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maggiofil

Le cronache del nostro scontento

di Giorgio Gattei

I: 2011, il complotto di “re Giorgio”

giorgio napolitano1. E dire che ancora a maggio 2011 i conti pubblici dell’Italia apparivano agli occhi degli esperti talmente in ordine che l’agenzia di rating Fitch poteva assicurare che «non c’è nessuna evidenza che la situazione di bilancio dell’Italia si stia deteriorando» ed il Commissario Europeo Olli Rehn riteneva che «l’Italia fa bene il suo lavoro» (“La Repubblica”, d’ora in poi R., 24.5.2011). Di conseguenza lo spread, il differenziale di rendimento dei titoli pubblici decennali rispetto ai Bund tedeschi, veleggiava attorno ai 180 punti. Eppure in meno di un mese succede qualcosa e tutto precipita: la situazione finanziaria si fa insostenibile con lo spread che vola così all’insù che Moody’s, altra agenzia di rating, si dichiara «pronta a declassare l’Italia» (R., 18.6.2011).

Che cosa è successo di così tanto grave nell’arco di quel poco tempo? E’ successo che ha preso il via il complotto della finanza internazionale contro il premier Berlusconi, con l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che vi si accoda ubbidiente. Il fatto è che nei nuovi tempi del terzo millennio non c’è più bisogno di minacciare “rumor di sciabole” (come era stato costume nella seconda metà del Novecento in Italia) per cacciar via un governo; adesso basta uno scuotimento di spread, soprattutto se la regia è all’estero.

Ma ciò lo si poteva capire da subito (e chi doveva capire, ha capito) quando all’inizio di settembre parte dalla finanziaria Goldman Sachs l’ordine tassativo che è giunto «il momento di speculare contro» (R., 2.9.2011). Il povero Berlusconi è ormai “bollito” avendo deluso gli interessi dei creditori internazionali del nostro debito pubblico, ed il suo governo è «inadatto» a fare «le urgenti e importanti riforme strutturali e fiscali» che sono utili al paese, come ha spiegato fin da giugno l’economista USA Nouriel Roubini (R., 18.6.2011). Per questo Berlusconi va rimosso, ma solo dopo che si sia trovato il sostituto adeguato. Il compito della scelta è affidato a Giorgio Napolitano, che mette subito gli occhi su Mario Monti, già Presidente della Università Bocconi di Milano e Commissario Europeo per la Concorrenza, ma soprattutto ex-consulente Goldman Sachs (R., 18.4.2010). Il retroscena di questo “golpe economico” è stato ricostruito (e mai smentito) dal giornalista Alan Friedman nel libro Ammazziamo il gattopardo (Rizzoli, 2014) che d’ora in poi si seguirà.

 

2. Il complotto, che porta alla defenestrazione di Berlusconi, comincia nel giugno 2011 quando Napolitano si decide di «prendere in mano la situazione e agisce nel modo che pensava fosse corretto», sebbene ciò l’abbia portato «oltre una interpretazione del tutto corretta o restrittiva della Costituzione» perché «quell’ex-comunista di razza con la testa fine, convinto evidentemente di sapere cosa sarebbe stato meglio per il suo paese, si trasforma in un presidente superinterventista appropriandosi nel suo operato di poteri senza precedenti nella storia della Repubblica. Verso la fine del 2011 il presidente ha di fatto commissariato il governo e cambiato primo ministro. Così. Nel pieno di una crisi dell’euro che toccava l’Italia. Ma l’ha fatto senza consultare il Parlamento. Quando, il 16 novembre 2011, Mario Monti prestava giuramento al Quirinale, gli italiani non lo sapevano, ma l’idea di fare ricorso a Monti era nella testa di Giorgio Napolitano ben prima, già da mesi» (pp. 39-40). Il tutto, peraltro, realizzato con una difficile orchestrazione.

Stando alle testimonianze raccolte da Friedman, è all’inizio dell’estate che Napolitano si dà da fare, personalmente e segretamente, per sostituire l’inquilino di Palazzo Chigi. E’ lo stesso Monti ad ammettere ch’era la fine di giugno quando Napolitano gli chiese se sarebbe stato disponibile a diventare il nuovo Primo Ministro: «Sì, mi ha… mi ha dato segnali in quel senso» (p. 45). E anche Romano Prodi conferma che alla fine di giugno, su domanda, a Monti aveva consigliato: «Mario, non puoi far nulla per diventare presidente del Consiglio, ma se te lo offrono non puoi dire di no. Quindi non ci può essere al mondo una persona più felice di te» (p. 42). E Monti si prepara coscienziosamente a governare, richiedendo in estate a Corrado Passera un piano di rilancio dell’economia nazionale. Ma perché Passera? Ancora una volta è Napolitano a vederlo come «l’uomo perfetto a fianco di Monti, o come Ministro del Tesoro o, come sarebbe poi accaduto, nelle vesti di “superministro” per lo Sviluppo economico, l’industria, il commercio, le infrastrutture, i trasporti, l’energia, le telecomunicazioni» (p. 48). E’ ovvio che con queste attribuzioni in pectore il suo Piano di crescita sostenibile per l’Italia veramente veramente imponente e «dopo ben quattro bozze tra luglio e novembre nella versione finale contava 196 pagine».

