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Francois Mitterrand e le svolte degli anni ottanta

di Alessandro Visalli

friends across waterSu Jacobin un vecchio articolo del 2015 di Jonah Birch “Le molte vite di Francois Miterrand”, rilanciato dalla traduzione di Voci dall’Estero, e citato anche nelle “Sei lezioni” di Sergio Cesaratto (un libro da non perdere), consente di riprendere la lettura di uno snodo essenziale della storia del novecento: la repentina svolta verso il liberismo dei governi francese, nel 1982-3, e inglesi già nel 1976.

Barba e Pivetti, nel loro “La scomparsa della sinistra in Europa”, sottolineano in proposito che “le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti” (Marx). E’ sicuramente giusto, ma la massima è bifronte: le idee dominanti sono quelle che si qualificano come moderne, potenti e giuste al contempo, e che si affermano insieme alla classe che le incarna meglio. Un cambiamento di idee è anche un cambiamento del dominio di una classe, o per meglio dire della creazione del dominio. Ciò che avviene in Francia e Inghilterra è quindi una scelta della classe dominante, prima ancora che delle sue idee.

Con questo cambio di orientamento da una, sia pure parziale, egemonia delle forze del lavoro e quindi della visione, oltre che degli interessi, dei ceti produttivi allargati si passa al dominio del capitale e della sua logica e quindi della visione, oltre che degli interessi, dei rentier e dei ceti speculativi. Un passaggio che si verifica in particolare nel decennio che va dal 1975 al 1985, anche se si dispiega più compiutamente in quello successivo.

Per avere qualche confronto, una tempestiva presa di coscienza di questo cambiamento è nel prezioso libricino di Leonardo Paggi e Massimo d’Angelillo “I comunisti italiani e il riformismo”, edito da Einaudi nel 1986, o in alcuni interventi di economisti critici come Federico Caffè (ad esempio questo), ma potrebbe essere ricordata anche la riflessione retrospettiva dell’anziano Bruno Trentin in “La città del lavoro”, del 1994. Per quanto riguarda il punto di svolta in Italia, rappresentato dal biennio 1976-78 con la vicenda del “compromesso storico” ed i suoi esiti, con la finale offerta di sacrifici “senza contropartite”, ne abbiamo parlato qui.

Ma vediamo prima ciò che accade in quegli anni cruciali in Inghilterra: Challagan nel 1976, ben prima della Thatcher, si trova a confrontarsi con quella inflazione galoppante e mondiale che è il sintomo di molti mali e viene trainato dal raddoppio del prezzo del greggio nel biennio 1973-74 (Guerra del Kippur e formazione del cartello dei produttori) e con le conseguenze della tempesta avviata quasi dieci anni prima dalle conseguenze dello squilibrio commerciale e finanziario americano, esposto per 70 miliardi (una delle ricostruzioni migliori delle conseguenze in Amato e Fantacci “Fine della finanza”). La sospensione della convertibilità del dollaro in oro, pilastro del sistema di Bretton Woods, apre quindi la guerra delle valute e delle reciproche svalutazioni competitive. L’oro arriva in poco tempo a moltiplicare per dodici il suo valore e il dollaro perde il 30% sul Marco e il 20% sullo Yen, il petrolio sale di dieci volte in otto anni (da 3$ nel 1971 a 30$ nel 1979), ma non solo, la bauxite del 165%, il piombo del 170%, lo stagno del 220%, l’argento di dieci volte. Questo aumento delle materie prime, in termini del potere di acquisto delle monete e in termini reali (per effetto di mutati rapporti di forza e anche della decolonizzazione che aveva preso tutto il ventennio precedente) porta un aumento dei costi di produzione, dell’inflazione e quindi anche della disoccupazione. Agisce, cioè, come potente motore di ridisciplinamento; contribuisce anche la politica monetaria imposta, come surrogato di altri mezzi di offesa, da Volcker a partire dal 1978 (viene nominato da Carter) il quale avvia coscientemente “una disintegrazione controllata nell’economia mondiale”, come dirà, innalzando i tassi della FED e lavorando per contenere i costi della manodopera.

Challagan sceglie di ascoltare chi indica la necessità di lasciare i vecchi obiettivi di politica economica e sociale, imperniati sulla piena occupazione e la giustizia sociale, per concentrarsi invece sulla lotta alla inflazione che presuppone l’abbandono della logica keynesiana. Nello scontro culturale che seguì con l’ala sinistra del Partito Laburista (rappresentata dall’indimenticato Tony Benn) una “Alternative Strategy” fatta di controllo delle importazioni per dare il tempo ad appropriate politiche industriali di condurre alla trasformazione della struttura produttiva, riducendo l’enorme deficit commerciale del paese, perde e viene accantonata in favore di un approccio deflazionario che abbandona le classi lavoratrici al loro destino. L’esito sarà, nel “Winter of discontent” della base elettorale del partito, quindi il disastro del 1979 e la vittoria della Thatcher.

