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Trump: questa non è soltanto l’America, questo è il mondo del Capitale

di Giorgio Paolucci

Kafka hallwayE si sta come quei viaggiatori ferroviari di Kafka

“…che hanno subito un sinistro in un tunnel, e precisamente in un punto da dove non si vede più la luce dell’ingresso, e quanto a quella dell’uscita, appare così minuscola che lo sguardo deve cercarla continuamente e continuamente la perde, e intanto non si è nemmeno sicuri se si tratti del principio o della fine del tunnel.

Cento anni fa, per l’esattezza il 23 febbraio del 1917 secondo il calendario russo dell’epoca e il 10 marzo secondo quello in uso nel mondo occidentale, aveva inizio in Russia, nel pieno della prima guerra mondiale, quel processo rivoluzionario che si sarebbe concluso nell’ottobre successivo con l’insaturazione della Repubblica Federativa Socialista Sovietica Russa, il primo governo dichiaratamente ispirato ai principi del marxismo rivoluzionario e avente nel suo programma il definitivo superamento del modo di produzione capitalistico e la costruzione di una società socialista.

Finita la guerra, martoriati dalla disoccupazione, dalla fame e dalla miseria, nel 1919 insorsero anche i proletari ungheresi e tedeschi, mentre in Italia ebbe inizio una lunga serie di scioperi e di forti scontri sociali - il cosiddetto biennio rosso - che culminarono, nel settembre del 1920, con l’occupazione di quasi tutte le maggiori fabbriche dell’Italia del Nord. Sembrò allora che quel nuovo mondo tanto agognato senza sfruttati e sfruttatori, di uomini uguali e liberamente associati e senza più guerre devastanti fosse finalmente alla portata dei “Proletari di tutto il mondo uniti”.

Come è noto, le cose andarono diversamente. La borghesia riuscì a riprendere il controllo della situazione in Ungheria, In Germania e in Italia e a isolare la rivoluzione russa, decretandone di fatto il suo fallimento. Si sa, la storia non è mai uguale a se stessa, eppure non di rado ripropone situazioni molto simili fra loro; è il caso dell’attuale stato delle cose. Non è difficile infatti scorgervi i non pochi tratti che lo accomunano con quello di cento anni fa. Allora come oggi, imperversavano una devastante crisi economica e sociale e la guerra. Simili ovviamente non significa identici. Allora, infatti, aguzzando la vista, si poteva intravedere l’inizio di un nuovo ciclo di accumulazione del capitale, la cosiddetta fase fordista, fondato sullo sviluppo di importanti nuovi settori produttivi (automobilistico, elettrico, chimico etc). Oggi, invece, non se ne intravvede neppure un barlume tanto che ormai non pochi economisti borghesi pronosticano una stagnazione secolare con alle porte alcune innovazioni tecnologiche (l’intelligenza artificiale e la robotica) che potrebbero minare fin nelle sue fondamenta il modo di produzione capitalistico. Altresì per la guerra: quella volgeva al termine mentre quella attuale si trascina da decenni senza soluzione di continuità: è divenuta permanente. Se allora si stava “ Come d’autunno sugli alberi le foglie”[1] , oggi si sta come quel gruppo di viaggiatori ferroviari di Kafka “ …che hanno subito un sinistro in un tunnel, e precisamente in un punto da dove non si vede più la luce dell’ingresso, e quanto a quella dell’uscita, appare così minuscola che lo sguardo deve cercarla continuamente e continuamente la perde, e intanto non si è nemmeno sicuri se si tratti del principio o della fine del tunnel.[2]

 

America first again

Emblematico di questo stare nel mezzo di un tunnel senza riuscire più a distinguere l’inizio dalla fine ci sembra sia proprio l’America che ha appena eletto Trump alla Casa Bianca.[3]

A prescindere dalla goffaggine del personaggio, dal suo muoversi da attore mestierante, dal suo profluvio di twit la cui nota dominante è una sorta di bullismo razzista di pura marca fascista, niente come il suo programma prospetta il futuro come un ritorno al passato, l’uscita dal tunnel evocando il ritorno al suo imbocco come peraltro sottintende il suo slogan ripetuto come un mantra durante tutta la campagna elettorale: America first again, America di nuovo prima. Sia nel senso di Prima di tutti che Prima di tutto, cioè prima gli americani e/o prima che, per esempio la Cina diventasse la fabbrica del mondo, che l’Europa si desse l’euro, che i messicani affamati rubassero il lavoro ai lavoratori americani e che il terrorismo islamico ne minasse la sicurezza compiendo attentati, poco importa se immaginari nella lontana Svezia e impiegando armi quasi sempre made in Usa.

