utilità di guardare all’economia facendo uso di modelli evolutivi e schumpeteriani, incentrati sugli effetti disequilibranti dell’innovazione. Si tratta di “un insieme di anelli di retroazione tra mercati e tecnologia, applicazioni e scienza, politica economica e investimenti”. Un tipo di economia che dipende dal percorso (path dependent) che tende a procedere ad ondate, come la tecnologia.

In questa direzione il ruolo del pubblico non è affatto di aggiustare i mercati, ma di crearli e lo Stato diventa l’attore chiave insieme ai suoi “capitali pazienti” (p.185).

Joseph Stiglitz critica le due idee interconnesse che “la marea solleva tutte le barche” e che basti mettere le risorse in alto (come fa il QE della BCE e della FED) perché scivolino in basso. In effetti l’esperienza mostra che al massimo ciò solleva gli Yacht (p.219).

La disuguaglianza (cui dedica il libro, che qui ripercorre “Il prezzo della disuguaglianza”, nel 2013) è, invece, generata dalla ricerca della ‘rendita’, che induce una concentrazione delle risorse senza incremento della capacità produttive dell’economia, cioè del “capitale produttivo ‘reale’”.

Colin Crouch, invece, ripercorre i temi della sua trilogia (in particolare “Il potere dei giganti”) individuando una sorta di neoliberismo delle corporation, il cui scopo è depoliticizzare l’economia e garantire il trasferimento senza filtri delle risorse economiche in politiche, facendo presente quel che altrove ha chiamato “postdemocrazia”.

Da ultimi vengono due interventi sulla rivoluzione verde di due importanti tecnocrati, entrambi attivi alla London School of Economics: Dimitri Zenghelis (coautore del Rapporto Stern, e consulente Cisco), e Carlota Perez (anche direttrice dello sviluppo tecnologico per il governo venezuelano, suo paese di nascita, e consulente di Ibm, Cisco, Pdsva, l’Ocse, la BM, e la UE).

Il primo si limita ad evidenziare come il cambiamento climatico sia in effetti una sfida per il capitalismo e che bisogna con la necessaria velocità procedere verso una totale decarbonizzazione (la tesi del Rapporto Stern era che le alternative sono alla fine più costose), malgrado la dipendenza dell’innovazione dal percorso seguito richieda grandi sforzi per modificarlo.

La Carlota Perez sottolinea come le nuove tecnologie informatiche possano ridurre il contenuto energetico anche se in questa fase stiano operando in direzione del disaccoppiamento tra settore finanziario ed “economia produttiva”. Sulla base di un’esplicita interpretazione ciclica (Kondrate’v e Schumpeter, che abbiamo già visto diffusamente descritta nel libro, di completamente diverso orientamento culturale e politico di Paul Mason “Postcapitalismo”) dello sviluppo tecnologico e del sistema economico, la Perez giudica il pessimismo che contraddistingue il nostro tempo come tipico momento di fase. Secondo la sua ricostruzione ci sono state nel tempo cinque rivoluzioni tecnologiche che hanno riprodotto in tutti casi delle fasi ricorrenti. In questa, avviata nel 1971 e contraddistinta nella fase di prosperità finanziaria ed “installazione” (della tecnologia) dalla “internet mania”, si è giunti al punto di passaggio della crisi e recessione (le altre 1793-7, 1848-50, 1890-95, 1929-33) cui seguirà, conformemente agli altri casi storici, una fase di espansione, per la verità negli altri casi non lunga (sempre di una ventina di anni). Queste semplificazioni sono sempre in qualche misura delle forzature (abbiamo visto anche quelle, significativamente diverse perché il focus è sul potere egemonico e l’orizzonte è più geopolitico che economico, di Arrighi-Wallerstein), ma sulla base degli studi di Chris Freeman e Giovanni Dosi (entrambi dell’Università del Sussex) viene sottolineato come i pacchetti tecnologici di volta in volta introdotti si portano dietro un’intera serie di innovazioni, industrie e infrastrutture tutte reciprocamente collegate, i cui potenziali di incremento della produttività le rendono rivoluzionarie. L’introduzione trasforma, infatti, i costi di produzione relativi nella maggior parte dei settori, ed introducono nuovi fattori produttivi capaci di fare la differenza (acciaio nella terza rivoluzione industriale, petrolio nella quarta e microelettronica in questa) liberando un potenziale di innovazione che si scarica in nuovi prodotti connessi. Le nuove infrastrutture che servono al dispiegarsi della tecnologia installata consentono una penetrazione più ampia e profonda del mercato a costi decrescenti. Si tratta, dunque, di “ondate di mercatizzazione”.