Era partita la corsa alla sostituzione della classe con l’individuo e all’indebolimento del potere contrattuale del lavoro, in primis di quello dipendente.

Poco prima, nel 1973, si era avuto sia la feroce repressione degli esperimenti cileni (il cui impatto, quale monito, fu rilevante almeno in Italia) sia la repentina caduta nel 1974 del governo socialdemocratico di impronta keynesiana di Willy Brandt in Germania e la sua sostituzione con il più “Atlantico” governo di Schmidt. In Italia i tentativi del PCI di avvicinarsi alle componenti “più progressiste” della Democrazia Cristiana, e di accreditarsi come forza responsabile, incontrano la dura opposizione di La Malfa e Guido Carli, che negoziano un prestito al FMI per indurre un vincolo esterno, rappresentato dalla “Lettera di impegni” che obbligava a politiche fortemente deflattive. Le pressioni economiche indotte dall’esterno sono utili ad impedire ogni politica di redistribuzione, di espansione e piena occupazione, che dal punto di vista dell’establishment economico-politico al governo sarebbe solo utile a spingere ulteriormente i prezzi, quindi ridurre i profitti e dunque accumulazione del capitale e quindi investimenti. A seguito di questa strategia il PCI fu messo davanti al fatto compiuto; nella visita in USA il 6 e 7 dicembre 1976, Andreotti mette sul tavolo del FMI e del Tesoro un denso documento preconcordato di 54 pagine (oggi nell’Archivio Andreotti) che articola una politica di “risanamento” fortemente basata su incremento della tassazione e contenimento delle pressioni sociali e sindacali. La manovra mette i comunisti nelle condizioni di dover accettare “sacrifici senza contropartite”, seguirà “l’affare Moro” e quindi l’adesione allo SME.

Pochi anni dopo Francois Mitterrand vince le elezioni in Francia nel 1981, realizzando una doppietta clamorosa (Presidenza e controllo dell’Assemblea Nazionale), con un programma “110 proposte per la Francia” radicale e coraggioso. L’obiettivo dichiarato era la “rottura” e l’apertura di una “via francese al socialismo”. Appena dieci anni prima il Partito Socialista francese aveva, nel Congresso di Epinay, fuso le diverse correnti della sinistra non comunista e Mitterrand si era trovato a mutare le proprie posizioni da moderate a radicali. Un radicalismo che si imperniava sulla proposta di “riforme strutturali” di rottura con l’ordine stabilito per fondare una nuova società socialista. Questi toni sono l’effetto del clima sociale e politico e della necessità di competere con il forte Partito Comunista Francese (PCF) che era la forza egemonica della sinistra.

In tutta la sinistra europea negli anni sessanta e primi settanta, del resto, le socialdemocrazie si stavano radicalizzando sotto la spinta delle crisi economiche connesse con le dinamiche prima ricordate (ne è espressione ad esempio Willy Brandt in Germania, che sale nel 1966 e si dimette nel 1974). Il clima anche in Francia, all’avvio degli anni ottanta, vedeva crescere la disoccupazione, l’inflazione e soffrire il mondo della produzione. Grandi gruppi industriali erano in difficoltà e soffrivano sempre più la competizione (all’epoca in particolare tedesca, giapponese e americana). Ad esempio la vicina Germania, con Schmidt aveva abbandonato le politiche keynesiane del suo predecessore e stava spingendo su un modello esteroflesso che non ha più abbandonato (cfr. la lettura di d’Angelillo). Inoltre già dal 1974 i governi della Germania, Francia (guidata dalla destra), Gran Bretagna e USA, nei “Quadripartite meetings” erano impegnati a definire lo schema dell’austerità e della governance internazionale (G6) per disciplinare il sud Europa (Portogallo, Spagna, Italia), e soprattutto era stato approvato, su forte spinta tedesca, nel 1978 lo SME (Andreotti, ad esempio dirà in Parlamento di aver avuto telefonate con il Cancelliere Tedesco e il Presidente Francese che spingevano per la pronta ratifica, malgrado le perplessità di molti, ad esempio di Eugenio Scalfari, e la posizione contraria del PCI, che rompe anche su questo il “compromesso storico”). Prende quindi l’esordio in forma molto più forte per i paesi europei il “vincolo esterno”. Lo SME è comunque un salto di qualità nelle politiche di integrazione europee, e si innesta in modo perfetto nella logica tedesca della moneta forte e delle esportazioni prioritarie (dato che ostacola le svalutazioni altrui). Prefigura anche, nelle intenzioni di alcuni, una competizione con il dollaro come moneta di riserva (“l’Esorbitante privilegio”, come lo aveva chiamato Giscar D’Estaing) per la quale serviva una base territoriale molto più grande, che solo l’Europa poteva garantire.

