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Quale politica economica può fronteggiare il declino italiano?

di Nicolò Bellanca

banksydonna 580x408Un’analisi del declino economico italiano che, oltre ad essere scientificamente robusta, comporta preziose indicazioni di policy per una Sinistra rinnovata, prende le mosse dall’assunzione secondo cui, nel lungo periodo, corre una relazione costante tra il saggio di crescita dell’output e il saggio di crescita della produttività del lavoro[1]. Questa relazione è biunivoca, nel senso che ogni suo termine, nel mentre influenza l’altro, ne è influenzato. Nel caso concreto dell’Italia, sembra rilevante interpretare la relazione dal lato della domanda aggregata: è la prolungata caduta, da almeno un ventennio, della domanda interna a spiegare, in misura sostanziale, il rallentamento della produttività. Ciò è accaduto per molteplici intrecciate ragioni, che si sono amplificate a vicenda: l’innalzamento della disuguaglianza nella distribuzione dei redditi ha ridotto la quota dei salari sul Pil, e quindi il potere d’acquisto di ampie fasce della popolazione; l’orientamento degli imprenditori a dirigere gli elevati profitti degli scorsi decenni verso rendite, anziché verso impieghi produttivi, ha indebolito gli investimenti privati; l’elevata propensione al risparmio, specialmente da parte delle classi medie, ha, per tanti anni, trovato uno sbocco sicuro e redditizio nell’acquisto dei titoli di Stato, per rifinanziare il colossale debito pubblico; la scelta politica di tassare poco le banche e le imprese ha comportato una pronunciata pressione fiscale sui redditi da lavoro.

Inoltre l’alta evasione fiscale ha redistribuito gli oneri tributari ancora sui redditi da lavoro (dipendente), in molti casi tassabili alla fonte; la riduzione della spesa pubblica, per addomesticare il rapporto tra il debito pubblico e il Pil, è stata accentuata dai parametri di Maastricht e dal Patto di stabilità e sviluppo; infine, la contrazione del saggio di crescita delle esportazioni italiane è derivata dalla loro minore competitività di prezzo dopo l’entrata nell’euro. Tutti questi fattori hanno contratto i mercati interni, contribuendo a mantenere piccole le dimensioni di quella gran parte delle imprese italiane che esportano poco o nulla; hanno compresso i profitti, rendendo le imprese più dipendenti dal credito bancario; hanno limitato la spesa in R&S (Ricerca&Sviluppo) e hanno reso più costosa l’innovazione. Ne è seguito il declino della produttività del lavoro, dato che quest’ultima aumenta soprattutto in presenza di ampi investimenti, privati e pubblici, che aprano a economie di scala e a percorsi di progresso tecnico e specializzazione.

Questo schema di spiegazione del declino economico italiano è persuasivo. Tuttavia, come osservano Roberto Romano e Stefano Lucarelli, esso tende a trascurare l’interdipendenza tra l’andamento della domanda aggregata e le caratteristiche strutturali dell’offerta[2]. L’evoluzione del capitalismo non avviene mai a composizione merceologica invariata, bensì mediante cambiamenti qualitativi che plasmano nel tempo consumi e investimenti. All’aumentare del reddito le persone non consumano una maggiore quantità degli stessi beni, bensì principalmente si volgono a beni diversi, che assecondano il variare dei loro bisogni. A sua volta, al mutare della struttura della domanda, muta anche quella della produzione: sorgono, o si espandono, industrie in grado di offrire quei beni che adesso sono desiderati dai consumatori. Nella domanda aggregata conviene dunque distinguere tra una componente che riempie l’usuale paniere dei consumi, e quella, davvero trainante, che apre ad altri beni[3]; allo stesso modo, conviene differenziare tra gli investimenti conservativi, che alimentano l’offerta tradizionale, e quelli innovativi, che diversificano e ampliano l’insieme degli output[4]. Immaginiamo due Paesi, A e B, che abbiano entrambi una regolare crescita del reddito, ma dei quali soltanto A investa nel progresso tecnologico e nelle innovazioni. Il risultato è che B, per non restare ancora più indietro, dovrà importare beni strumentali a più alto contenuto tecnologico da A; e che, nel contempo, B dovrà importare beni finali dalle industrie di A che sono state innovativamente capaci di rispondere ai diversi bisogni dei consumatori[5]. Ne segue che il Paese B, importando dal Paese A sia i beni capitali che gli output high tech, restringe la propria domanda interna, rafforzando ulteriormente il declino della produttività del lavoro.

