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Sganciamento

A proposito di alcune discussioni sul debito e l'euro

di Leonardo Mazzei

Ripudiare il debito ed uscire dall'euro: per noi due facce della stessa medaglia, i primi due punti del programma per la riconquista della sovranità nazionale e popolare; per altri, invece, due strade alternative fra loro. Ecco un nodo degno di essere affrontato. Prima di entrare nel merito è bene però fare alcune osservazioni. La prima, è che le forze che hanno maturato la consapevolezza dell'assoluta centralità di queste due questioni (debito e moneta unica) sono ancora troppo deboli. La seconda, è che saranno invece i fatti a mettere questi due temi al centro della scena. La terza è che, come conseguenza di tutto ciò, quando verrà il momento il grosso delle realtà potenzialmente anticapitaliste ed alternative si troverà del tutto impreparato.

Un'impreparazione che, sommata alla profonda spoliticizzazione di massa figlia di un trentennio letargico, non potrà che favorire la gestione oligarchica di questi decisivi passaggi.

Sia chiaro, il blocco dominante non intende rinunciare all'euro. E, data la sua compenetrazione e subalternità al sistema di dominio della finanza euro-atlantica, esso non ha alcuna intenzione di intervenire, ristrutturandolo, sul debito. Il dogma di queste sanguisughe è che il debito va pagato. E, considerato anche che loro sono dalla parte dei creditori, va pagato in euro.

Questa è, ancora oggi, la linea prevalente. Quella che ha imposto il Napolitano bis al Quirinale e Letta il giovane a Palazzo Chigi. E' la linea che prevede nuovi e devastanti sacrifici per la stragrande maggioranza della popolazione italiana.

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Il futuro del possibile soggetto politico nuovo della sinistra

di Alfonso Gianni

Il dibattito sulle sorti della sinistra o autodefinendosi tale era finora insabbiato sotto le speculazioni attorno alle quotidiane interviste di Matteo Renzi o le proposte, più facete che serie, avanzate da alcuni esponenti di Sel, di congressi paralleli e convergenti fra grandi e piccole forze di una coalizione, Italia Bene Comune, che dopo avere perso di fatto le elezioni si è trovata, senza ancora avere ben compreso il perché, divisa fra governo e opposizione. Essendo il primo pessimo oltre l’immaginabile, mentre del tutto inadeguata la seconda, se non altro per mancanza di referenti e di insediamento sociali.

D’altro canto, dopo un primo sbandamento, la visibilità dell’opposizione nelle istituzioni spetta indubbiamente al Movimento 5 stelle che giustamente ha imparato presto ad usare tutte le armi di quello che una volta si chiamava il filibustering parlamentare lungamente praticato durante la cosiddetta prima repubblica dalle forze di opposizione di sinistra e di destra.

Siamo cioè di fronte ad un paradosso: il Movimento 5 stelle, dato precipitosamente per morto nelle recentissime elezioni amministrative, riprende fiato proprio in e grazie a quel parlamento che a parole Grillo dichiara di disprezzare tanto. Anche se questo non basta certo a frenare l’astensionismo, che dilaga anche tra i ceti “forti” orfani anch’essi di una qualche rappresentanza politica solida e affidabile, costretti quindi a oscillare di elezione in elezione tra il voto occasionale e il non voto.

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Attualità del Manifesto per un soggetto politico nuovo

