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Il Grillo, il Principe e la Terza Repubblica

di Pino Cabras

Alcuni consigli a Beppe sui candidati, sul governo e sul nuovo Capo dello Stato

    «… li buoni consigli, da qualunque venghino, conviene naschino dalla prudenzia del principe, e non la prudenzia del principe da' buoni consigli.» (Niccolò Machiavelli, Il Principe, cap. XXIII)
 
«…quindi dateci una mano piuttosto che martellarci, a me e a Casaleggio, di darci delle martellate in testa, dateci consigli, una mano, abbiamo bisogno tutti uno dell’altro. Grazie.» (Beppe Grillo, Comunicato n. 53, beppegrillo.it)

Quando Niccolò Machiavelli compilò quasi tutti i capitoli della sua opera più famosa, Il Principe, era il 1513. Mezzo millennio fa. L’autore osservava un’Italia debilitata, soggetta a mani barbare che la spossessavano. Machiavelli scrisse il Principe per trovare soluzioni politiche pratiche e per immaginare un soggetto forte che le mettesse in atto. Pensava che nella crisi di allora ci fosse comunque un’opportunità.

Esattamente cinque secoli dopo, l’Italia – in condizioni storiche certo assai diverse - è di nuovo la preda di poteri che la percorrono, la derubano, la dividono.

Anche nella crisi di oggi sorgono opportunità e pericoli affrontati da nuovi interpreti. Cambieranno presto molti di questi interpreti, muteranno i partiti politici, e in mezzo a questo tramutare in molti già ora vogliono dire la loro, esserci, sfiorare i panni che il Principe potrà vestire. Da qui i consigli, le adulazioni, le demonizzazioni.

Da qui anche il mio divertimento nell’accostare la frase di Machiavelli e quella di Beppe Grillo, ossia il soggetto politico che turba il sonno dei Principi decaduti riparatisi dietro Rigor Montis. Che Principe avremo nel 2013? Monti? Berlusconi? Bersani? O proprio Grillo? Andiamo con ordine.

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I cento giorni di Berluscone. Per Mediaset e per il bene del paese

Red

Troviamo un esempio tra i più divertenti dell'intera storia del giornalisno nel comportamento della stampa transalpina di fronte all'avanzata di Napoleone dalle coste francesi, proveniendo dall'esilio all'isola d'Elba, verso la capitale. In pochi giorni infatti gli stessi giornali, le stesse redazioni titolarono da "la canaglia di nuovo sul suolo di Francia", quando Napoleone era ancora dalle parti di Cannes, per passare ad un cerimonioso "sua maestà è tornata a Parigi", non appena Luigi XVIII fuggì precipitosamente dalla capitale francese per lasciar posto al ritorno di Napoleone il giorno successivo.

Chissà quali, e quanti, aneddoti ci lasceranno i prossimi cento giorni di Berluscone visto che l'uomo proviene dal mondo dello spettacolo. E chissà se finiranno in una Waterloo oppure in un incofessabile papello all'italiana. E' sicura una cosa: come i cento giorni di Bonaparte, i prossimi cento di Berluscone hanno robuste spiegazioni materialistiche. Che vanno ben oltre categorie psicologico-romantiche basate sul senso di rivalsa del personaggio e sulle ambizioni personali.

L'abbandono dell'isola d'Elba da parte di Napoleone, e il successivo ritorno in Francia, ad esempio andavano ben oltre la logica del calcolo militare.  Fu infatti la riforma agraria voluta da Luigi XVIII, che riportava la distribuzione della terra alle condizioni di prima del 1789, a creare quel malcontento diffuso che spinse molti francesi a pressare Napoleone all'Elba per spingerlo all'intervento. Bonaparte si era sempre fatto garante di una riforma agraria, la sua base sociale durante l'Impero, che salvaguardava molte conquiste del 1789. Riforma che con Luigi XVIII era stata messa in discussione.

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Dovremo diventare grillisti?

Cesare Allara

Prendo spunto dalla domanda che mi rivolge Gigi Viglino in merito al bel comunicato di Beppe Grillo sugli scontri di Roma (Soldato blu …) nel giorno dello sciopero europeo, “Quasi mi spiace, ma devo prendere atto. Onore al merito. Com'è? Dovremo diventare grillisti?”, per chiarire il mio pensiero sulla fase politica che stiamo attraversando. Viviamo una fase del capitalismo in cui tre pilastri della “tavola dei valori” che hanno caratterizzato  buona parte della seconda metà del Novecento, la democrazia, il lavoro, il welfare, sono in uno stadio avanzato di demolizione.