Il fattore enfatizzato da Romano e Lucarelli non costituisce una mera aggiunta alla lunga lista ricordata all’inizio. Esso è, piuttosto, il fulcro di una concezione dello sviluppo economico, che illustro mediante le ricerche di César Hidalgo e colleghi: un filone teorico che Romano e Lucarelli non utilizzano, ma che mi sembra in forte sintonia con il loro[6]. Procedo con un’analogia. Una popolazione d’imprese è come una tribù di scimmie che vive in una zona della foresta, mangiando i frutti degli alberi. La foresta rappresenta l’economia mondiale, mentre ogni albero corrisponde a un bene. Per le scimmie, il processo di crescita economica equivale a spostarsi da una zona più povera della foresta, dove gli alberi hanno pochi frutti, ad una zona migliore. Per farlo, le scimmie devono saltare le distanze, cioè redistribuire il capitale (fisico, umano e istituzionale) per creare nuovi prodotti. Secondo Hidalgo, la teoria economica tradizionale ignora la struttura della foresta, supponendo che esista sempre un albero a portata di mano. Ma in effetti la foresta è eterogenea, alternando zone dense di vegetazione in cui le scimmie devono esercitare poco sforzo per raggiungere nuovi alberi, a zone spoglie in cui il salto verso un nuovo albero è molto difficile. In prima battuta, le scimmie-imprese si limitano agli alberi tra loro vicini, passando dalla produzione di un bene a quella di un bene che gli è prossimo. Ad esempio, un Paese che esporta le mele ha probabilmente condizioni idonee per l’esportazione di pere: dispone già del suolo, del clima, delle attrezzature per l’imballaggio, dei camion refrigeranti, degli agronomi, delle leggi fitosanitarie e degli accordi commerciali di lavoro. Tutto questo potrebbe essere facilmente reimpiegato per la produzione delle pere; molti di questi elementi sarebbero inutili se il Paese s’impegnasse nella produzione di un bene non-prossimo, come il filo di rame o gli elettrodomestici. Tuttavia, come sottolineano anche Romano e Lucarelli, lo sviluppo economico si basa sul passaggio verso beni sempre più diversificati e con livelli crescenti di specializzazione, ossia nel tendere verso attività che incorporano sempre maggiori livelli di conoscenza[7]. Ciò implica l’esigenza di saltare verso zone lontane della foresta, modificando la struttura settoriale dell’occupazione e conferendo una crescente rilevanza agli investimenti high tech[8].