di Sergio Labate*

0. Premessa

A rileggerlo adesso, il Manifesto per un soggetto politico nuovo, a distanza di poco più di un anno, le cose appaiono non dico più semplici ma forse più chiare. Molti avvenimenti sono seguiti, a cominciare dalla scelta di strutturare quel percorso sotto il nome di ALBA. Dopo quella scelta c’è stata la partecipazione indiretta al progetto di Cambiare si può. Esperienza fallita, senza dubbio, ma il cui fallimento ha reso evidenti delle dinamiche che erano al centro della critica del Manifesto al sistema politico e che, ancor di più, sono emerse con forza grazie agli esiti elettorali di febbraio. È proprio da qui che bisogna partire per evocare quella chiarezza rivendicata: il Manifesto poneva direttamente al centro dell’azione politica una critica alle forme moderne della politica. Questa critica non era né ricostruttiva né riparatrice, ma radicalmente innovativa.  Per utilizzare una doppia immagine celebre[1], in quel Manifesto si sosteneva una direzione politica nel segno di un’utopia della fuga e non di un’utopia della ricostruzione. La diagnosi sulla crisi della politica era infatti impietosa e si traduceva in una altrettanto radicale prognosi: non è possibile usare le macerie del già esistente per riqualificare i soggetti politici. Resta soltanto da ricominciare da tutt’altra parte, non contando sull’agonia delle esperienze terminali. ALBA nasce proprio da qui: non dall’idea tradizionale di dover conquistare l’egemonia dello spazio politico tradizionale, ma dall’idea che gli stessi rapporti politici devono evadere dal proprio spazio o, ancor più precisamente, si sono già insediati in tutt’altro luogo. Non è una critica ai politici, ciò che emergeva, ma una radicale critica dello spazio politico.

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L'impossibile svolta del PD

di Paolo Favilli

motivo6Nelle ultime settimane, nell'ambito di un intelligente forum del Corriere della Sera, mi hanno colpito queste righe pubblicate in un post:

«Ci sentiamo soli anche quando siamo in molti a condividere il destino, ... Siamo indifferenti (...) non ce ne importa più niente delle loro manovre e manovrine, ci hanno spento ogni passione insieme alle speranze ....Maledetti loro, maledetti noi che non abbiamo più un briciolo di forza per reagire, subiamo, abbozziamo, imprechiamo un po' e via andare (...). Non siamo più capaci di fare massa, abbiamo visto tutto quello che c'era da vedere e abbiamo capito che c'è poco o niente da fare. (...)». Sempre sullo stesso giornale, ma in un altro forum, uno dei partecipanti alla discussione dice di sentirsi in uno stato di «disperazione che diventa resa».

Il nesso tra la prevalenza ideologica e pratica del non ci sono alternative allo stato di cose presente e la «disperazione che diventa resa» è del tutto evidente. Quale è stato, quale è, il contributo del Pd alla trasformazione di questa ideologia in senso comune?

Alfredo Reichlin in un recente intervento ha fatto riferimento ad «un grande bagaglio di valori, di bisogni, e di passioni che ancora esiste» e che dovrebbe trovare, proprio nel suo partito, risposte adeguate (l'Unità, 9 luglio).

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Riportiamo un articolo di Contropiano che commenta gli incredibili avvenimenti di domenica attorno al "cantiere" TAV in val di Susa (con allegati alcuni articoli demenziali tratti dalla stampa mainstream) e, di seguito, le prese di posizione del blog femminista Me-Dea e della Coordinamenta che denunciano il trattamento "particolare" riservato alla compagna Marta fermata durante gli scontri.

 


La costruzione del "nemico No Tav"

di Dante Barontini

 La costruzione del “nemico” è parte integrante dell'arte di governo. Il problema serio è quando diventa l'unica attività di un governo, o come vogliamo chiamare quello attualmente installato a Palazzo Chigi.

Le stesse persone – o come le vogliamo chiamare – che hanno obbedito agli ordini di un ambasciatore kazako accampatosi negli uffici ai piani alti del Viminale hanno rovesciato tutta la propria residua capacità di “fermezza dello Stato” contro 500 manifestanti in Val Susa.

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L’imbroglio europeo di Letta

di Alfonso Gianni

Nell’ultimo sondaggio conosciuto, risalente al 1 luglio e realizzato dall’istituto Piepoli, le quotazioni del governo sembrano tornare ad essere in salita presso la pubblica opinione. In particolare è elevato l’apprezzamento verso gli ultimi provvedimenti economici emanati dal governo, quelli che dovrebbero favorire in particolare l’occupazione giovanile – obiettivo che in sé non può non essere popolare – e soprattutto la fiducia nel premier Letta riguarda il 51% degli intervistati con un incremento di ben otto punti in un solo mese. Quindi la luna di miele fra il “giovane” Letta e la nostra vecchia Italia procede senza screzi né problemi? Non sembrerebbe del tutto vero, se si distoglie un attimo l’attenzione dai sondaggi e si guarda alle reazioni dell’intelligentsia del paese, se così la vogliamo chiamare.