La situazione in Francia vede in questi anni la disoccupazione in costante aumento, dal 6,3% era salita al 7% in solo un anno tra il 1979 ed il 1980; ma anche l’inflazione era salita al 12%; gli investimenti e produttività erano stagnanti; infine il deficit commerciale era salito ad un livello insostenibile mettendo sotto pressione la moneta.

Questo contesto è preso inizialmente di petto dal nuovo Presidente francese, che propone un drastico programma di nazionalizzazioni delle industrie in difficoltà. Si tratta di una manovra ambigua e non ancora “di rottura” con gli ambienti del capitalismo francese, le nazionalizzazioni sono infatti per lo più ben viste dalla parte imprenditoriale, in quanto indennizzano a valore di mercato industrie a forte rischio di fallimento e dai sindacati in quanto salvano i posti di lavoro. si tratta, inoltre, di una politica abbastanza tradizionale: già dal 1946 era attiva una Commissione di Pianificazione ed erano elaborati Piani Quinquennali, nel 1980 già la metà del credito era controllato dal pubblico. Si tratta quindi dell’estensione di una tradizione dirigista molto radicata nel modello francese.

Una politica dunque tradizionale e condotta dal governo con l’idea che la crisi fosse sostanzialmente congiunturale anche se avviata nel 1971, e dunque già con un decennio di corso e con i suoi molteplici effetti a catena.

Ma in realtà questo programma normalmente keynesiano cade in un momento in cui sia in America, come in Gran Bretagna e in Germania il capitalismo stava svoltando la pagina.

Nella crescente ostilità della parte dell’opinione pubblica influenzata dagli ambienti imprenditoriali e finanziari, Mitterrand si trovò allora ad incontrare i limiti accuratamente progettati dai “Quadripartite Meetings” e dallo SME. In particolare l’impossibilità di accompagnare la politica industriale e fiscale con quella monetaria (agganciata al Marco, quindi eterodiretta dalla molto più potente Bundesbank) mise il governo di fronte alla scelta se rompere il processo di unificazione europeo, di cui lo schema monetario era cardine, o “costruire la giustizia sociale”. Per come la mette Mitterrand si trattava della scelta tra “due ambizioni”.

Nel 1982-3 il Presidente sceglie il rigore e le politiche deflazionarie, abbandonando quindi il tentativo di reflazionare il sistema e sostenere l’occupazione. Nel 1983 il Fronte Nazionale di Jean-Marie Le Pen raggiunge il suo primo successo elettorale a Dreux e l’anno successivo avanza nelle europee.

L’obiettivo del programma comune delle sinistre di “spezzare il dominio del grande capitale e attuare una nuova politica economica e sociale” è quindi abbandonato. Anche la Francia, come l’America e la Germania, optano per il pacchetto di politiche rivolte a rafforzare la moneta, il cosiddetto “Franco forte”, passando per una diretta ed intenzionale contrazione dei consumi (dato che i francesi consumavano prodotti energetici e merci estere più di quanto ne producessero per l’estero), ovvero per la riduzione del potere di acquisto della gran parte della popolazione. La riduzione, in altre parole, del tenore di vita come politica espressa per competere sulla scena internazionale.

Una delle cause di questa svolta fu la percezione di essere messi con le spalle al muro dalla fuga, massiccia e crescente, dei capitali francesi all’estero. Una fuga che fu anche preventiva, la sola vittoria costò circa 5 miliardi di dollari (cifra che va moltiplicata almeno per quattro per avere un’idea dell’impatto) e che costrinse Mitterrand a rassicurare la confindustria francese specificando che il suo era un programma riformista e non rivoluzionario: sulla strada, insomma, della tradizionale economia mista.