Nessuna parte del discorso della Carlota Perez lascia intravedere una qualche problematicità di quello che vede come un necessario e autonomo progresso (del resto quello tecnologico è il paradigma stesso del progresso nella nostra cultura), anche se è uno “sconvolgimento”. Si tratta sempre di passare da un mondo del prima fatto di carta, cartone, cavalli, biciclette, treni e tranvie, città e campagna, ad un mondo (è la penultima trasformazione) di meccanizzazione, fertilizzanti, plastica, consumo di massa, mobilità e diffusione degli stili di vita urbani. La turbolenza di passaggio (che come nel modello di Arrighi si estende all’intera finanziarizzazione che ne è immagine) è quindi un’espressione della “distruzione creatrice” schumpeteriana durante la quale si sovrainveste nelle nuove tecnologie. Questa fase di installazione comporta anche “drammatici processi di sconvolgimenti e adattamenti sociali. La diffusione del nuovo paradigma conduce ad una sostituzione su larga scala delle vecchie competenze e a una polarizzazione tra settori, regioni e redditi vecchi e nuovi” (p.315). Dunque si ottiene anche una polarizzazione geografica nuova (come mostra bene Moretti, che segue l’innovazione facendosi guidare, appunto come la Perez, dalla capacità di attrazione dei capitali e di efficacia estrattiva). La grande bolla in cui la deriva speculativa del capitale mobile porta termina in un crac come è sempre avvenuto (anni novanta del settecento, quaranta dell’ottocento, novanta del novecento, e venti del novecento) dopo il quale la crescita economica va reindirizzata. Il meccanismo post crisi, nel quale abbiamo sempre avuto grandi mobilitazioni sociali a fare da pungolo al cambiamento, cosa che è posta sotto silenzio dalla Perez, mentre è al centro dell’attenzione di Mason (il luddismo alla fine del settecento, il ’48 in tutta Europa e il socialismo nella fine dell’ottocento, i fascismi come rivoluzione passiva e i grandi movimenti degli anni trenta nel novecento), è descritto così: “il crac mette a nudo i meccanismi del casinò finanziario e questo, insieme alla disoccupazione e alla disuguaglianza di reddito che regolarmente vi si accompagnano, storicamente crea le condizioni politiche per mettere in moto una seconda fase, quella dello sviluppo, caratterizzata da una crescita più armonica di quella che si osserva durante i boom con relativa bolla. Ma prima che ciò possa avvenire, normalmente si ha una regolamentazione e un riorientamento della finanza, per fare in modo che essa torni a servire l’economia produttiva. Subito dopo il crac, gli investitori privati diventano avversi al rischio e non sono pronti a finanziare l’espansione. Storicamente, quindi, è lo Stato che interviene per giocare un ruolo attivo in favore degli investimenti e della crescita dopo un grande tracollo” (p.316).

Dunque i policymakers (cui è rivolto il suo pensiero) devono scegliere, sapendo che la direzione non è predeterminata dai mercati o dalle tecnologie stesse, ma è una combinazione di più fattori: “la costellazione di beni e servizi che influenzano lo stile di vita resa possibile dalle nuove tecnologie; la capacità degli investitori, degli imprenditori e dei governi di riconoscere le potenzialità di questi prodotti; le ideologie politiche di quelli che hanno il potere di influenzare il loro dispiegamento; il contesto storico-sociale in cui emergono”. In questo elenco manca del tutto il soggetto della volontà popolare, delle lotte di emancipazione e di resistenza, della capacità di autorganizzazione che è così presente ed enfatizzata in Arrighi e Mason.