 

Ed è il caso di farlo, dal momento che sono assai in pochi coloro che conoscono il merito specifico dei provvedimenti economici del governo al di là delle copertine televisive. Del resto gli apprezzamenti nei sondaggi scendono se la domanda è se l’intervistato si aspetta reali miglioramenti nella situazione occupazionale e economica da questi provvedimenti.

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La voce del padrone

di Sandro Moiso

Una creatura nata morta. Riportata in vita e mantenuta in una sorta di coma terapeutico soltanto grazie a una incubatrice gestita, da cinquanta giorni a questa parte, da un infermiere quasi novantenne. Questo è il governo delle larghe intese di Enrico Letta. Un governo sempre più paralizzato, impossibilitato ad intervenire sulle conseguenze di una crisi economica devastante e, soprattutto, incapace di prendere qualsiasi tipo di provvedimento ispirato, anche solo lontanamente, ai bisogni di milioni di giovani e lavoratori, occupati, disoccupati e precari,  italiani.

Un mostro uscito dal peggior cinema di fantascienza giapponese oppure dalle tavole catastrofiche ed allucinate di Katsuhiro Ōtomo*. Un corpo politico e amministrativo che in tutte le sue componenti, anche le più periferiche, assume un comportamento che definire bipolare  è ancora poco. Un’attitudine comunicativa che si muove tra una falsa sicurezza per la durata del Governo e la sua capacità operativa (sempre più compromessa dalle sentenze degli ultimi giorni) e la disperazione per la situazione del lavoro e dell’economia nazionale e per le sue più che probabili conseguenze sociali.

  Il Ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni,  ha affermato che “la crisi attuale è peggiore di quella del ‘29”, ma è difficile dire se tale affermazione volesse giustificare le difficoltà del Governo, legate principalmente alla sua composizione, oppure costituisse la presa d’atto di un dato di fatto ormai scontato per numerosi economisti.

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La crisi del lavoro e il dominio delle oligarchie

di Francesco Ciafaloni

Democrazia in crisi e tracollo della sinistra

Il collasso italiano, assai più profondo della crisi mondiale di cui è parte, non è solo né soprattutto politico. Gli aspetti materiali, culturali, sociali – la scomparsa di alcuni settori portanti della nostra economia, il dissesto ambientale; la dipendenza culturale; la povertà vera, la privazione di beni e servizi indispensabili, non solo la frugalità involontaria, di molti italiani – sono certo più profondi, più sostanziali, più difficili della crisi politica, nel senso di crisi dei partiti. Ma, se non siamo, per ora, tra gli assolutamente poveri, è la condizione politica del paese che ci lascia, che mi lascia, letteralmente senza parole. Non siamo nuovi in Italia alla denuncia dell’opportunismo, della frode, della corruzione, in politica. Lungo prometter con l’attender corto è stato scritto in italiano più di sette secoli fa. La crisi della politica attuale comincia almeno trent’anni fa. Ma il balbettio, la menzogna evidente, l’equivoco verbale, il gioco di parole così rozzo da non ingannare nessuno di molti politici e antipolitici italiani, di destra e di sinistra, in questi ultimi mesi, non lo avevo mai sentito prima.

Le stesse persone che ci dicevano pochi mesi fa che bisognava allungare la vita di lavoro fin quasi a settant’anni, anche per i lavori manuali  – per favorire i giovani, per equità tra le generazioni – oggi programmano part time e uscite anticipate per i vecchi, sempre per favorire i giovani, per equità tra le generazioni.

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Il teatrino di Stato

di Walter G. Pozzi

Malgrado la solennità con cui è stata presentata, la rielezione di Giorgio Napolitano, alla fine dei conti, non può che apparire per quello che è: un giochino ben orchestrato. Una lunga narrazione iniziata con le ripetute dichiarazioni del protagonista di non avere alcuna intenzione di accettare una sua ricandidatura alla presidenza, e conclusa con la cerimonia ufficiale del suo rinnovato giuramento di fedeltà alla nazione.