Ma la rassicurazione non funzionò mai, gli investimenti privati non tornarono e i capitali continuarono a fuggire. Non si trattava solo di fuga degli investitori e dei capitali mobili, durante il biennio del governo delle sinistre le varie corporazioni di volta in volta danneggiate si rivoltarono: i piccoli imprenditori, i camionisti (per i dazi che riducevano le importazioni), gli agricoltori (potenti in Francia sin dal tempo della rivoluzione, e preoccupati per l’afflusso di prodotti agricoli, ovvero per le importazioni), i cattolici (che temevano l’insorgere di un sistema di istruzione laico), ecc…

Tutto sommato proteste normali, ed alcune anche di segno opposto, ma la cosa grave è che il governo non riuscì né a fermare l’inflazione (dato che rinnegava le politiche a tal fine portate avanti dagli altri paesi industriali), né a ridurre la crescita del deficit della bilancia commerciale, che anzi aumentò da 56 a 93 miliardi di Franchi in un solo anno. Si trattava in sostanza di effetti dell’aumento della capacità di spesa delle famiglie e dei pensionati (i secondi videro aumentare la percentuale dell’ultimo salario con il quale andavano in pensione, fino al 100%, e videro scendere l’età pensionabile da 66 a 60 anni ed aumentare la pensione minima; le prime videro crescere del 25% gli assegni familiari, aumentare il salario minimo del 40%, e la crescita mediana degli stipendi, insieme alla riduzione a 39 ore della settimana lavorativa e l’aumento delle ferie pagate), ma esso si era riversato nelle più competitive merci estere. Le automobili straniere aumentarono del 40% e gli apparecchi elettrici del 27%.

L’inflazione si attestò al 12,6% (era di poco sotto in Italia e al 5% in Germania, del 9% negli USA ed era più o meno nella media mondiale) ma soprattutto continuava a crescere. Costretto nella camicia di forza dello SME il governo ripetutamente, una prima volta nell’ottobre 1981, negoziò una nuova parità, svalutando, e di nuovo nel giugno 1982. Ma malgrado queste azioni di riassetto, senza poter imporre efficaci controlli sui capitali e senza riserve, non sembravano esserci opzioni.

La seconda svalutazione, che abbassava il tenore di vita e rendeva più difficile comprare i prodotti intermedi necessari all’industria francese, spingendo quindi l’inflazione importata attraverso le materie prime necessarie (ma attenuando quella autoctona), fu accompagnata da un primo assaggio di austerità compensativa: il congelamento di salari e prezzi per quattro mesi e il tetto al deficit pubblico con contenimento della relativa spesa.

Da questo momento in poi le politiche reflazionistiche incontrano crescente difficoltà nel governo e si apre lo scontro tra Jean-Pierre Chevènement da una parte, che voleva continuarle e proponeva di uscire dallo SME per liberarsi dei vincoli della grande finanza e il Ministro delle Finanze, Jacques Delors, e il Ministro dell’Economia, Laurent Fabius, che invece sostenevano la necessità di una ritirata, almeno temporanea, dalle opzioni riformiste. La prima strada prevedeva necessariamente l’introduzione di controlli stringenti su capitali, salari e prezzi, e aveva come incognita principale il servizio del debito esistente. La seconda prevedeva necessariamente il contenimento dei salari e del tenore di vita per la gran parte della popolazione francese, e la distruzione del loro potere di influenzare l’agenda pubblica.

Questa seconda strada, che ormai abbiamo imparato a ben conoscere, era caldamente suggerita dalla maggior parte del mondo ‘scientifico’ economico (per le mezze virgolette rinvio al ciclo di post della metà del 2016 in cui avevamo affrontato il tema del rigore scientifico della disciplina economica, Dani Rodrik “Ragioni e torti dell’economia”, Hilary Putnam “La sfida del realismo”, Francesco Sylos Labini “Rischio e previsione”, Alan Jay Levinovitz “La nuova astrologia”, Milton Friedman “La metodologia dell’economia positiva”).

A piegare comunque la resistenza del governo fu la fuga dei capitali, avviata in seguito allo scontento che negli ambienti del capitalismo francese si diffondeva per l’aumento della tassazione e soprattutto per le protezioni legali ai lavoratori che erano state introdotte nel primo biennio. E anche la convinzione, promossa dagli ambienti connessi con il governo, che il collasso del Franco era una reale possibilità, per la quale era indispensabile contrastare con manovre fortemente deflattive la tendenza all’inflazione e quindi alla progressiva svalutazione. In questo racconto uscire dallo SME avrebbe solo aggravato le cose.