Friedman, che ha potuto leggerne l’ultima bozza, ne riporta la pagina 4: siccome «serve un programma credibile di risanamento dei conti pubblici, ma soprattutto di rilancio dello sviluppo… dobbiamo proporci di creare le condizioni per poter raggiungere una crescita di almeno il 2% all’anno nel medio periodo e creare nuova occupazione in tempi brevi, portare i conti pubblici in pareggio possibilmente già entro il 2012, riportare il debito pubblico intorno al 100% del Pil entro tre anni». Tanto ambizioso risultato si poteva guadagnare solo con «una vera e propria terapia d’urto» fatta di «nuove regole di disciplina nella gestione dei conti pubblici e molte iniziative non convenzionali, anche di forte discontinuità con il passato» (pp. 50-51). Da ciò che riporta Friedman, nel Piano di Passera sono presenti sia manovre di austerità che di crescita, anche se poi all’atto pratico «la parte sulla crescita non è mai venuta fuori» (p. 52) con i relativi danni del caso se nel 2012 il PIL, invece di aumentare del promesso +2%, è finito addirittura in rosso: – 2,8% rispetto al +0,6% del 2011! Ma che importa? Ai gestori esteri del “golpe economico”, da creditori dei titoli pubblici nazionali quali sono, basta soltanto che il governo italiano si impegni a rimborsare, con gli interessi, il valore dei loro “crediti sovrani”, come per l’appunto farà il governo Monti con l’approvazione parlamentare dell’accordo di Fiscal Compact del luglio 2012.

Che qualcosa di simile a un “golpe” ci sia stato nel 2011 è comunque affermazione impegnativa che lo stesso Friedman, sia pure con tutte le cautele del caso, lascia intendere. Si aspetta che la pressione della speculazione finanziaria internazionale mandi lo spread alle stelle inguiando il governo costretto a pagare più interessi finché, convinto il premier “decotto” a fare un passo indietro, Napolitano può «designare Monti nuovo primo ministro. Bim bum bam. Anche se per motivi nobili e senso dello Stato, la Costituzione della Repubblica d’Italia è appena stata strapazzata… Napolitano ha compiuto un gioco di prestigio o, come suggerisce il “Financial Times”, ha fatto un forced intervention e cioè una sorta di forzatura». Per dirla altrimenti, nominando Monti è stato commesso «uno strappo costituzionale», e se proprio non si vuole parlare di “golpe” «si potrebbe sostenere che fu il risultato della moral suasion dell’Europa su Napolitano, e che il presidente della Repubblica si è comportato nel modo in cui aveva imparato a comportarsi durante sei decenni di vita politica attiva, come ex comunista» (p. 56-57), pronto ad ubbidire agli ordini superiori, specialmente se provenienti dall’estero (quand’era comunista dall’URSS, adesso che non lo è più anche da altrove). Però va capito. Non era stato proprio lui ad essere considerato da Henry Kissinger «il “mio comunista preferito”, un uomo che spesso servì come “ponte” con la stessa amministrazione USA che stava cercando di destabilizzare il PCI in favore di Andreotti e della DC tra gli anni Settanta e Ottanta, in piena Guerra Fredda» (p. 58)? Insomma, Napolitano, già referente degli Stati Uniti in Italia da comunista, poteva mancare di esserlo per il nuovo potere finanziario internazionale quando non lo è stato più?

Ma ormai c’è da concludere: va riconosciuto che in Italia «c’è stato, dal novembre 2011, qualcosa come un deficit di democrazia nelle azioni di Napolitano, e forse la Costituzione è stata strapazzata. Ma tanti italiani preferiscono utilizzare per rispetto una parola molto più dolce, la chiamano “forzatura” e poi passano oltre» (p. 59).

 

3. Però siamo andati troppo avanti perché, mentre Napolitano sta ancora predisponendo i suoi uomini in pole position, altri personaggi ben più “pesanti” entrano in scena per dettagliare pubblicamente al presidente Berlusconi quanto si aspettano che lui faccia e, per sua delega, lo faccia il popolo italiano.