Se è vero che la realtà è ciò che rimane una volta sfrondato l’intero impianto simbolico, di reale in questa vicenda resta ben poco: il vuoto politico degli ultimi vent’anni, la malafede dei suoi attori, il congelamento del Movimento 5 stelle e l’autodafé politico, definitivo, del Pd, esemplificato dall’insediamento del governo Letta in stretta complicità con Berlusconi. Occorre ammettere, a giochi conclusi, che desta sempre una certa impressione notare l’impatto positivo sui cittadini che riesce a ottenere la solennità di un atto ufficiale di Stato. Il Parlamento gremito, le telecamere, la diretta televisiva, gli stralci dei discorsi trasmessi nei telegiornali; la capacità che ha tutto questo di creare un consenso acritico, totalmente pre-razionale, nei suoi spettatori.

Forse qualcos’altro di reale, una volta strappate le erbacce simboliche, c’è. Ed è la rimozione. La rielezione a presidente della Repubblica di Giorgio Napolitano, e la maniera con cui è stata celebrata – un contesto ad alta tensione drammatica e con un portato emotivo costruito ad arte – appaiono un luminoso esempio della potente capacità delle forze istituzionali di azzerare il passato, anche il più torbido.

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Chiusa la partita delle amministrative

Ora che si fa?

di Aldo Giannuli

Poco da dire sui risultati del secondo turno delle amministrative: elettori in fuga, Pdl bastonato, M5s in caduta libera e Pd premiato perché, se il totale deve fare 100, qualcuno deve pur prendere le percentuali perse dagli altri. Il Pd sorride sicuro dopo aver preso tutti i 16 comuni capoluogo, ma se guardasse ai risultati in cifra assoluta riderebbe meno. Ripeto: nessuno faccia l’errore di pensare a queste astensioni come ad una perdita di interesse per le elezioni, per cui possiamo tranquillamente fare come se quegli elettori si fossero dissolti nel nulla. Quegli elettori ci sono e prima o poi li vedremo sbucare da qualche parte.

Molto meno allegro è il Pdl. Il risultato rimette seriamente in discussione la certezza di vittoria in caso di elezioni anticipate. I sondaggi perdono di credibilità, anche se dobbiamo tenere presente una cosa: il Pdl sul territorio esiste poco e nulla e sta perdendo quel poco di ceto politico-amministrativo che aveva, però le cose cambiano quando scende in pista il Cavaliere in prima persona. Quindi attenti a non rifare per la seconda volta l’errore di pensare liquidato il Pdl perché i suoi elettori alle amministrative stanno a casa: come si è visto a febbraio, una porzione di essi poi torna a votare Pdl se a chiederglielo è personalmente il Cavaliere. Questa volta, però, potrebbe esserci un problema in più: l’elettorato di destra sta mostrando di non gradire affatto le larghe intese con i nemici di sempre e, per di più, in un governo che, sostanzialmente, sta confermando la linea della massima pressione fiscale.

E’ interessante notare il crollo nelle roccaforti venete e brianzole della destra dove massimo è il peso dei piccoli e medi imprenditori, i più imbestialiti per Imu ed Iva.

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L’incoerenza della Lettanomics

di Stefano Lucarelli

Enrico Letta ha messo il lavoro e la lotta alla disoccupazione al centro delle sua agenda di governo. Si tratta di (buoni) propositi che però mal si conciliano con la zelante accettazione dei vincoli europei (le famigerate politiche di austerity) più volte ribadita dallo stesso premier. Molte riserve suscita anche il “modello di crescita” sul quale si impernia la politica del nuovo governo: trasformare l’Italia nella “piattaforma logistica d'Europa” è davvero una buona soluzione per uscire dalla crisi? 