La carta vincente, sul piano della lotta egemonica per l’affermazione delle idee, fu da parte dei promotori della deflazione di presentarsi come moderni, come connessi con la parte più dinamica e aggiornata. Nel gennaio 1983 la pressione si fece più esplicita e il Primo Ministro, Pierre Mauroy, disse infine chiaramente: “vogliamo che i salari aumentino più lentamente dei prezzi, per ridurre il potere di acquisto dei consumatori e aumentare la redditività”, ovvero perché le imprese aumentino la loro parte di profitto a danno di chi produce. E’ chiaro che in prospettiva (e ormai sono passati trentacinque anni) questo determina necessariamente l’allargarsi di una forbice tra la capacità di acquistare i beni e servizi (identificato con il totale dei redditi) e il prezzo cumulato di questi. In altre parole va in ultima analisi a danno degli stessi produttori (con l’eccezione di quelli in grado di spostarsi e di vendere sul mercato internazionale, inseguendolo dove questo si rintana). C’è, in parole diverse, una divaricazione tra gli interessi dei produttori globali (ovvero “multinazionali”) e quelli locali, che subiscono i costi indiretti dell’indebolimento del tessuto economico.

Ma nel breve termine sembra andare a vantaggio generale delle varie Confindustrie, perché consente di espandere i profitti (fino a che il debito, e la riduzione dei risparmi accumulati, riesce a tenere dietro).

Con la terza svalutazione del Franco, nel marzo 1983, si giocò infine a carte scoperte e venne approvato un drastico pacchetto di austerità. Aumenti delle tasse per 40 miliardi di Franchi e riduzione della spesa pubblica insieme agli oneri per le imprese, inoltre deindicizzazione dei salari (come in Italia).

L’articolo sostiene che comunque le politiche espansive, condotte nel biennio 1981-82, nel mezzo di una crisi europea, aiutarono la Francia a subirne meno il peso; la disoccupazione aumentò, è vero, e crescita fu lieve, ma in Germania, che con Schmidt avviò politiche di austerità la frenata fu maggiore e la disoccupazione aumentò del 5%, contro il 2% della Francia. Il peso realmente difficile da sostenere fu determinato dalla stagnante industria francese, che se nazionalizzata finiva a carico del Tesoro: nel 1983 le perdite delle imprese nazionalizzate erano pari a 2,6 miliardi di dollari ed era più che raddoppiato in due anni.

La questione era quindi che lo Stato si era in realtà accollato la nazionalizzazione solo delle imprese non redditizie, e quindi inevitabilmente, con il prolungarsi della crisi, la situazione metteva sotto pressione le risorse fiscali, già di per sé in contrazione. Una simile crisi fiscale è in sostanza senza vie di uscita in questi termini, anche se non intervengono complicazioni gestionali che ci furono in gran quantità per la maggiore scala e complessità dei problemi da affrontare.

Alla fine in soli tre anni il Franco aveva perso il 30% del valore sul Marco tedesco e il 100% sul dollaro.

Ciò che era realmente insostenibile, e lo dice Mauroy nel 1983, è l’interdipendenza delle economie europee: “Voglio cambiare le abitudini di questa nazioneSe i francesi si rassegnano a vivere con un’inflazione del 12%, allora è bene che sappiano che, a causa della nostra interdipendenza economica con la Germania, finiremo in una situazione di squilibrio. La Francia deve sbarazzarsi di questa malattia dell’inflazione”.

O, come disse in seguito Delors: “Dal momento che la crescita è stata stimolata da una domanda interna più forte rispetto ai paesi vicini, abbiamo attirato le importazioni. Sarebbe stato diverso se i nostri impianti di produzione fossero stati in grado di rispondere. Ma non è stato così, per un semplice motivo: negli anni che precedettero l’arrivo della sinistra al potere, gli investimenti produttivi avevano fatto progressi insufficienti ... Aggiungo che ai dirigenti aziendali questo cambio di governo non è piaciuto. Quando non c’è fiducia, non ci sono investimenti.

In pratica qui c’è l’intero dilemma davanti al quale si fermò l’azione riformista di Mitterrand. Di fronte a quello che Streeck ha chiamato nel suo “Tempo guadagnato”, lo sciopero del capitale, reso decisivo dal sostanziale monopolio degli investimenti lasciato al settore privato, non restava che arrendersi. Gli investimenti sono, infatti, il vero prerequisito per l’aumento della produttività e quindi per la crescita, dunque per l’occupazione e da ultimo per l’espansione delle entrate fiscali.

Come dice Birch “l’unica alternativa è cercare di assumere il controllo degli investimenti. Ma alla fine, questo non era l’approccio che Mitterrand era intenzionato ad avere”. Del resto non si tratta di idee particolarmente straordinarie, come sottolinea Minsky nel suo “Keynes e l’instabilità del capitalismo”, del 1975, se “in un senso assai profondo disoccupazione significa non pieno impiego dei beni capitali”, si rende allora necessaria quella che lo stesso Keynes individuò come “una socializzazione di una certa ampiezza dell’investimento”, come “unico mezzo per farci avvicinare alla piena occupazione” (TG, p.549), in sostanza “determinando l’ammontare complessivo delle risorse destinate ad accrescere gli strumenti di produzione e il saggio base di remunerazione”. Ma, al di là dell’abbastanza evidente contraddizione sulla quale richiama l’attenzione lo stesso Minsky (cfr. p. 204) neppure questa limitata strategia divenne possibile per Mitterrand.