A dar retta ai giornali, l’azione sarebbe partita da Washington all’inizio di agosto quando il Segretario del Tesoro Tim Geithner (di provenienza Fondo Monetario Internazionale), preoccupato per l’eccessiva esposizione delle banche americane nei confronti del debito pubblico italiano, si accorda con la cancelliera tedesca Angela Merkel, il presidente francese Nicolas Sarkozy ed il governatore della BCE Jean-Claude Trichet per costringere il governo Berlusconi ad adottare «l’anticipo dei tagli al deficit, il pareggio di bilancio nella Costituzione, la liberalizzazione dei mercati», perché in caso contrario «l’Italia andrà commissariata» (R., 6.8.2011). La minaccia è messa poi per iscritto in una lettera a Berlusconi del 5 agosto 2011 che porta la firma del governatore della BCE e del suo vice (prossimo a subentrargli) Mario Draghi, anche lui ex-consulente Goldman Sacks. E’ una lettera riservata che tuttavia viene resa pubblica l’11 settembre dal “Corriere della Sera” quando Berlusconi prova a non prenderla in considerazione. Ma cosa dice o piuttosto intima la lettera? Che «l’Italia deve con urgenza rafforzare la reputazione della sua firma sovrana e il suo impegno alla sostenibilità di bilancio e alle riforme strutturali» adottando una serie di misure di politica economica che riducano l’incidenza del debito pubblico sul PIL. Ma come? Mediante «decreti legge seguiti da ratifica parlamentare entro la fine del settembre 2011» che rendano «più stringenti le regole di bilancio». Per questo si prevede «il bilancio in pareggio nel 2013 principalmente attraverso tagli di spesa», ma pure interventi «nel sistema pensionistico rendendo più rigorosi i criteri di idoneità per le pensioni di anzianità e riportando l’età del ritiro delle donne nel settore privato rapidamente in linea con quella stabilita per il settore pubblico, così ottenendo risparmi di spesa già nel 2012. Inoltre il Governo dovrebbe valutare una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego rafforzando le regole per il turnover e, se necessario, riducendo gli stipendi». Ma perché non riformare anche «il sistema di contrattazione salariale collettiva permettendo accordi a livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto agli altri livelli di negoziazione»? Da ultimo c’è la richiesta, che poi Mario Draghi ha chiamato del «pilota automatico», d’inserire la clausola per cui un eventuale sforamento degli obiettivi concordati con le autorità monetarie europee venga «compensato automaticamente con tagli orizzontali sulle spese discrezionali», come ad esempio con l’aumento dell’IVA, così da esautorare il Parlamento da prendere qualsiasi decisione in merito (è la cosiddetta “clausola di salvaguardia” che sarà pure introdotta dal governo Berlusconi e poi confermata dai successivi governi Monti, Letta e Renzi).

A fronte di tanto ultimatum Berlusconi sul momento fa lo gnorri, lasciando trascorrere la scadenza di settembre senza prendere provvedimenti. Ma mal gliene incoglie perché intanto viene resa pubblica la lettera del 5 agosto, così che tutti i cittadini sappiano del suo “delitto”, e poi tra 20 settembre e 8 ottobre le tre agenzie internazionali di rating (Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch) lanciano una vera e propria offensiva finanziaria declassando il debito pubblico italiano, così da suggerire agli investitori internazionali di trasferire i propri capitali su altri titoli pubblici più sicuri, come ad esempio quelli tedeschi. Per richiamarli su di sé al governo italiano non resta che offrire tassi d’interesse più elevati di quelli tedeschi (è il premio per l’assunzione di un maggior rischio), così che il differenziale di rendimento dei BTP decennali rispetto ai Bund equivalenti trapassa dai 180 punti di maggio ai 575 di novembre con un «caro-spread costato all’Italia 4 miliardi di interessi in più sul debito», come valutano i giornalisti (R.,14.11.201). L’alternativa, per non subire il ricatto finanziario, sarebbe quella di proclamare il default, ossia di rinunciare ad “onorare” i propri debitori, come aveva fatto l’Argentina nel 2002 con gli italiani creditori che stanno ancora leccandosi le ferite, ma poi chi è che finanzia più il debito pubblico nazionale? Comunque che una combine internazionale ci sia stata per manipolare il mercato dei titoli pubblici italiani è sospetto molto probabile, tanto che la magistratura di Trani vorrà vederci chiaro investigando, almeno, su Standard & Poor’s e Deutsche Bank (R., 7.5.2016).

A stringere comunque Berlusconi alle corde provvede la cancelliera tedesca, secondo il retroscena ricostruito dal “Wall Street Journal”, telefonando il 20 ottobre a Napolitano perché si decida a sostituirlo con quel Mario Monti ormai in panchina (naturalmente Napolitano ha smentito, ma la Merkel no) (R., 31.12.2011). Seguono i due vertici internazionali che fanno precipitare la situazione: a Bruxelles, il 23 ottobre, Sarkozy e Merkel concedono a Berlusconi solo «tre giorni di tempo» per adottare i provvedimenti che gli sono stati imposti – e tutti ricordano la risatina ironica tra i due alla domanda di un giornalista se si fidino ancora del premier italiano (R., 24.10.2011); e poi a Cannes, il 3 novembre, con la Merkel che a un Berlusconi ormai «disarmato e nudo» «grida in faccia: la crisi [dell'euro] è colpa tua» (R., 31.12.2011).