1. Introduzione

Un governo di larghe intese difficilmente può proporre una linea coerente di politica economica. L’analisi economica delle istituzioni politiche (new political economy) – una linea di ricerca sviluppatasi a partire dalla scuola della Public Choice i cui risultati, costruiti su ipotesi comportamentali talora eroiche, sono senza dubbio da approfondire – mostra che il disavanzo fiscale è tendenzialmente più elevato nei governi di coalizione, in cui il potere politico è più disperso. In tal caso infatti tenderà a prevalere una logica di gestione delle risorse pubbliche finalizzata a ridurre gli elementi conflittuali che caratterizzano le varie anime della coalizione[1]. Da qui sorge l’incoerenza che può segnare le politiche economiche messe in campo da un governo di larghe intese.

Certamente tra i lettori ci sarà chi ricorderà l’aforisma di Giuseppe Prezzolini, secondo il quale “La coerenza è la virtù degli imbecilli”, oppure quello di Oscar Wilde, “La coerenza è l’ultimo rifugio delle persone prive di immaginazione”. Negli aforismi in effetti si può proteggere il buon senso, e forse quanto detto dagli artisti appena ricordati può valere per la coerenza intesa nel senso della logica matematica; in tal senso si dice coerente un sistema in cui non è dimostrabile nulla di contraddittorio, quando cioè non sono dimostrabili contemporaneamente un’espressione e la sua negazione.

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Acqua pubblica

Wu Ming

Il 12 e 13 giugno di due anni fa, circa 26 milioni di italiani hanno speso qualche minuto del proprio tempo per votare due sì al cosiddetto “referendum per l’acqua pubblica”. Oggi ognuno di loro farebbe bene a spendere altrettanti minuti per provare a capire cos’è successo nel frattempo e cosa si potrà fare in futuro.

Da più parti si sente ripetere che, come al solito, il referendum non è servito a niente. I privati continuano a gestire il servizio idrico locale e nelle bollette c’è ancora la famigerata percentuale per la remunerazione del capitale investito, ovvero: per fare profitti sicuri con un bene comune. Eppure, la narrazione del “voto inutile” va disinnescata, perché non solo è falsa, ma serve pure a delegittimare l’unico referendum vincente da diciassette anni a questa parte.

Certo non si può negare che la strada del cambiamento è stata fin dall’inizio piena di ostacoli. Giusto il tempo di abrogare le norme oggetto del voto, e subito il governo Berlusconi ha tentato di farle rientrare dalla finestra con l’articolo 4 del cosiddetto “decreto di Ferragosto”. Classica data balneare, utile per far passare nefandezze, ma la corte costituzionale ha bloccato il provvedimento proprio in virtù della volontà popolare uscita dalle urne. Poi ci hanno provato con il patto di stabilità, la manovra “salva Italia” del governo Monti e l’autorità per l’energia.

Tanto accanimento non dimostra solo che l’acqua è un buon affare, ma fa capire anche come gli sconfitti non possano accettare di esserlo.

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Le riforme costituzionali tra pretesto e realtà

nique la police

"Il capo del governo inglese non dice mai una cosa vera senza l'intenzione che sia presa per una menzogna; non dice mai una cosa falsa,
se non con lo scopo che sia presa per la verità"
(Jonathan Swift)

1. L'estinzione del lavoro in Italia malgrado lui.

Unico tra diciassette, tra poco tempo diciotto, paesi dell'eurozona l'Italia ha una Confindustria che evoca scenari di rivolta di piazza. Per bocca del suo principale rappresentante. Non solo, i giovani di Confindustria, recentemente riunitisi in Liguria, hanno sia paventato scenari di rivolta sociale che parlato di forme di reddito di cittadinanza nell'intervallo tra lavoro e lavoro. E se il primo giorno delle loro assise i giovani confindustriali hanno parlato di rivolta quello successivo è stato il turno della parola "rivoluzione". La loro organizzazione è al tramonto, forse irreversibile, ma si permette un uso dei concetti impensabile a sinistra. Dove, al massimo, è concesso impiccarsi onorevolmente ai concetti legati alle rifome e ai diritti e alla ormai, immancabile, notte in cui tutti i gatti sono neri detta classificazione dei beni comuni. Squinzi e Morelli, presidente di Confindustria giovani, usano così un linguaggio più radicale della Camusso e di Landini. I quali non solo non evocano scenari di rivolta sociale, una volta non esaudite le loro (blande) richieste, ma hanno dismesso qualsiasi ipotesi di calendario di lotte realmente incisivo da oggi all'autunno (quasi metà anno, cosa vuoi che sia in una crisi epocale). Per non parlare di realistiche rivendicazioni di una qualsiasi forma di reddito di cittadinanza. E qui viene spontaneo chiedersi: Camusso e Landini quando prevedono la piena occupazione?

