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dirittiGlobali

L’austerità flessibile

Il fallimento delle politiche economiche di Renzi

intervista a Danilo Barbi

Intervista a Danilo Barbi, a cura di Roberto Ciccarelli, dal 14° Rapporto sui diritti globali

flessibilità austerità 640x342In questi anni i numeri del disagio lavorativo, della disoccupazione e delle povertà sono sensibilmente aumentati, ma non compaiono mai nelle “slide” e nella propaganda del governo Renzi. Il quale preferisce continuare a dare soldi e incentivi alle imprese e ai ceti più ricchi, anziché provare a rilanciare redditi, consumi ed economia. I trenta miliardi in tre anni dati dal governo alle imprese non hanno prodotto risultati apprezzabili. La CGIL ha elaborato un piano per l’occupazione straordinaria giovanile e femminile che costerebbe la stessa cifra ma che prevede la creazione diretta di 600 mila posti di lavoro. Per Danilo Barbi, segretario nazionale della CGIL e responsabile delle politiche dello sviluppo, infatti, è il pubblico che deve assumersi direttamente l’onere e la responsabilità di rilanciare l’occupazione e riattivare l’economia, attraverso gli investimenti pubblici, assumendo i giovani nella pubblica amministrazione e in grandi progetti di utilità sociale per il Paese, messi drammaticamente all’ordine del giorno anche dal terremoto dell’agosto 2016.

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Rapporto sui Diritti Globali: L’Italia è in stagnazione, la poca crescita diminuisce e non produce nuova occupazione. È il fallimento del governo Renzi?

Danilo Barbi: Di sicuro è il fallimento di una politica economica che ha provato a fare. Il governo sembra valutare le cose su sé stesso e non sulla condizione reale del Paese. Sembra che il Paese si deve mettere al servizio del governo e non il contrario. Una visione delle cose intollerabile. Va detto che all’inizio del suo mandato il PIL era più negativo e che adesso c’è un’occupazione migliorata, ma i dati vanno paragonati con il milione e mezzo di disoccupati in più dall’inizio della crisi. Abbiamo perso dal 2008 al 2015 1 milione e 600 mila posti. I poveri assoluti sono passati da un milione e 700 mila a 4 milioni. L’indice delle disuguaglianze in Italia, già tra i più alti dell’OCSE, è peggiorato rispetto ai redditi e ai patrimoni. Le persone che rinunciano a curarsi perché non hanno soldi sono passati da 5 milioni e mezzo a 9 milioni. Nel 2015, per la prima volta dal dopoguerra, la speranza di vita è diminuita di alcuni mesi, dal 1949 era sempre aumentata. Il PIL annuale del Paese, in dati assoluti, nel 2015 era inferiore di 140 miliardi di euro rispetto all’inizio della crisi. Gli investimenti privati sono calati del 30%, quelli pubblici del 28%. Se calcoliamo la cosiddetta l’area di sofferenza e disagio del lavoro, che mette insieme disoccupati, scoraggiati disponibili al lavoro, le persone in cassa integrazione e partite IVA e precari e part-time involontari, tutti insieme sono passati da 5 milioni e 600 mila a nove milione e 300 mila persone. Questi dati nelle slide del governo di solito non ci sono. È del tutto evidente che la sua politica economica non è stata in grado di risollevare significativamente il Paese dal punto di vista economico e sociale. Ogni tanto strillano contro l’austerità, ma in realtà continuano ad applicare l’austerità flessibile.

 

RDG: Che cos’è?

DB: Come dice la parola stessa è austerità. E, come sempre, i nomi nelle vicende umane non sono mai casuali. Chi decide cosa bisogna fare decide il nome della cosa. Fuori dall’analisi lessicale, concretamente l’austerità flessibile consente margini di deficit in più, ma rispetto a cosa? Al mitico del 3% del PIL? No. Un deficit maggiore rispetto all’anno precedente? No. Si permette di fare un deficit maggiore rispetto a quello precedentemente concordato. Questo significa che si fa un deficit sempre inferiore a quello dell’anno precedente. L’accordo per la stabilità fatto dal governo Monti prevedeva che nel 2016 avremmo dovuto avere un deficit dell’1,8% mentre nel 2016 è al 2,4%. Nel 2015 era del 2,8%. Si è ridotta la stretta di bilancio, ma non si è fatta una politica espansiva.

 

RDG: Qual è la condizione per avere una stretta minore?