E arriviamo così ai «dieci giorni che sconvolsero l’Italia», secondo il titolo del retroscena di R., 20.11.2012 (in seguito si sono aggiunti solo dettagli insignificanti): «questa crisi – ammette il leghista Roberto Maroni – è come quel meteorite che ha provocato l’estinzione dei dinosauri. Da questo momento in poi ogni cosa sarà diversa». Si comincia l’8 novembre con Napolitano che minaccia di spedire l’esecutivo davanti alle Camere per un voto di fiducia se non arriveranno le dimissioni di Berlusconi dopo l’approvazione della legge di stabilità. Il giorno dopo, per far vedere che non si scherza più, sulla Borsa si scatena una tempesta speculativa che le fa perdere il 4,6%, mentre lo spread arriva ai 575 punti e il tasso d’interesse dei BTP supera il 7%, – e solo quando Napolitano con due comunicati ufficiali garantisce che Berlusconi se ne andrà, il mercato si calma e la Borsa può chiudere a -3.8%, ma con i titoli Mediaset che perdono il 12% (R., 10.11.2011). Nello stesso giorno il capo dello Stato gioca la carta che aveva finora tenuta nascosta e «nomina senatore a vita Mario Monti nella sorpresa generale, una mossa che si rivelerà decisiva e che farà precipitare la crisi verso l’incarico al professore». Nella compagine governativa c’è però ancora Umberto Bossi che vorrebbe fare resistenza, ma una telefonata allarmata di Ennio Doris lo gela: sono tutti in riunione e Berlusconi «prova a scherzare e aziona il vivavoce. Doris non lo capisce ed esplode il dramma: “Silvio, ti supplico. Devi andartene, lascia. Se continua così perdiamo tutte le aziende”. L’interlocutore non sorride più. Balbetta e poi tenta una difesa: “Ma la Lega non vuole, se lascio si rompe l’alleanza con Bossi”. “Ma che t’importa della Lega – gli risponde Doris – Pensa alle aziende”. Il senatur si alza e se va». Per Berlusconi è la fine. Il 12 novembre è votata la legge di stabilità e sul tavolo di Napolitano arrivano le sue dimissioni “volontarie”.

E’ domenica 13 novembre quando il Capo dello Stato può finalmente dare l’incarico di formare il governo al neo-senatore Mario Monti, così che quella investitura non risulta per niente extra-parlamentare. Restano ancora piccole scaramucce sulla scelta dei ministri, ma il più è fatto e il 16 novembre il nuovo governo giura nelle mani del “regista” Napolitano. Come si racconta nel retroscena giornalistico, «a quel punto il “mondo era davvero sconvolto” e il “meteorite” aveva colpito il “pianeta della Seconda Repubblica”» (R., 20.11.2012). Più prosaicamente, il complotto di “re Giorgio”, preparato con tanta fatica, si era consumato.

 

II. 2012, arriva Monti con il Fiscal Compact

monti vampiro1. Dal libro di Alan Friedman Ammazziamo il gattopardo (Rizzoli, Milano, 2014) s’è appreso come nel 2011 il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (in combine con “poteri forti” internazionali) abbia provveduto a sostituire Silvio Berlusconi con l’outsider Mario Monti. E’ stato questo il suo capolavoro, sebbene al prezzo di qualche «forzatura costituzionale» (p. 59), ma lui l’ha fatto «per il bene del Paese», anche a rischio di passare come «il presidente della Repubblica più interventista che l’Italia abbia conosciuto nella sua storia repubblicana, un presidente ancor più interventista e hands-on di Francesco Cossiga» (p. 273).

Come che sia, il 4 dicembre 2011 il nuovo premier Monti può presentarsi in Parlamento con il decreto Salva Italia, ossia con «una manovra da 30 miliardi che sarà ricordata dalla storia come la più pesante da quando Giuliano Amato nel 1992 aveva imposto il prelievo forzoso dalle tasche degli italiani» (p. 60). C’è l’introduzione dell’IMU anche sulla prima casa, l’Iva al 23% e poi quella «bomba della riforma delle pensioni» che farà piangere in pubblico la ministra Elsa Fornero.