Insomma, si tratta, a tutta evidenza, di una versione tecnocratica della teoria della evoluzione delle piattaforme produttive del capitalismo (sul quale rimando tra i tanti a questo post).

È, infatti, per l’autore tutto letto dall’alto al basso, è il modello del “vivere bene” che si diffonde nelle élite (ad esempio quello californiano) che “influenza i modelli di consumo e i desideri della maggioranza delle persone, e crea mercati sicuri ed in espansione, guidando le traiettorie dell’innovazione”. Questo richiede “idee audaci”, come quelle di Keynes, Rosevelt e Beveridge. In questo modo, con buona pace per Stiglitz, la rivoluzione nel suo dispiegarsi finalmente “libererà l’enorme potenziale disponibile lungo un percorso di crescita in grado di ‘sollevare tutte le barche’” (p.321).

Chiaramente questo sogno pacificante, regalato dall’alto da una élite illuminata, è questa volta “verde” e trasforma gli ostacoli in soluzioni. Si tratta di sviluppare sistemi di controllo intelligente per qualsiasi cosa, monitoraggio, estrazione e irrigazione, lavorazione, smistamento e distribuzione, potenziare le capacità organizzative, sviluppare una nuova serie infinita di mercati di nicchia e personalizzati, ipersegmentando tutti i mercati e garantendo l’accesso a tutti (dunque tutti mettendo in concorrenza e controllando in una sola mossa).

Questo sogno in un mondo senza potere dell’economia neoclassica, e forse incubo nel mondo reale in cui la disuguaglianza, lo sfruttamento e il controllo gerarchico sono installati nel codice della società, è presentato dalla Perez come puramente progressivo. Lo vedremo anche dalla lettura di Parag Khanna, come lo abbiamo visto tante volte (cfr ad esempio questo riepilogo), la globalizzazione è qui vista come stretta necessità economica e come orizzonte di crescita della stessa umanità. Qui vediamo in controluce la meccanica mostrata da Moretti, in cui le aziende capaci di imporre un prodotto distintivo in esclusiva (cioè di godere di un sia pure temporaneo monopolio, unico modo di estrarre valore all’epoca della completa riproducibilità tecnica, ovvero del paradigma software, come mostra Mason) e per questo “innovative” estraggono un valore e lo concentrano in pochi luoghi iperdensi, a danno del resto del paese, che si dirada. Per la Perez, infatti, la globalizzazione si impone come “necessità economica” precisamente perché “il potenziale insito nel paradigma attuale possa trovare piena realizzazione in questo periodo di dispiegamento, c’è bisogno di una domanda su scala mondiale” (p.328).

Cioè, “in termini economici, qualsiasi nuova ‘direzione’ può sperare di avere successo solo con un volume di domanda adeguato”.

Appunto, “in termini economici”, cioè dal punto di vista incorporato in aziende come Cisco, o come Apple, Facebook, Google, Amazon, che sono state capaci, grazie alla immensa capacità di attrarre capitale mobile (o “fittizio”) promettendo valorizzazione futura, di guadagnare una posizione di monopolio nel loro segmento di mercato. Queste hanno bisogno di un mercato globale dal quale estrarre il valore, perché in caso non sia così sorgerebbero concorrenti e sarebbero costrette a ridurre i margini indecenti con i quali vendono i loro prodotti, rinunciando alla promessa che gli ha consentito in pratica di disporre di risorse illimitate. Il “potenziale insito nel paradigma attuale” è in altre parole l’ipercontrollo privato da parte di un pugno di aziende apolidi.