Le scimmie-imprese possono effettuare tali salti soltanto se acquisiscono nuove conoscenze. Anche su questo aspetto Hidalgo si distacca dall’approccio ortodosso, nel quale le economie producono «cose» e se tu vuoi che più cose escano dal processo di produzione (outputs), devi mettervi dentro più cose (inputs). Piuttosto, egli annota, le economie non emettono «cose», bensì miliardi di tipi distinti di beni, dalla taglia 34 del jeans nero al piatto vegano basato sull’avocado. La differenza tra l’economia cinese e quella degli Stati Uniti non sta tanto nella grandezza dei rispettivi PIL, quanto in una struttura di beni prodotti che è molto diversa. Le economie sono collezioni di capacità informative combinabili in tanti modi per produrre tanti diversi prodotti. Poiché queste capacità non possono essere facilmente identificate e osservate, Hidalgo le misura attraverso le statistiche commerciali: se un bene viene significativamente esportato dal paese, allora si suppone che il Paese abbia le capacità correlate alla sua produzione. Il grado di sviluppo di un’economia può cogliersi all’incrocio di due categorie: la Diversità (il numero di prodotti distinti esportati da quell’economia) e l’Ubiquità (il numero di Paesi che esportano un dato prodotto). La Diversità e l’Ubiquità stabiliscono competitività o fitness di ciascuna zona della foresta. Un’alta Diversità per beni con bassa Ubiquità rende complessa (o sviluppata) l’economia di un Paese, la quale offre tanti beni distinti, e tra questi anche i beni che pochi altri Paesi producono. Ovviamente, le economie che esportano molti tipi di beni hanno più probabilità di essere sofisticate (alta Diversità), mentre i beni esportati soltanto da economie sofisticate sono più probabilmente complessi (bassa Ubiquità). Non sempre la complessità si associa immediatamente ad un elevato reddito. La Cina e l’India sono più complesse di quanto suggeriscono i loro redditi, mentre le economie della Nigeria e del Qatar, basate sulle risorse naturali, sono più ricche di quello che ti aspetteresti, ma anche più semplici, come si constata dal loro export assai poco diversificato. Quando un’economia (una zona della foresta, nella nostra analogia) è piuttosto complessa, seppur in una relativa povertà, presenta il potenziale di una crescita rapida (le scimmie possono saltare da essa verso altre zone), proprio come sta accadendo in Cina e India. Al contrario, se un’economia si limita alla prossimità, le sue imprese-scimmie restano confinate a una sola zona della foresta, dipendendo da altre tribù di scimmie (ossia da altre economie) per tutti i beni non-prossimi. Hidalgo documenta che la complessità è correlata al livello di reddito procapite di un paese e che la sua evoluzione aiuta a predirne la crescita futura: i Paesi tendono a convergere al livello di reddito determinato dal grado di complessità delle loro strutture produttive.

Giungiamo così al tema che più ci preme: la teoria eterodossa di Hidalgo, e l’analisi similare che Romano e Lucarelli applicano all’Italia, implicano peculiari indicazioni di policy. Anzitutto, l’unità di analisi e di intervento sono le zone della foresta, dove ciascuna è connotata da un gruppo di alberi, ossia da un “grappolo di beni”. Le scimmie-imprese non compiono la scelta tra un albero e un altro, bensì tra una zona e l’altra della foresta: non investono tanto su un bene specifico isolato dal resto, bensì su uno spettro di opportunità collocato in un’economia. Una policy efficace deve dunque agire al livello di zone della foresta, ovvero di economie. In secondo luogo, occorre aumentare la complessità dell’economia per (provare a) rendere prossimi gli alberi o le zone che, altrimenti, le nostre scimmie non raggiungerebbero. A sua volta, l’aumento della complessità dipende dalla capacità collettiva di elaborare l’informazione, permettendo di cogliere le occasioni d’innovazione senza restare confinati a poche zone della foresta, anche quando queste hanno alberi con meno frutti. Occorre dunque che il policy-maker s’impegni a creare e implementare il “sistema innovativo”, inteso come il complesso di istituzioni, pubbliche e private, che coordina l’accumulazione e la circolazione della conoscenza economica condivisa[9]. Al riguardo, appare strategicamente decisivo uno Stato imprenditore che investa nell’innovazione, selezionando le tecnologie, le industrie, i territori e le imprese da sostenere. In particolare, le banche d’investimenti pubbliche (come la Banca europea per gli investimenti) potrebbero orientare i finanziamenti verso progetti a lunga scadenza e a più alto rischio, fare leva sui capitali privati e stimolare effetti moltiplicatori. Insomma, le politiche d’innovazione mission-oriented, così dal lato della domanda come dal lato dell’offerta, potrebbero contribuire a creare nuovi mercati per nuovi beni, realizzando una trasformazione strutturale dell’economia[10].