Ma è quanto basta perché coloro, che a metà 2011 prevedevano l’euro in caduta libera per colpa italiota (Colpire l’Italia per far sparire l’euro: i fondi lanciano l’offensiva finale, “La Repubblica”, d’ora in poi R., 12.7.2011), si ricredano perché «Roma torna sulla scena» e con il Commissario europeo Olli Rehn che assicura che «le priorità fissate da Monti sono quelle giuste. Siamo partner e lavoreremo insieme» (R., 26.11.2011). Da parte sua l’economista d’oltre-Atlantico Nouriel Roubini ha già fissato il “compito a casa” da fare: «ora che siete diventati credibili, tagliate il debito almeno del 25 per cento» (R., 30.11.2011). Ma Monti è sicuro di farcela perché l’Italia è ormai liberata dalla “ipoteca Berlusconi” e con lui nei prossimi anni (diciamo cinque?) «il PIL può crescere del 10%» in forza di una produttività che aumenterà anch’essa del 10% (R., 21.1.2012). E quindi si precipita a New York a piazzare il debito pubblico, ritornandone euforico: «Ho convinto Wall Street. Si possono fidare dei nostri Bot» (R., 11.2.2012).

Eppure, se l’Italia è stata “messa in riga”, non è però che per l’euro siano tutte rose e fiori se proprio all’inizio del 2012 gli stessi analisti finanziari ne paventano La morte lenta che la BCE non può fermare (R., 8.1.2012). Il rischio è la possibilità di fuga degli investitori dai titoli pubblici dell’eurozona ed è nuovamente una agenzia di rating, la Standard & Poor’s, a dare il via declassando in una giornata «mezza Eurolandia» (R., 14.1.2012). A mantenere la “tripla A” (ch’è la massima valutazione di rating) restano solo Germania, Olanda, Finlandia e Lussemburgo, mentre l’Italia precipita in serie B (sia pure BBB+). Ma già si minaccia di togliere la “tripla A” anche alla Germania se continuerà a finanziare i paesi “maiali” (PIGS = Portogallo, Italia, Grecia, Spagna) acquistandone a man bassa i debiti pubblici (R.,15.1.2012).

Il fatto è che l’Unione Monetaria Europea è nata malamente avendo accozzato paesi strutturalmente creditori in quanto esportatori netti di merci, come la Germania, con paesi debitori che sono importatori netti di merci come, per l’appunto, i “maiali”. La differenza di valore delle merci scambiate si pareggia poi coi titoli pubblici dei paesi debitori, che i paesi creditori sottoscrivono allegramente sicuri di riavere indietro alla scadenza il denaro prestato e di guadagnare nel frattempo congrui interessi. Ma se alla lunga il rimborso del debito diventasse impossibile perché troppo ingente e i paesi “maiali” fossero costretti a proclamare il default, e cioè a dire “io non pago”? Nel 2011 con la Grecia ci si era andati vicino chiudendo in extremis con un prestito europeo di 134 miliardi di euro a fronte dell’impegno di Atene di ridurre del debito pubblico al 120,5% del PIL entro il 2020. Ma se questo succedesse altrove, ad esempio in Italia con un debito pubblico per quasi il 40% in mano ad investitori stranieri? Ad evitare che i creditori si trovassero minacciati nei loro sacrosanti rimborsi non sarebbe stato il caso d’imporre ai governi “maiali” una procedura di restituzione obbligatoria del debito che li impegnasse formalmente, essendo i debitori sempre colpevoli in lingua tedesca, dove la parola Schuld significa sia debito che colpa?

E’ stata questa la ragion finanziaria che ha indotto «l’asse Merkel-Sarkozy» sul finire del 2011 a programmare l’imposizione di «un trattato europeo più duro» (R., 6.12.2011) perché dotato di un meccanismo di “disciplinamento fiscale” basato sul doppio vincolo che i singoli governi non facessero più disavanzi (è la regola d’oro del “bilancio sempre in pareggio”), mentre il debito pubblico accumulato avrebbe dovuto essere ridotto in un congruo numero di anni fino alla percentuale canonica (perchém iscritta fin dal Trattato di Maastricht del 1992) del 60% del PIL. E’ stato questo l’accordo di Fiscal Compact imposto all’eurozona nel corso dell’anno “di disgrazia” 2012, giusto l’ammonimento della cancelleria tedesca Angela Merkel (ad approvazione avvenuta) che «dobbiamo trattenere il fiato per almeno cinque anni, tanto tempo al minimo ci servirà per uscire dalla crisi economica in cui attualmente si dibatte l’eurozona, un periodo nel corso del quale occorrerà portare avanti le dure, spesso dolorose, riforme di strutture e le severe politiche di risanamento dei conti pubblici» (R., 4.11.2012). Che poi non si dica che non siamo stati avvertiti…

 