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marx xxi

Recuperare la sovranità nazionale

Per salvare l’Italia dall’eurodisastro

di Spartaco Alfredo Puttini

A metà degli anni Settanta l’imperialismo attraversava una crisi profonda, dovendo fronteggiare al tempo stesso la pressione delle classi popolari nel cuore stesso della Triade dei paesi capitalistici avanzati e la lotta per l’emancipazione delle nazioni del Sud del mondo, di cui rimane emblematica la vittoria del Vietnam sugli Stati Uniti.

Nel breve volgere di qualche anno, a partire dal cuore dall’Anglo-America, cuore del sistema imperialistico, vengono adottate una serie di politiche, definite neoliberiste, che mirano a lanciare una controrivoluzione globale. La libera circolazione dei capitali, che attraversando le frontiere possono cercare di soddisfare la loro insaziabile sete di miglior remunerazione possibile, e la deregolazione dell’economia, con la fine dell’intervento pubblico e il taglio del welfare, mirano a recuperare il terreno concesso al proletariato e alle classi popolari nel corso del decennio passato e mettono nel mirino le stesse conquiste democratiche. Sull’altro fronte della lotta di classe internazionale si mira a legare i paesi del Sud del mondo al cappio dell’indebitamento strutturale per svuotarne la sovranità a colpi di ricette “consigliate” dai propri tentacoli: FMI e Banca mondiale.

Dagli anni ’80 in poi l’adozione di quell’insieme di politiche delinea quello che viene comunemente chiamato “Washington Consensus”.

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Governo Letta: larga l’intesa, stretta la via

di Alfonso Gianni

Mentre sul fronte delle politiche economiche si muove in sostanziale continuità con Monti, è sul terreno delle riforme costituzionali che il governo delle "larghe intese" dimostra un’insolita - e originale - determinazione. Del resto invocare l’istituzione di regimi presidenziali in tempi di crisi, fino all’attribuzione di poteri dittatoriali al mitico “uomo forte”, non è una novità, come ben sappiamo, nella nostra Europa (patria del diritto, ma anche delle peggiori nefandezze e mostruosità)

Mentre il nuovo segretario del Pd Guglielmo Epifani incassa l’assenso della Direzione del suo partito con soli sei astenuti, sulla base della dichiarazione che la discussione sulle riforme costituzionali va fatta in Parlamento e che bisogna tenere fuori sia il governo che la Presidenza della Repubblica, accade esattamente il contrario. Un caso di mala informazione? Non credo è che ormai le parole hanno perso di significato. In effetti il Pd aveva già votato, assieme al Pdl e approvato una mozione che impegnava il governo a presentare una modifica dell’articolo 138 per affrettare il dibattito parlamentare sulle riforme. Dal canto suo Napolitano aveva già dettato i tempi e i ritmi della discussione parlamentare, mentre Enrico Letta procedeva alla nomina di 35 esperti, con qualche presenza di sinistra per dividere il fronte, al fine di “confortare” il governo durante l’iter della riforma della seconda parte della Costituzione e della legge elettorale.

Se sul terreno delle riforme costituzionali il governo Letta mostra un’insolita determinazione, su quello delle politiche economiche la continuità è indubbiamente il tratto caratteristico che lo unisce al governo Monti. Se ne vedevano i segnali ante litteram: infatti non era difficile, per come si stavano predisponendo le cose, scommettere su una ultrattività del programma montiano al di là delle vicende e delle sorti politico-elettorali non travolgenti del suo alfiere.

La ragione di fondo sta nel fatto che tanto Monti quanto Letta si sono mossi e si muovono dichiaratamente entro il perimetro programmatico stabilito dalla nuova governance europea fin dalla famosa lettera della Bce al morente governo Berlusconi dei primi di agosto del 2011.