Nel mondo senza conflitti, e diretto dall’alto, della Perez, questo potrebbe apparire senza alternativa, e non ho dubbio alcuno che in perfetta buona fede l’economista consulente di tante importanti istituzioni (ed anche di governi di sinistra come quello venezuelano), come di imprese la veda così, un vantaggio per tutti. Per lei, come si legge nel grafico 2 a pag. 330, l’estensione della logica di mercato tramite il pieno accesso a milioni di persone “all’interno di modelli di produzione e consumo sostenibili è l’equivalente della nascita dello stato sociale, della ricostruzione del dopoguerra e degli appalti pubblici in termini di creazione della domanda”. Cioè è la crescita delle classi medie a livello mondiale (a spese di quelle dei paesi ricchi, come è noto e ovvio, a causa della messa in contatto), e quella dei ricchi che compenserà “ampiamente” il declino delle vendite di prodotti usa e getta, creando un settore del noleggio, e mercati di seconda e terza mano, via via a minor valore aggiunto e produttività, insieme alla crescita delle attività di smontaggio, rigenerazione, riciclaggio e riuso, grazie alla Iot e la stampa additiva. Questo è il modello per il quale è immaginato il nuovo lavoro. In occidente queste attività a bassa produttività, evidentemente a basso o bassissimo reddito (vedremo, infatti, che è indispensabile un reddito di base secondo lei), saranno l’orizzonte per gli ex operai o impiegati nel terziario disintermediati dalle piattaforme tecnologiche, mentre per i “laureati” ci sarà la progettazione.

Insomma, a Cisco e compagni i mercati mondiali per estrarre e concentrare il valore, fornendo l’infrastruttura di controllo alla cui manutenzione saranno dediti miliardi di lavoratori poveri, minuziosamente controllati (i sensori della Iot lavorano in entrambe le direzioni).

Questa sarebbe la “missione verde”.

Naturalmente ciò significherà anche “un cambiamento continuo, flessibilità e adattabilità” (p.334), in un “mondo di produzione flessibile e globalizzato, ad alta intensità di informazione” che ci può portare ad “un’età dell’oro mondiale sostenibile in grado di ‘sollevare tutte le barche’” (lo ha riscritto). E non significherà per l’autore tornare alle burocrazie centralizzate degli anni cinquanta e sessanta (quando, a tutte evidenza, questi dispositivi informativi garantiscono livelli di centralizzazione e controllo mai raggiunti, ma a vantaggio dei loro possessori privati).

Bisognerà affidarsi al capitalismo, “che può trasformare in un bene i mali più devastanti”, e quindi:

-        Non tassare il lavoro ma l’energia e i materiali (si può fare appunto grazie alla immane centralizzazione dell’informazione che la diffusione della Iot può garantire);

-        Introdurre regole per l’economia circolare;

-        Ridisegnare i parametri di registrazione della ricchezza oltre il Pil;

-        Facilitare l’economia della condivisione e della collaborazione;

-        Fare passi avanti verso una qualche forma di reddito di base, che è la piattaforma indispensabile per trasformare il modello del vivere bene dal possesso all’esperienza comunitaria e di condivisione;

A parte l’ultimo punto, su cui prediligerei una politica attiva del lavoro (cfr questo post) sono d’accordo su tutto. Ma proprio quel punto mostra molto chiaramente l’idea implicita di economia fortemente duale cui l’autrice guarda. Un mondo dominato in un unico mercato mondiale, da poche aziende che ne “hanno bisogno”, in cui alcuni progettano, molti vivono di microgestione e gli altri stanno fuori, sovvenzionati in modo da poter comprare almeno qualche servizio dalle prime.

Chiaramente in un mondo simile la democrazia è di troppo, almeno per come la conosciamo.

Ci sono altri punti:

-        Fornire qualificazione e formazione a livello globale (tramite Mooc e altre piattaforme);

-        Sostenere lo sviluppo dei paesi in ritardo;

-        Riorientare la finanza;

E poi si arriva alla piattaforma politica:

-        Modernizzare lo Stato, abbandonando il modello di organizzazione gerarchica, e guarantendo creatività, agilità e flessibilità;

-        Costruire il consenso, lavorando con le imprese e la società civile (cioè codeterminando le politiche tramite meccanismi pattizi e non politici);

-        Devolvere i poteri nazionali, in favore di entità sovranazionali e verso il basso, dato che la globalizzazione ha lasciato enormi spazi di elusione.

Insomma, per la Perez “c’è bisogno di un ripensamento approfondito, di un’intensa opera di costruzione del consenso, di negoziati globali e di una partnership determinata”.

Sembra un Majone (“Lo stato regolatore”) in salsa verde diciassette anni dopo. 

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