2. Il Fiscal Compact non è stato altro che la ricaduta pratica della cosiddetta “teoria” della austerità espansionistica che però teoria non è affatto, essendo piuttosto un risultato statistico peraltro discutibile (ma al giorno d’oggi gli economisti, invece di “pensare in astratto”, preferiscono ricavare i loro teoremi direttamente dalla evidenza empirica – e la chiamano econometria). Secondo questa pretesa teoria, a ridurre l’incidenza del debito pubblico sul PIL la produzione del reddito non ne soffrirebbe affatto e addirittura ne guadagnerebbe, contrariamente a quanto sostenuto dagli economisti di tradizione keynesiana. La prova stava nei dati statistici meticolosamente raccolti nello studio Crescita in un tempo di debito da Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff e pubblicato dal National Bureau of Economic Research nel 2010. Sulle 2317 osservazioni relative a 20 paesi nel corso di duecento anni (però soltanto per gli Stati Unitisi si partiva dal 1790, con gli altri paesi si iniziava dalla metà se non dalla fine dell’Ottocento) era risultato che a un debito pubblico superiore al 90% del PIL si associava un saggio di crescita medio del reddito dell’1,7%, che però saliva al 3,4% quando il debito era inferiore al 90%. Per l’Italia i dati erano ancora più sorprendenti: crescita dello 0,7% per un D/PIL > 90%, dell’1,9% con D/PIL tra 90-60% e del 4,9% al di sotto del 60%. Insomma i fatti storici documentavano. come ne concludevano gli autori della ricerca, che «le alte percentuali del debito sul PIL (90% e più) sono associate a risultati di crescita notevolmente più bassi», essendo il 90% il discrimine della «intolleranza debitoria» che non avrebbe mai dovuto essere superato e, se lo fosse stato, urgentemente riguadagnato.

Nello stesso anno 2010 anche Alberto Alesina aveva presentato ai ministri finanziari europei riuniti a Madrid la sintesi di alcune sue precedenti ricerche statistiche sugli Aggiustamenti fiscali: lezioni dalla storia recente. In questo caso erano i dati di 21 paesi dell’OECD dal 1997 al 2007 a far emergere il principio che «riduzioni anche pesanti dei deficit di bilancio sono state accompagnate o immediatamente seguite da una crescita economica sostenuta», e questo anche «nel brevissimo periodo». Di conseguenza i creditori dei “debiti sovrani” potevano a giusta ragione richiedere indietro i soldi prestati spingendo le economie dei paesi debitori verso una maggiore crescita a causa dello scatenamento degli “spiriti animali” dell’imprenditoria privata non più frenata dal fardello del debito pubblico. Ma i loro governi avrebbero condiviso? Una ulteriore evidenza econometrica offerta da Alesina rassicurava: i governi che riducono i disavanzi, infatti, «non ci rimettono drasticamente né sistematicamente in termini di popolarità e nemmeno rischiano di perdere le elezioni successive». Insomma, siccome la storia precedente dimostrava che gli “aggiustamenti fiscali” non erano «necessariamente costosi né in termini di perdita di output né di voti», perché non introdurli al più presto e dappertutto in Europa?

Fu così che l’allora presidente della BCE Jean Claude Trichet annunciò à tout le monde, in una intervista a “Libération” dell’8 luglio 2010, ch’era «un errore pensare che l’austerità fiscale sia di danno alla crescita e ai posti di lavoro», mentre il potente ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble se ne uscì sinteticamente confermando che «i piani di austerità NON creano recessione» (R., 11.3.2012). Era fatta, e ad istruire il nostro governo aveva peraltro provveduto Nouriel Roubini quando gli aveva assegnato il compito di «portare il debito pubblico al 90% del PIL dall’attuale 120% e per raggiungere l’obiettivo serve una riduzione da quei 2000 miliardi in essere a 1500» (R., 30.12.2011). Mancava soltanto l’approvazione della procedura di rientro, così che da allota in poi potesse risuonare l’inesorabile ritornello: “ma ce lo chiede l’Europa!”.

 

3. Elaborato la “teoria” da parte degli econometrici, gli si è dato corpo con quell’accordo di “consolidamento fiscale europeo” che ha preso il nome di Fiscal compact. Però fin da subito la Gran Bretagna si sfila perché lo considera «un Trattato contro i nostri interessi» (R., 10.12.2011), poi ci sono 12 primi ministri, a guida Monti, che provano ad implorare che gli si affianchino anche misure per la crescita (Growth compact), «altrimenti rigori e sacrifici chiesti fin qui varranno poco» (R., 21.2.2012). Ma gli va male perché Francia e Germania fanno muro e a marzo 2012 si va alla firma di un trattato assolutamente d’importanza storica con il quale i parlamenti europei rinunciano «in larga misura alla sovranità che hanno esercitato per secoli sui bilanci nazionali: avranno ancora un certo margine per decidere come raccogliere le entrate e come distribuire le spese, ma non avranno più veramente voce in capitolo sui saldi di bilancio» (R., 3.3.2012). All’ultimo minuto anche la Repubblica Ceca defeziona non accettando di farsi mettere sotto tanta tutela, ma tutti gli altri, come ubbidienti soldatini, dicono di sì. Certamente nell’accordo è previsto un certo grado di flessibilità perché le decisioni della Commissione europea (che è un organo nominato e non eletto) devono essere approvate dal Consiglio europeo, ma siccome per le eventuali correzioni ci vuole la maggioranza qualificata, le decisioni della Commissione risultano, di fatto, blindate. E se ne vanta il suo presidente, José Manuel Barroso, convinto di aver così «reso l’euro irreversibile» (R., 3.3.2012).