In effetti la nazionalizzazione del settore bancario e di parte delle industrie strategiche avrebbe potuto creare la base per farlo, ma occorreva anche disporsi ad uno scontro dirimente con la logica del profitto a breve termine e gli ambienti sociali “densi” (ovvero costituiti da detentori del capitale e dei saperi tecnici e amministrativi ad esso collegati) che vi proliferano.

Dal punto di vista politico l’errore, mai più superato, delle forze di sinistra che appoggiavano il governo fu di restare agganciate ancora per un anno ad un treno che aveva ormai cambiato le motrici e invertito la rotta. Appoggiandosi evidentemente alle forze che sposavano la deflazione e la contrazione salariale queste, infatti, persero definitivamente la loro forza contrattuale. Nelle elezioni europee del 1984 il PCF e la sinistra del PS furono brutalmente ridimensionate.

Gli anni successivi videro lo smantellamento del modello del dopoguerra, provocando la contrazione dei settori non competitivi e massive perdite di posti di lavoro oltre che riduzioni salariali. In una quindicina di anni furono privatizzati tutti i settori chiave, flessibilizzato il lavoro, liberalizzati i movimenti di capitale, spezzato il potere dei sindacati e delle organizzazioni dei lavoratori.

La “pausa” si era rilevata permanente.

Osservando il mondo dal lato delle imprese e della redditività del capitale investito si era trattato di un successo: l’inflazione (che riduce il potere di acquisto del capitale) scese, il disavanzo delle partite correnti (ovvero il saldo tra ciò che si compra per vivere e ciò che si vende, in altre parole tra quel che comprano le persone e quel che vendono le imprese) si ridusse fin quasi a zero, per poi diventare un surplus (ora le persone compravano meno dall’estero di quel che le imprese vendevano all’estero), le imprese tornarono a guadagnare, compreso i gruppi ex nazionalizzati (nel frattempo per lo più riprivatizzati).

Osservando il mondo dal lato dei cittadini e dei lavoratori lo fu molto meno: le retribuzioni diminuirono del 2,5%; la disoccupazione aumentò per superare la quota del 10% nel 1985; la “quota salari”, che è alla fine l’inverso della redditività, calò costantemente.

Dal punto di vista dello Stato invece: la spesa sociale continuò a crescere, trainata dalla spesa per welfare necessaria per l’aumento della disoccupazione e della povertà; nell’istruzione fu abbandonato il modello laico e nella giustizia furono promosse politiche sempre più severe.

Nei primi mesi del 1985 uno dei principali architetti della svolta, Jacques Delors, divenne Presidente della Commissione Europea e fu al centro della svolta liberista di quest’ultima. Egli guidò i negoziati per il Trattato di Maastricht, e la sua Commissione spinse per costituire una Banca Centrale Europea indipendente sul modello Bundesbank, definendo anche la sua unica missione in favore della stabilità dei prezzi.

La svolta politica costò abbastanza cara a Mitterrand, che dal 74% di consenso del 1982 scese al 32% (il minimo storico) in soli due anni, nel 1984. E nel 1986 perse la maggioranza parlamentare. Mitterrand dovette lavorare per due anni con Chirac, anche se nel 1988 si riprese quanto basta da essere rieletto.

Per trarre una conclusione su questa vicenda giova ricordare che ad un certo punto Mitterrand disse, al culmine dell’incertezza: “In economia, ci sono due soluzioni. O sei un leninista, oppure non cambierai nulla”. Ovviamente lui non lo era. Ma probabilmente non era neppure necessario esserlo, bastava meno. Bisognava comprendere che il “socialismo per ricchi” (secondo la definizione di Minsky, op cit., p.205) è intrinsecamente conservatore e tende ad autoavvitarsi progressivamente. In altre parole ogni misura che tende a conservare un’economia a profitti e investimenti elevati incontra un limite interno per superare il quale occorre cambiare gioco; con le parole di Minsky: “tutte le misure fiscali tendenti a favorire gli investimenti spostano la distribuzione del reddito a favore dei settori risparmiatori”, ovvero dei settori borghesi, della classe media superiore e di quella alta. Ciò produce nel tempo un “processo autoavvitante nel quale per mantenere la piena occupazione è necessario disporre di sempre maggiori quantità di investimenti, per indurre i quali bisogna offrire incentivi sempre più cospicui sotto forma di profitti e di sussidi alla produzione”. Ad un certo punto il gioco va interrotto, altrimenti i “settori risparmiatori” aspirano ogni risorsa e perché diventa necessario invece avviare “misure per la redistribuzione dei redditi in modo da tendere ad elevare la propensione al consumo” (Keynes, TG., p. 544).