Come cioè se la Cina non fosse diventata la fabbrica del mondo perché offriva su un piatto d’argento manodopera a bassissimo costo, senza alcuna protezione sociale e sfruttabile come non accadeva dai tempi della prima rivoluzione industriale. Come cioè se la disoccupazione e l’impoverimento crescente della gran parte della popolazione siano stati la conseguenza della perdita di quel primato e non perché di quel primato ne era il presupposto così come lo era la delocalizzazione delle attività manifatturiere a più elevato contenuto di manodopera in aree dove il costo del lavoro era decine e perfino centinaia di volte più basso rispetto agli Usa. Lo schema era molto semplice: la manifattura tradizionale ai cinesi o in Messico, agli Usa la funzione di Banca centrale del mondo, potendo disporre del dollaro quale unico e incontrastato mezzo di pagamento e di riserva internazionale. E per quanto riguarda i posti di lavoro che si sarebbero inevitabilmente perduti a causa della delocalizzazione, ci avrebbe pensato il dio della tecnica a crearne a milioni di nuovi nel settore della nascente microelettronica e del cosiddetto terziario postmoderno. Quindi, niente più colletti blu ma tutti in camicia e cravatta a vendere e comprare obbligazioni, azioni, case e ogni sorta di pezzo di carta che in qualche modo avesse impresso sopra il simbolo del dollaro oppure in camice bianco a progettare computer, telefonini e quant’altro però da far produrre rigorosamente all’estero.  

Effettivamente per un certo periodo di tempo ha funzionato. Dalla Cina e dintorni sono piovute merci a bassissimo costo e alla portata di tutte le tasche anzi, per essere più precisi, di tutte le carte di credito rilasciate a chiunque ne facesse richiesta purché avesse un tetto ipotecabile[4]. Intanto la banca Centrale del mondo, la Federal Reserve drenava verso gli Usa una rendita finanziaria, secondo alcuni calcoli, pari a qualcosa come 500 miliardi di dollari l’anno. Allora si diceva che questa era la modernità: la fabbrica della finanza[5] e del terziario postmoderno al posto della fabbrica delle merci; in realtà era l’approdo definitivo a un sistema fondato quasi esclusivamente sull’appropriazione parassitaria di quote crescenti del plusvalore prodotto su scala mondiale e imposto grazie al proprio strapotere militare.

Quando un paese- ebbe a dire in un discorso fatto al Congresso il 15 febbraio 2006, non un pericoloso bolscevico, ma il senatore repubblicano Ron Paul - dotato di un esercito potente e grandi riserve di orocomincia a dedicarsi alla costruzione di imperi di facili fortune con cui alimentare il proprio benessere domestico, esso segnava inevitabilmente l’inizio del proprio declino […] Oggi i principi sono gli stessi. Sono i processi a essere diversi. L’oro non è più la valuta corrente del “regno”. Al suo posto c’è la carta. Oggi la regola è << Colui che stampa la moneta detta le leggi>>, almeno per il momento. Benché non si usi più l’oro, il meccanismo è lo stesso: indurre e obbligare paesi stranieri, mediante la propria superiorità militare e il controllo sulla stampa di moneta, a produrre e quindi a finanziare il proprio paese”[6].

Ma poiché i profitti scorrevano come un fiume in piena, per il pensiero unico dominante ogni critica era da ritenersi infondata a priori e così anche questa fu completamente ignorata.

 

I primi scricchiolii

Nel volgere di qualche anno, però, si cominciarono ad avvertire i primi scricchiolii; infatti

“…Quando una giornalista americana… [tentò] di vivere per un anno senza made in China, si …[accorse] che...[era] impossibile senza regredire all’esistenza arcaica di Robinson Crusoe”[7].

Inoltre, il dio della tecnica, ossia della microelettronica e dell’informatica, anziché creare milioni di nuovi posti di lavoro, come era nelle aspettative, iniziò a far strage, oltre che dei colletti blu sopravvissuti alla delocalizzazione, anche di un gran numero di operatori in camicia e cravatta e perfino di quelli in camice bianco operanti nel settore della microelettronica e dell’informatica. Con il risultato che:

“Nel corso degli ultimi 40 anni- dice ad Alan Friedman, Marian Wright Edelman, collaboratrice di Hillary Clinton e fondatrice del Fondo per la difesa dei Bambini- … abbiamo avuto un grosso cambiamento nella nostra economia. I lavori decenti sono riservati alla tecnologia e alla globalizzazione e la conseguenza è che la metà della popolazione non guadagna abbastanza da sostenere le proprie famiglie”.[8]

I già ricchi, però, sono diventati straricchi.