In conclusione, come annotano Romano e Lucarelli, non è possibile uscire definitivamente dalla crisi, se non s’individua un traino adeguato per la domanda effettiva. Questo traino richiede una forma di programmazione dell’attività produttiva, in grado non semplicemente di pompare gli investimenti pubblici, ma di (provare ad) anticipare i cambiamenti qualitativi dei consumi e degli investimenti privati, al fine di favorire l’affermarsi di un nuovo paradigma socio-economico[11]. È una prospettiva di politica economica che dovrebbe collocarsi al centro del programma della Sinistra.


NOTE
[1] Il lettore di questa rivista conosce bene l’approccio che sto richiamando, attraverso i contributi di Guglielmo Forges Davanzati, tra i quali segnalo: “Così muore l’economia italiana”, 10 giugno 2014, http://temi.repubblica.it/micromega-online/cosi-muore-leconomia-italiana/ ; “Alle origini del declino economico italiano”, 1 aprile 2015, http://temi.repubblica.it/micromega-online/alle-origini-del-declino-economico-italiano/ ; “Le vere ragioni della lunga recessione italiana”, 4 marzo 2016, http://temi.repubblica.it/micromega-online/le-vere-ragioni-della-lunga-recessione-italiana/ . Vedi anche Stefano Perri, “Bassa domanda e declino italiano”, 4 aprile 2013, http://www.economiaepolitica.it/primo-piano/bassa-domanda-e-declino-italiano/ ; “Ascesa e caduta del modello economico italiano”, 15 dicembre 2013, http://www.economiaepolitica.it/primo-piano/ascesa-e-caduta-del-modello-economico-italiano/ . L’assunzione menzionata è nota come regola di Kaldor-Verdoon.
[2] Roberto Romano & Stefano Lucarelli, Squilibrio. Il labirinto della crescita e dello sviluppo capitalistico, Ediesse, Roma, 2017, pp.91, 94, 149 e passim.
[3] Nella terminologia keynesiana, la “produzione (o reddito) potenziale” corrisponde al pieno impiego delle risorse, mentre la “domanda effettiva” è quella che viene esercitata sui mercati. Per Keynes le imprese variano la loro produzione fino al punto nel quale la quantità di beni offerta è pari alla domanda effettiva, e la disoccupazione si forma nei casi in cui la domanda effettiva è inferiore alla produzione potenziale. Tuttavia, come osservano Romano e Lucarelli, possiamo avere una carenza di domanda effettiva, e quindi la disoccupazione delle risorse, anche qualora le persone e le imprese abbiano un’adeguata disponibilità a spendere, ossia qualora la “domanda potenziale” sia uguale alla produzione potenziale. Ciò succede se consideriamo i cambiamenti della composizione dell’offerta. Poiché, al mutare dei bisogni, le persone e le imprese chiedono beni (finali o strumentali) differenti, una parte della domanda potenziale non diventa effettiva, nei casi in cui l’offerta delle imprese non riesce a intercettare la richiesta dei nuovi beni. Ivi, p.127.
[4] Ivi, pp.131-132.
[5] Ivi, pp.192-199.
[6] Vedi César A. Hidalgo et al., “The product space conditions the development of Nations”, Science, 317, 2007; Andrea Tacchella et al., “Economic complexity: conceptual grounding of a new metrics for global competitiveness”, Journal of economic dynamics & control, 37, 2013, pp.1683-91; Ricardo Hausmann & César A. Hidalgo, The atlas of economic complexity: mapping paths to prosperity, MIT Press, Cambridge (MA), 2014; César A. Hidalgo, L’evoluzione dell’ordine (2015), Bollati Boringhieri, Torino, 2016.
[7] Romano & Lucarelli, op.cit., pp.26, 18 e 129.
[8] Ivi, p.129.
[9] Vedi, per tutti, Christopher Freeman, “Continental, national and sub-national innovation systems: complementarity and economic growth”, Research policy, 31/2, 2002, pp. 191-211.
[10] Vedi Mariana Mazzucato & Michael Jacobs, a cura di, Ripensare il capitalismo (2016), Laterza, Bari-Roma, 2017; specialmente i capitoli VI e VII.
[11] Romano & Lucarelli, op.cit., pp.45, 175-176 e 179.
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