Ma qui si incontra, nelle condizioni date degli anni ottanta (o meglio, nelle condizioni provocate dalle decisioni assunte negli anni settanta), il vincolo esterno determinato dal crescente squilibrio della bilancia commerciale; perché se un paese sostiene la sua propensione al consumo e un altro non lo fa quest’ultimo diventerà nel tempo più competitivo e catturerà il consumo del primo. È la strategia che Schmidt propone a partire dal 1974, in sostituzione dell’approccio redistributivo di Brandt, e per la quale propone lo SME (e poi l’Euro con Kohl).

Più in generale, nel clima aspramente conflittuale che segue al crollo dello schema di Bretton Woods, viene meno in radice l’ipotesi ottimista di Keynes secondo la quale “se le nazioni possono imparare a crearsi una situazione di occupazione piena mediante la propria politica interna … non è più necessario che le forze economiche importanti siano rivolte al fine di contrapporre l’interesse di un paese a quello dei suoi vicini” (TG., p. 553). Questa ipotesi, infatti, presupponeva il consenso alle politiche redistributive e di controllo degli investimenti (ovvero di parziale espropriazione del potere di autoaccrescimento del capitale) che, restando sempre molto parziale, viene completamente meno negli anni settanta. In tutto il mondo da allora le forze organizzate del capitalismo tornano all’offensiva, e portano ovunque ad un incremento della competizione, a livello di aree continentali, di nazioni e di imprese (multinazionali e non). Un buon riepilogo recente di questa mutata situazione si può leggere in questo recente intervento dell’economista di Harvard Dani Rodick.

Portare in fondo la logica di determinare gli investimenti ed orientare i profitti in direzione socialmente utile, dunque di far “slittare verso l’alto la funzione del consumo”, come dice Minsky, avrebbe reso invece necessario orientare anche la produzione in direzione sociale. Ma ciò aveva, ed ha, una condizione abilitante necessaria: bisognava scegliere di appoggiarsi su forze sociali interessate a questo effetto, e non ai profitti in sé. Era necessaria, in altre parole, una costante mobilitazione in direzione di un sempre più determinato scontro con le forze dello status quo, orientata al desiderio di giungere a inaugurare una nuova società più sana ed equilibrata.

Dal punto di vista tecnico avrebbe reso necessario fare molto più che disdettare lo SME: bisognava sottrarre al capitale la sua mobilità (ovvero in qualche misura espropriarlo), orientare i prezzi e anche produzione e consumi con strumenti sempre più incisivi, controllare importazioni ed esportazioni, modificare profondamente il sistema fiscale e l’apparato di gestione dello Stato.

Mitterrand tutto questo lo voleva solo a parole, alla prova dei fatti si circondava da persone che non ci credevano e che non lo volevano affatto. Persone che non volevano superare quel carattere del capitalismo che lo orienta alla valorizzazione astratta del capitale e tramite questa alla definizione di rapporti sociali di dominazione. Rapporti nei quali il capitalismo cattura, attraverso la forma-lavoro, astratta nella misura in cui è misurabile e si rende scambiabile (cioè astratta nel suo prodotto, la forma-merce), l’esistenza stessa delle persone e la realtà sociale tutta.

Ciò che non è stato compreso e valutato è che la creazione di valore è una sorta di feticcio, che si impone alle spalle delle persone e che include leggi cieche che conducono ad una completa perdita di senso. Non è più rintracciabile, nell’accelerata creazione di nuvole che è il capitalismo finanziarizzato contemporaneo, il senso di un progetto che possa ambire a qualificarsi come politico.

Ascoltando invece le sirene proposte da Delors il progetto politico della sinistra francese, uno dei più radicali del secolo, è finito per rovesciarsi nel suo contrario: nella resa a quel capitale “di per se stesso contraddizione in divenire” (Marx) che cerca di ridurre sempre il lavoro astratto necessario per la sua riproduzione, quando alla fine questo ne è la misura. Infatti è ‘merce’ ciò che ‘vale’, e viene prodotto solo ciò che è ‘merce’, quindi il sistema è dinamicamente entro una spirale di contraddizioni crescenti, cui può sfuggire solo allargandosi costantemente.