Come la propaganda del regime di centrodestra/centrosinistra racconta quotidianamente a mass-media unificati, questi tre elementi non sono più sopportabili nelle forme in cui li abbiamo sin qui conosciuti perché per troppi anni abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità economiche e democratiche: per ricominciare a crescere per uscire dalla crisi occorre tagliare la spesa pubblica, non quella destinata alle grandi opere inutili, ma cancellando a poco a poco lo stato sociale. Se vogliamo diventare attraenti per gli investitori internazionali e “tornare a crescere” occorre modificare in senso liberista i capisaldi della Costituzione. Se poi vogliamo un lavoro di merda con relativo salario della stessa materia non dobbiamo essere schizzinosi e dobbiamo rinunciare ai diritti acquisiti. Compresi i diritti previsti dalla Costituzione, peraltro già da tempo largamente superati con il consenso dei governi di centrodestra/centrosinistra e col vivo e vibrante sostegno di questo presidente della repubblica.

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Contro le primarie*

di Rino Genovese

Sono radicalmente contrario alle primarie. E provo a spiegare perché. Anzitutto, come nascono le primarie in Italia? Le volle Romano Prodi, che non aveva alcun partito alle spalle e, in quei tempi che sembrano ormai lontani, guidava una variegata coalizione di centrosinistra in chiave antiberlusconiana. Come spesso accade per le cose italiane, erano una merce d’importazione dagli Stati Uniti. Laggiù sono una cosa relativamente seria (per esempio ci s’iscrive alle liste elettorali un annetto prima), e la più tipica espressione di un presidenzialismo da sempre molto personalizzato, organizzato attorno a due grandi partiti che in realtà, più che partiti politici nel senso europeo, sono dei giganteschi comitati elettorali. Contro il berlusconismo politico-televisivo e il suo plebiscitarismo senza plebisciti (basato sulla macchina della propaganda, sull’uso dei sondaggi che anticipavano costantemente il risultato elettorale trionfalistico, ecc.), parve a Prodi che la sua figura di tecnico o intellettuale prestato alla politica, e di leader di una coalizione virtualmente rissosa (come poi si ebbe modo di vedere), avesse bisogno di un di più d’investitura popolare, che gli consentisse di non ripetere la brutta esperienza che gli accordi e i disaccordi tra le segreterie di partito gli avevano riservato nel 1998, ai tempi del suo primo governo. Di pari passo, Prodi spinse moltissimo verso la costituzione di un partito di centrosinistra, il Pd, che avrebbe dovuto essere il suo partito nato dalla fusione della parte maggioritaria della sinistra erede del vecchio Pci con quella frangia centrista o popolare di sinistra, che era un pezzo del mondo cattolico-sociale interno alla vecchia Dc.

Come sappiamo, le cose andarono molto diversamente da come Prodi aveva immaginato: al punto che oggi egli non è più nulla nel partito che pure aveva voluto, e finanche il suo messia, Arturo Parisi, è praticamente scomparso dalla scena.

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Adele sfida i potenti

"Ipocriti, questo è il nostro funerale"

«Caro ministro Clini, caro magnifico rettore: oggi state celebrando un funerale, non l’inaugurazione della nostra università». Scena surreale, a Parma, alla cerimonia di apertura dell’anno accademico: a scuotere l’aula è una ragazza, Adele Marri, portavoce del collettivo studentesco “Anomalia Parma”. Una requisitoria memorabile. La ragazza parla per cinque, interminabili minuti: parole durissime, scolpite nell’aria. Una denuncia drammatica, che ha la fermezza composta e terribile di un testamento. E’ la vigilia di una morte annunciata: fine della scuola, della libertà, della democrazia. Fine dello Stato di diritto. E fine del futuro, per decreto dell’infame Europa del rigore. Lo scenario: crimini contro l’umanità di domani, quella dei giovani. Sentenza senza appello. E senza neppure la dignità di un commento: ammantati di ermellini, gli emeriti membri del senato accademico restano ammutoliti, dietro al clamoroso imbarazzo del “magnifico rettore”. 