 

Il modello Walmart

La Walmart è il più grande discount del mondo e il maggior datore di lavoro degli Usa.

Ha costruito il suo impero importando dalla Cina e da un po’ tutti i paesi asiatici merci a prezzi stracciati che ha potuto rivendere a prezzi altrettanto stracciati anche grazie al fatto che nel frattempo, essendo fortemente diminuita la domanda di forza-lavoro, anche i salari dei lavoratori americani hanno subito un vero e proprio tracollo. Di quanto? Lo ricaviamo da una testimonianza resa al Congresso, nel gennaio del 2014, dall’economista ed ex segretario del lavoro Robert Reich:

“.. Walmart è il maggior datore di lavoro degli Stati Uniti. Paga i suoi lavoratori, se includiamo anche quelli part-time 8,80 dollari l’ora. Adesso confrontate questo dato con quello del 1955, quando il maggior datore di lavoro degli Stati uniti era la General Motors, che pagava, in media, i suoi lavoratori l’equivalente di quelli che sarebbero 37 dollari oggi.”[9]

“Walmart - aggiunge il sindacalista Randy Parraz in un’intervista rilasciata ad Alan Friedman - ha contribuito a creare il lavoratore povero in America. Buttano fuori dal mercato i concorrenti, pagano stipendi bassi in modo da costringere la gente a tornare da loro per fare compere. Assumono una persona quasi senza benefit, poi la prassi prevede che la licenzino e la riassumano con uno stipendio più basso. E’ così che fanno. Stabiliscono via via il numero delle ore che può svolgere un lavoratore, e così hanno costretto molti dei loro dipendenti a salario più basso a rivolgersi al welfare. Walmart ha contribuito a creare questo nuovo sottoproletariato americano.” [10] E -aggiunge ancora qualche pagina dopo, Friedman- “lo stesso si può dire degli innumerevoli impiegati dei fast food sparsi per la nazione, i McJob che hanno contribuito a espandere i ranghi dei lavoratori poveri… Per molti di coloro che hanno un lavoro, gli stipendi netti reali (rapportati all’inflazione) sono aumentati di pochissimo negli ultimi venti anni. Mentre erano pagati in modo decente i lavori che si sono perduti, che non esistono più. Le nuove opportunità di lavoro in una nazione che ha visto il proprio settore manifatturiero ridursi a meno di un quarto del prodotto nazionale lordo, tendono a essere soprattutto posizioni di basso livello come quelle nel settore dei servizi. Le professioni un tempo appannaggio della classe media sono state rimpiazzate dai McJob”[11]. La famiglia Walton, proprietaria della Walmart, è però la più ricca d’America, “da sola detiene più ricchezza del 40 per cento più povero del popolo americano”.[12]

E’ a un disastro di queste dimensioni che Trump pensa di poter far fronte con qualche dazio sulle importazioni e/o aggiungendo qualche migliaio di chilometri di muro a quello già esistente al confine con il Messico e comunque ripristinando nei rapporti internazionali lo status quo ante, cioè: America first again.

Tutto ciò come se nel frattempo l’Europa, per non sottostare all’obbligo di dover produrre e finanziare gli Usa gratis et amore dei, non si fosse data a sua volta una valuta di pagamento e riserva internazionale, la Russia fosse ancora quella di Eltsin e la Cina non fosse diventava la fabbrica del mondo e anche per lei non fosse diventata una questione di vita o di morte diversificare e ampliare i mercati ove far defluire i suoi enormi surplus di merci e di capitali. Oggi l’euro è, dopo il dollaro, la seconda valuta più usata al mondo come mezzo di pagamento e riserva internazionale; la Russia ha ormai più di una voce in capitolo nello scacchiere internazionale a cominciare dal Medioriente e la Cina progetta di

“…Costruire una rete di corridoi infrastrutturali transasiatici per velocizzare e rendere stabili le rotte marittime e terrestri che collegano la Cina all’Europa, all’Africa e al resto del mondo. Una iniziativa nota come <<nuove vie della seta>>, <<Una cintura Una via >> o Belt and Road Iniziative (Bri nell’acronimo inglese)”[13]

finanziata da una banca d’investimenti appositamente costituita, l’Asian Infrastructure Investiment Bank (Aiib).

Insomma, perché l’America possa ritornare first again, l’Unione Europea, e soprattutto quella monetaria, dovrebbe sciogliersi e raddoppiare il finanziamento per il mantenimento della Nato, ossia dell’Esercito statunitense; la Cina tornare a essere l’officina degli Usa e la Russia a esportare gas e petrolio al pari di una qualsiasi petromonarchia mediorientale.