In Italia l’approvazione del Fiscal Compact avviene in una successione di momenti, ma sempre di corsa (quando poi si dice che ci vuole del tempo tempo per fare le leggi…). Già il 20 aprile 2012 il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano può firmare la legge costituzionale che modifica l’art. 91 della Carta del 1948 imponendo la regola del pareggio di bilancio e limitando il ricorso al disavanzo solo «al verificarsi di eventi eccezionali». Va però detto che il disegno di legge era stato presentato a settembre 2011 dal Ministro delle Finanze del precedente governo Berlusconi, Giulio Tremonti, ma con Monti le approvazioni parlamentari vanno via spedite se si pensa che una legge costituzionale richiede quattro votazioni e una “pausa di riflessione” di tre mesi tra la seconda e la terza. Ma c’è più bisogno di rifletterci sopra? Il pareggio di bilancio, che dovrebbe entrare in vigore dal 2014, è votato a larghissima maggioranza (si astengono solo Lega Nord e Italia dei Valori), superando anche i due terzi dei parlamentari in entrambe le Camere così da impedire l’eventuale ricorso ad un referendum confermativo da parte dei cittadini.

Con quella legge viene modificato pure l’art. 119 della Costituzione con l’aggiunta dell’obbligo della «osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento della Unione Europea». E’ così che si “costituzionalizza” la successiva approvazione del Fiscal Compact che avviene il 23 luglio, a parlamento prossimo ad andare in ferie. Con esso s’impone a tutte le parti contraenti (art. 3) che il loro bilancio pubblico si chiuda «in pareggio o in avanzo», a meno delle solite «circostanze eccezionali». Fa spicco, rispetto al nostro nuovo dettato costituzionale, che si consideri pure il caso di un avanzo di bilancio che, qualora si presentasse, non richiederebbe alcun provvedimento di aggiustamento fiscale (ad esempio di fare più spese o elevare meno tasse). Ma si può supporre che l’aggiunta sia d’iniziativa tedesca, il cui bilancio pubblico, dopo essere precipitato in un disavanzo di 108.904 miliardi di euro nel 2010, era ormai prossimo ad andare in avanzo (ci arriverà nel 2014), con la Germania che non avrebbe avuto nessuna intenzione di farselo “scippare” per uno stupido obbligo al pareggio dei conti. Saranno invece gli Stati in disavanzo a provvedere con urgenza a «correggere le deviazioni in un periodo di tempo definito» con meno spese e più tasse, e anche mediante «manovre automatiche di correzione» come le c.d. “clausole di salvaguardia”, secondo le indicazioni di rientro “suggerite” dalla Commissione europea.

Naturalmente, non essendoci più possibilità di disavanzo, il debito pubblico non crescerà. Ma per quello già in essere? Dovrà essere ridotto, come imposto dall’art. 4, perché «quando il rapporto del debito pubblico e il prodotto interno lordo di una parte contraente supera il valore di riferimento del 60%,.. tale parte contraente opererà una riduzione a un ritmo medio di 1/20 all’anno». Generosamente si dà il tempo di un ventennio per rientrare nel parametro del 60%, ma per l’Italia, in cifre, cosa vuol dire? Siccome nel 2012 il debito pubblico nazionale sfiorava il 120% del PIL (in termini assoluti all’incirca 2000 miliardi di euro), lo si dovrebbe dimezzare nell’arco di 20 anni a colpi di 50 miliardi di “debito restituito” all’anno (R., 3.7.2012). Secondo però una simulazione più attenta per tener conto dell’andamento del tasso d’interesse sul debito che comunque residua, della crescita reale del PIL e dell’inflazione a venire, dai 50 miliardi di euro iniziali si salirebbe ad un avanzo primario (la differenza delle entrate sulle uscite statali al netto degli interessi da pagare) di 134 miliardi nel 2035, quando il rapporto D/PIl calerebbe finalmente al 60% di Maastricht (G. Gattei e T. Iero, L’insostenibile rimborso del debito, www.economiaepolitica.it, 10.3.2014). Ma che importano i sacrifici di domani? Al momento ciò che conta è soltanto vincolare l’Italia al rispetto dei disavanzi che saranno fissati dalla Unione Europea, a cui si provvede con la legge 24 dicembre 2012 (buon Natale!) che fa divieto a governo e parlamento di «stabilire saldi di bilancio più gravosi di quelli definiti in sede europea»!