DB: Si dice che occorre fare le “riforme strutturali”, ad esempio, la riforma costituzionale e il Jobs Act. Ma il governo ha tagliato le tasse in maniera ingiusta, ha finanziato le sue politiche con la riduzione della spesa pubblica tendenziale e la riduzione degli investimenti pubblici. L’aumento degli investimenti si ha quando c’è una crescita. Dopo una grande crisi se non ripartono la domanda e la crescita, le imprese non fanno investimenti per produrre di più. È vero che gli investimenti aiutano la crescita ma devono essere legati a una situazione di miglioramento oggettivo. Non è difficile da capire. Invece le imprese hanno incassato gli incentivi del Jobs Act e non hanno fatto investimenti, se non di pochissimo. È il gioco dell’oca, siamo tornati alla casella di partenza. L’austerità flessibile taglia le tasse a ricchi e imprese e taglia investimenti pubblici. Ecco perché non ha potuto sostenere la crescita. Se riduci la TASI a una casa che vale due milioni di euro il proprietario probabilmente ti voterà, ma quello che avrà risparmiato non lo investirà per fare un piacere ai lavoratori del suo quartiere.

 

RDG: A suo avviso si attribuisce alle imprese un ruolo che il governo dovrebbe fare proprio?

DB: Esatto, questa è la cosa giusta che andrebbe fatta: il governo deve investire direttamente, creare direttamente lavoro in una fase straordinaria per riattivare l’economia. Aumentando investimenti pubblici, assumendo i giovani nella pubblica amministrazione e in grandi progetti di utilità sociale per il Paese, con stipendi qualificati. Questo significa creare nuovi posti di lavoro. Si metterebbe così in moto una nuova domanda di produzione, nell’edilizia, e in molti altri settori. È la nuova domanda che crea nuova offerta, altrimenti il sistema resta bloccato.

 

RDG: Il terremoto nel centro Italia nell’agosto 2016 sembra avere convinto il governo a lanciare un piano di prevenzione antisismica: si parla di 100 miliardi per i prossimi 20 anni. È quello che negli anni scorsi aveva chiesto la CGIL, e anche altre voci autorevoli come Luciano Gallino. È la strada giusta?

DB: È una possibilità, ma non si capisce perché devi aspettare i terremoti per ragionare in questo modo. I terremoti in Italia sono una certezza. Venti anni è un periodo troppo lungo, significa altri quattro terremoti con conseguenze disastrose. Gli investimenti andrebbero fatti prima. Anche qui va rovesciato il discorso: c’è bisogno di assunzioni dirette, anche nella pubblica amministrazione. Bisogna formare professionalità dai beni culturali alle politiche di sicurezza. Come CGIL abbiamo presentato un piano per l’occupazione straordinaria giovanile e femminile che prevede la creazione diretta di 600 mila posti di lavoro, 200 mila a tempo indeterminato, e 400 mila a tempo determinato di cui 300 mila per sei anni. Nei 200 mila a tempo indeterminato noi pensiamo a 120 mila assunzioni tra ricercatori e dipendenti pubblici e 80 mila in imprese e cooperative. Se la ricordano in pochi, ma questa politica è stata fatta nel 1978. La legge n. 285 creò 840 mila posti in tre anni. Nel 1977 si raggiunse un picco della disoccupazione giovanile attorno al 38%, allora c’erano molti giovani, la generazione dei baby boomers nata negli anni Cinquanta. Ha funzionato. Abbassò la disoccupazione dal 38 al 18%. E lo fece direttamente il governo. Oggi si potrebbero assumere i giovani, che in percentuale sono di meno, nell’integrazione digitale della pubblica amministrazione, nell’aumento della diagnostica nella sanità pubblica, nelle politiche di integrazione e recupero nell’istruzione pubblica, nella messa in sicurezza del territorio, in un grande piano di modernizzazione dei beni culturali, nell’edilizia del riuso e per abbassare il consumo di suolo. Sono grandi esigenze del Paese che una volta messe in moto dal pubblico possono creare nuove economie.

 

RDG: Quanto costa?

DB: Trenta miliardi in tre anni, quanto ha speso il governo in tre anni dando soldi alle imprese e ai ricchi. Hanno prodotto 105 mila posti di lavoro aggiuntivi nel 2015 rispetto al 2014. La nostra proposta creerebbe direttamente 600 mila posti di lavoro e indirettamente 830 mila posti di lavoro per un saldo complessivo triennale di 1 milione e 300 mila posti di lavoro.

 

RDG: L’obiettivo del governo è depotenziare il contratto nazionale spostando i benefici sul contratto aziendale. In cambio si parla di misure, non meglio chiarite, di partecipazione dei lavoratori alla governance dell’impresa. Che ne pensa?

DB: Mi sembra demenziale. La stragrande maggioranza delle imprese sono piccole e non si capisce che cos’è la partecipazione e quali sono le garanzie per un salario di secondo livello. Il governo vuole affrontare il secondo livello trascurando che nella crisi si è molto ridotto e che comunque è sempre stato inferiore al 50% dei lavoratori. Mentre i dipendenti pubblici hanno il contratto bloccato.