La questione è che la persistenza del capitale, come insieme positivo dei segni di valore (fondato come altrove abbiamo sempre visto sulla fiducia complessiva del sistema sociale, e quindi sfidato nel caso storico che qui si osserva dalla crisi della fiducia dei suoi detentori, che non si è avuto il coraggio di sostituire) è dipendente, in ultima analisi, dalla capacità sempre rinnovata di immettere nel processo di produzione, al livello di produttività dato, altro lavoro vivo per sostituire quello che lo sviluppo tecnico espelle. Questo effetto, nelle condizioni della globalizzazione che cresce durante gli anni ottanta e novanta, partendo da qui, si ottiene solo dall’interconnessione ed interdipendenza crescente dei sistemi economici.

Questa è, in fondo, la logica seguita da Delors e compagni: sostituire i riottosi lavoratori occidentali, e francesi in specie, come fornitori di forza-lavoro con altri via via meno esigenti, in modo da estrarre, nel meccanismo deflattivo avviato un adeguato valore differenziale, anche se decrescente. È chiaro che in questa prospettiva il consenso popolare diventava un peso e occorreva “cambiare cavallo”.

Ma qui subentra quel che Marx vide solo logicamente: l’esistenza di un limite verso il quale ci stiamo avviando.

Certo il limite viene sempre spostato, spesso attraverso le crisi, dall’espansione quantitativa (ad esempio dall’apertura del blocco sovietico nel 1989 e dall’incorporazione delle masse cinesi nel sistema di commercio nel 2001, e soprattutto nel circuito finanziario occidentale, ovvero dalla sussunzione del capitale cinese come sussidiario del capitale occidentale), e da quella tecnologica sempre riprodotta. Il capitale inoltre di tanto in tanto cambia ‘piattaforma tecnologica’ e con questa apre nuovi settori di produzione che riescono ad incorporare altro lavoro vivo.

Osservando l’esito di quegli anni qui sembra intervenire “l’economia da casinò” (che è un’espressione anche di Keynes), che è venuta in soccorso di un sistema di anticipazione del valore futuro (ovvero di espansione del debito), mediato dallo Stato, che rapidamente sembrava avere raggiunto i suoi limiti. La ‘soluzione’ nella quale il sistema inciampò negli anni novanta, trovandola in effetti dal catalogo delle cose in corso e delle forze in via di accumulazione da decenni, fu la liberazione della dinamica di creazione privata di capitale fittizio, nel senso di valore che attualizza anticipandolo il futuro (e dunque strutturalmente l’incertezza).

Dunque, anche a seguito delle scelte compiute in questa vicenda, come in quelle gemelle che si sono date nel breve termine degli anni tra la metà dei settanta e quella degli ottanta, oggi “la base dell’economia è diventata, a livello generalizzato, il profitto fittizio privato, e l’utilizzazione reale di lavoro sopravvive soltanto come appendice della valorizzazione fittizia di capitale” (Lohoff, “Crisi”, p.79).

Qui bisogna capire però i termini, perché si tratta di un’assurdità, ma di una assurdità semplice: le catene di debito e credito si sono progressivamente allungate durante tutti gli anni tra gli ottanta e gli anni zero del nuovo millennio, interconnettendosi sistemicamente in modo inestricabile e fragile ad un tempo, fino a sopravanzare e incorporare tutti gli investimenti attuali e le stesse forze di lavoro di tutti. Aver rinunciato al controllo degli investimenti, e delle propensioni al consumo, arrendendosi alle forze della competizione scatenate ha reso queste catene, ‘fittizie’ in quanto connesse con ciò che non c’è ancora e potrebbe non esserci mai, alla fine l’unica strada percorribile. Si resta in tal modo dipendenti dalla speranza della restituzione nel tempo di un’anticipazione, che però viene fatta valere come valore attuale attraverso algoritmi di calcolo e complessi sistemi sociali e tecnici di regolazione del rischio accettati per buoni. Dunque attraverso una creazione di ‘valore’ (finanziario, ovvero di titoli cartolarizzati, di contratti assicurativi complessi, di altre forme di obbligo) che è strutturalmente incerta, ma viene tenuta ‘liquida’ con enorme dispendio di energie politiche e di potere, di enorme momento relativo. In definitiva vengono immessi come capitale profitti ancora non realizzati, ma dai concreti effetti. In questo modo la sovrapproduzione (ovvero il sottoconsumo di troppi, generato dall’assetto deflazionario imposto come logica di sistema) viene superata e può continuare il processo di accumulazione, con beneficio di molti.

Naturalmente non di quelli che costruirono il consenso della coalizione di Mitterrand.

Quelli furono abbandonati.

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