 

4. Chiuso nella gabbia del disciplinamento fiscale europeo, che secondo la “lezione” degli econometrici assicurerebbe sia crescita che consenso, il governo Monti può così andare a governare. E’ additato dal ministro delle finanze tedesco Schäuble come «un faro di speranza non solo per l’Italia, ma per l’Europa intera» (R., 11.3.2012). Eppure, alla fine dell’anno quel governo è più che “bollito”, tanto che si arriva a definirlo come «un governo maledetto» di cui liberarsi al più presto (www.economiaepolitica.it, 6.11.2012). Citando Monti, che nel presentare la legge di Stabilità per il 2013 aveva dichiarato che «oggi possiamo cominciare a vedere e toccare con mano che la disciplina di bilancio paga, la disciplina di bilancio conviene», si sospetta che qualcosa abbia fatto cilecca nella “austerità espansionistica” se, introdotta l’austerità (sei manovre di bilancio dal luglio 2011 all’ottobre 2012, perché a dare il via era stato Berlusconi nell’illusione, a fare così, di salvare la poltrona), l’espansione non era affatto seguita. Lo dimostravano impietosamente i dati statistici. A ottobre la Banca d’Italia era costretta a rinviare la ripresa «nel 2013» (R., 17.10.2012), poi la Confindustria la spostava «solo nel 2014» (R., 12.12.2012) dando il PIL in contrazione del 2,1% per un calo dei consumi del 3,2%, degli investimenti fissi dell’8,2% e, nonostante le esportazioni a crescere (+ 0,6), delle importazioni del 7,4%. Certamente il disavanzo statale era stato ridotto al 2,3% del PIL, ma come mai il rapporto Debito pubblico/PIL era aumentato dal 120,7% del 2011 al 125,9%, sfondando il tetto dei 2000 miliardi (R., 14.11.2012)? Ma è chiaro, spiegherà Romano Prodi ad Alan Friedman: «il governo Monti ha tagliato un po’, abbastanza, il numeratore, cioè la spesa, ma calando il denominatore, cioè il Prodotto nazionale lordo… L’austerità da sola uccide il paese» (p. 72).

A dicembre 2012 era giunta l’ora di sacrificare il fallimentare Monti (di cui si dirà, ma pare leggenda metropolitana, che avesse detto: «Eravamo sull’orlo del baratro. Abbiamo fatto un passo avanti!»). Silvio Berlusconi, che medita la vendetta per la cacciata dell’anno prima, gli comunica che toglierà la fiducia al Governo una volta approvata la legge di stabilità. E fatta la legge, Monti non può che dimettersi il 21.12.2012, ma «non per colpa della profezia dei Maya, prova a scherzare il premier dimissionario» (p. 74). Però adesso che fare di lui? Gli si presenta una uscita alla grande: sostituire al Quirinale il suo sponsor Giorgio Napolitano, il cui settennato scade nel 2013. E invece no! Abbacinato dalle dimostrazioni econometriche che i governi che praticano l’austerità poi vincono le elezioni, si fa prendere dalla «febbre politica… di partecipare alle prossime elezioni con l’obiettivo di succedere a se stesso come primo ministro». Carlo De Benedetti lo sconsiglia caldamente: «“Guarda, sbagli. Perché tu hai il tappeto rosso per andare al Quirinale, il tappeto rosso, tutto pronto”. E lui mi ha detto: “Io penso di essere più utile al paese come presidente del Consiglio”. Dico: “Guarda., tu non sarai primo ministro” E lui: “Ma io mi sono fatto misurare e ho un’area di consenso del 30%”. Dico io: “Ma guarda che l’area di consenso non c’entra niente con i voti, sia chiaro che l’area di consenso è una cosa molto…”. E lui: “Sì, ma non sarà il 30, sarà il 20”. “Guarda, va bene se arrivi al 10”, ho detto io» (pp. 73-74).

Così Monti “sale” (non “scende”, come aveva fatto Berlusconi) in politica il 25 dicembre 2012 con la lista “Scelta civica con Monti per l’Italia” in alleanza «con Casini, un ex democristiano non tanto ex», e Fini, «un ex Msi e poi ex An e poi ex Pdl e ora capo dei quattro gatti di Fli». Sarebbe questo il nuovo che avanza? Come che sia, «saltare a letto con Fini e Casini è forse l’errore fatale della sua carriera politica appena nata» (p. 77) perché quando poi si va a votare il 24-25 febbraio 2013 il popolo italiano, «troppo frastornato, confuso, spaventato e arrabbiato con la classe politica, con la casta e pure con Monti», realizza «il più grande pasticcio che si potesse immaginare»: alla Camera la coalizione PD (Bersani) prende il 29.55%, quella PdL (Berlusconi) tocca il 29.18%, mentre il neonato Movimento5Stelle (Grillo) conquista il 25.55%. E “Scelta civica”? Arriva al 10,56% dei voti ed è subito per lei sciolta civica.

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