 

RDG: Si punta a detassare i premi all’interno di uno scambio tra salario e produttività. Il modello è, ancora una volta, la Germania: su questo Confindustria e governo sembrano essere d’accordo. È quello di cui ha bisogno il nostro Paese?

DB: L’aumento della produttività si fa in due modi: con il lavoro e il capitale. In Italia quella bassa è quella del capitale. Molto alta è invece quella del lavoro, visto che in questo Paese si lavora bene e di più degli altri Paesi europei. Sono le imprese a dovere investire, e non lo fanno. C’è un problema di domanda. Se nessuno sostiene la domanda in maniera straordinaria, e si aumenta la pura produttività, quella finale, si aumenta la disoccupazione. Questo è il rischio. In Italia – tanto per parlare dei capitalisti reali – ci sono tre tipi di impresa: quella piccola non fa investimenti perché è troppo dipendente dalle banche e non hanno capitali propri; poi c’è una parte mediana di qualità: fa il 93% delle esportazioni, investe, ha capitale sociale e reinveste una parte dei profitti; c’è poi la grande impresa che non investe e non esporta: la Fiat-Fca ha il 2% del mercato europeo dell’auto, il 30% di quello italiano. Abbiamo i grandi che non fanno quello che fanno negli altri Paesi e ricattano il potere politico per continuare quello che fanno; sono le medie che investono e sostituiscono le grandi imprese. Di questo problema non se ne parla mai: se si vuole aumentare la produttività si chieda alle grandi imprese di investire. È un pensiero senza base logica.

 

RDG: Senza contare che questi grandi capitalisti portano la sede fiscale delle loro aziende in Paesi dove la tassazione è inferiore: la FCA in Olanda, ad esempio.

DB: Appunto. Questo è un problema che non si risolve con lo scambio tra salario e produttività. Il problema è quello del reddito generale. Sul piano macroeconomico si pensa che una crisi di domanda la si risolve con una politica dell’offerta, producendo come prima ma a costi inferiori. La crisi non si risolverà mai in questo modo. E i consumi resteranno stagnanti. Come al solito il governo ha preso una strada sbagliata.

 

RDG: Oltre a quello sul contratto, CGIL, insieme agli altri sindacati confederali, ha aperto un tavolo sulle pensioni. Come leggere questa nuova stagione? È una volontà di concertazione?

DB: Quando il governo ha cominciato a perdere fortemente il consenso nel Paese ha provato a mettere dei paracadute. La concertazione è condividere fini tra soggetti di pari dignità. In questo caso non si condividono fini con il governo e il governo non pensa affatto di farlo con le forze sociali. Per noi questa non è una svolta, né nel metodo né nel merito. Cercano sostegni qui e là, visto che il piglio corsaro è ammainato. La consideriamo una debolezza, più che una svolta politico-culturale. Noi comunque ci siamo presi la responsabilità sociale di sederci al tavolo, considerato l’attuale dramma sociale del sistema pensionistico. Ma resta un punto sostanziale su cui non c’è conciliazione possibile: il governo pensa all’anticipo pensionistico (APE). Ritiene che, in alcune circostanze da precisare, questo prestito possa costare poco o niente. Resta il fatto che è un prestito che il lavoratore fa a sé stesso. Non è un diritto, non è una prestazione. Dicono che il prestito non costerà in termini di interessi, né di assicurazione. Ma è l’idea del prestito che è inaccettabile. Se mi presto 30 mila euro, quei soldi non li avrò quando sarò andato in pensione. Si introduce inoltre una discriminazione tra i redditi dei lavoratori: se si guadagna 5.000 euro al mese si avrà un vantaggio rispetto a chi ne guadagna 1500. In questo modo si mandano in pensione persone con lo stipendio più alto. Ci sembra di capire che il governo andrà avanti. La CGIL non sottoscriverà mai questa proposta. Anche gli stessi lavoratori che per disperazione sociale aderiranno in futuro, non saranno d’accordo con l’APE.

 

RDG: Perché non riformano la legge Fornero, abbassando l’età pensionabile?

DB: L’APE è un trucco per abbassare l’età pensionabile senza fare intervenire la Commissione Europea che ha l’obiettivo politico di aumentarla in tutti i Paesi dell’Unione. È un altro aspetto dell’austerità flessibile. Se si tornasse indietro sulla legge Fornero per la Commissione sarebbe un problema.


Danilo Barbi: Componente della segreteria nazionale della CGIL e responsabile delle politiche dello sviluppo. Già segretario regionale per l’Emilia-Romagna della CGIL Scuola fino al 1991 e segretario generale della CGIL di Bologna. Ha diretto la Camera del lavoro per otto anni, fino a quando nell’aprile del 2002 è stato eletto segretario generale della CGIL Emilia-Romagna. A giugno del 2010 è stato eletto nella segreteria nazionale della CGIL per occuparsi di politiche macroeconomiche, politiche dello sviluppo, fisco e ambiente.
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