Si tratta, però, di una pretesa che non può essere in alcun modo soddisfatta, un fare i conti senza l’oste, cioè senza la crisi che, peraltro, non è soltanto americana, ma di tutto il modo di produzione capitalistico.

“Se si osservano - scrive Cedric Durand, economista dell’Università di Parigi XIII -  gli investimenti netti, cioè se si tiene conto dell’usura e dell’obsolescenza del capitale (industriale n.d.r) esistente, la dinamica assume un andamento drammatico: per un dollaro di reddito, negli Stati Uniti sono reinvestiti solo 4 centesimi, nella zona euro solo 2 e praticamente zero in Giappone. Ergo: queste economie non preparano il futuro… Nei paesi ricchi la crescita vegeta intorno all’1,5%, in forte declino rispetto ai decenni precedenti, mentre la disoccupazione e il sottoimpiego restano endemici in Europa e negli Usa. Non registrano risultati migliori le economie in via di sviluppo incapaci di sviluppare una dinamica sufficientemente autonoma. Nel 2016 la Cina conosce il tasso di crescita più debole dal 1990, e il Pil si contrae in Russia e Brasile… Il capitalismo ha perso la sua dinamica di espansione perpetua, e la promessa di prosperità generalizzata non illude più nessuno”[14].

Alla luce di tutto ciò com’è pensabile che basti sul serio dire American first again perché tutto torni agli antichi splendori, ammesso fossero splendori?

Nomina- dicevano i latini- substantia rerum sunt (i nomi sono la sostanza delle cose).

 

Trump, la briscola

Il caso vuole che in inglese, nel gioco della briscola, è denominata trump la carta di maggior valore dello stesso seme della briscola (l’asso di denari se la briscola è di denari o di coppe se la briscola è di coppe e così via). Da qui anche il detto: to put some one to his trumps ossia: mettere qualcuno spalle al muro. Che nel caso in questione sarebbe come se Trump dicesse: ho l’esercito più forte e vinco io. Insomma, volenti o nolenti: America first again. Intanto, nel caso qualcuno non l’avesse capito, nel bilancio 2017- 2018 ha stanziato, decurtando i sussidi ai più poveri e ai servizi di protezione dell’ambiente, 52,3 miliardi di dollari in più per la spesa militare.

Certo- si diceva all’inizio – la storia non si ripete mai uguale a se stessa ma a volte si assomiglia e trovandosi nel mezzo del tunnel, come i viaggiatori di Kafka, non è difficile confonder l’inizio con l’uscita, il 2017 con il 1917; anzi con il 2 aprile del 1917, quando gli Stati Uniti fecero il loro ingresso ufficiale nella prima guerra mondiale. Allora ebbe inizio il lungo Secolo Americano, oggi con molte più probabilità si inizierebbero a scrivere le pagini più tristi della storia dell’umanità. O più belle qualora stanchi di essere sfruttati come bestie e di fare da carne da macello nella guerra imperialista permanente, i lavoratori della Walmart, dei fast food, della gig economy, insieme a quelli delle fabbriche non decidessero, questa volta con maggior fortuna, di porre fine all’epoca del Capitale.


Note
[1] G. Ungaretti –Soldati – Ungaretti, Vita di un uomo- I meridiani 1969 – pag. 87
[2] F. Kafka – Quaderni in ottavo, Terzo quaderno
[3] Sulla elezione di Trump cfr L. Procopio – Donald Trump e la crisi dell’impero americano- DemmD’ n.1/2017
[4] Per ulteriori approfondimenti su questa questione cfr: Sulla crisi dei subprime rileggendo Marx http://www.istitutoonoratodamen.it/joomla34/index.php/questionieconomiche/161-subprimemarx
[5]cfr E. Lohoff e N. Trenkle- Crisi: Nella discarica del capitale – Mimesis editore e G. Paolucci - L’Unione europea nella tormenta della crisi –DemmeD’ n. 11/2017
[6] Paolo G. Conti ed Elido Fazi – Euroil – Fazi editore, pag. 41
[7] F. Rampini – La repubblica del 15.08.2007
[8] Alan Friedman – Questa non è l’America – New Compton Editori, febb. 2017 – pag. 80
[9] Ib. pag. 69
[10] Ib. pag. 63
[11] Ib. pag. 66
[12] Ib. pag. 68
[13] Giorgio Grappi – Il confucianesimo logistico che cambia il mondo- Limes n. 1/2017 – pag. 163
[14] Cedric Durand – Rimedi Tossici alla crisi finanziaria – Le Monde Diplomatique / il manifesto – Febb. 2017
 
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