«Prima, il rettore ha detto che l’università è un luogo libero», esordisce Adele, che protesta: lezioni sospese per permettere a tutti di partecipare alla cerimonia inaugurale, «e invece quello che abbiamo trovato è stata un’università blindata da cordoni di polizia e carabinieri con scudi e manganelli».

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Primarie, iniezione fatale di "realtà aumentata"

di nique la police

“Dovunque regni lo spettacolo, le uniche forze organizzate sono quelle che vogliono lo spettacolo”. Questa frase dei Commentari di Guy Debord va interpretata in modi differenti, diversi anche dalle intenzioni dell’autore. Debord metteva l’accento su come differenti forze dello spettacolo si contendessero il dominio, per operare politiche del tutto simili, nella società dello spettacolare integrato. Società che altro non era che un dispositivo di potere coordinato tra concentrazione di potere nella produzione di significati spettacolari e diffusione microfisica dei suoi effetti. Qui Debord, interpretato meno alla lettera e in toni meno apocalittici, faceva capire come nelle società contemporanee la coesione politica, e anche quella sociale di qualunque segno, non possa essere separata da quella spettacolare. Il possesso  di una evoluta logistica dello spettacolo è quindi garanzia di potere politico ma anche della riuscita, quello spettacolo che rappresenta il campo di forza della coesione sociale. Fa politica chi è in grado di mettere assieme spettacolo e logistica intesi come tecnologie della creazione e del mantenimento del campo di forza della coesione sociale. Un quarto di secolo dopo i Commentari, con l’esplosione di diverse generazioni di tecnologie della comunicazione, vanno rivisti sia i concetti di spettacolo che di logistica in rapporto alla politica istituzionale.

Le primarie di centrosinistra rappresentano quindi un buon punto di osservazione dei cambiamenti di questi concetti. E questi cambiamenti sono il vero dato politico delle primarie visto che il grosso delle politiche su lavoro, fisco, bilancio in Italia (quello che sarebbe il nucleo di un programma elettorale) passa tra Ecofin, eurogruppo e Bce e le  esigenze di un sistema bancario europeo in preda a tossicità di ogni genere.

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Un anno dopo, Monti e a capo

di Rossana Rossanda

È giusto un anno che il parlamento italiano, auspice il presidente della repubblica, si è consegnato mani e piedi a un illustre “tecnico” e al governo da lui interamente scelto (se no non avrebbe accettato l’incarico) per smettere con le fanfaluche politiche e risanare i conti del nostro bilancio, primo fra tutti l’indebitamento. Si sa che la politica non è “oggettiva”, quando va bene risponde a una parte sociale, quando va male risponde a interessi privati, mentre la “tecnica” non guarda in faccia a nessuno, è neutra e, come il professor Monti ama ripetere, è assolutamente super partes.

Risultato? L’analisi di Pitagora, (“L'anno perduto di Mario Monti”, Sbilanciamoci.info 20 novembre 2012) ha dimostrato nel modo che più chiaro non potrebbe essere, che il nostro debito è in aumento, crescita, occupazione ed entrate pubbliche sono calati. (E non parliamo del contorno di corruzione che sembra incrostato nelle nostre istituzioni, non è per colpa specificamente di questo governo). I fautori delle somme e delle sottrazioni contabili possono soltanto dirci: “È vero. Niente di fatto. Ma se non avessimo applicato questa terapia da cavallo chissà dove saremmo finiti. E avremmo dovuto chiedere un prestito accettando di passare sotto il controllo della troika, cosa che il nostro premier, essendo uno della stessa famiglia, ha evitato”. Dunque il debito è cresciuto ma politicamente a bocce ferme; l’equilibrio sociale fra chi ha e chi non ha non è stato toccato.

E invece no. L’essere Monti e il suo governo super partes, senza il fardello delle ideologie, ha preteso che alcune parti, che sarebbero state finora favorite, cioè i meno abbienti, abbiano pagato più delle altre, in soldi e diritti.

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L'agenda Monti per il dopo Cristo

di Guido Viale

MARIO MONTI 3Dopo Marchionne, Monti. Tenete presente la parabola di Marchionne: due anni e mezzo fa, quando aveva sferrato il suo attacco contro gli operai di Pomigliano («o così, o chiudo»), togliendosi la maschera di imprenditore aperto e disponibile che si era e gli era stata appiccicata addosso, la totalità dell'establishment italiano si era schierata incondizionatamente dalla sua parte: Governo, partiti, sindacati, media, intellettuali di regime, sindaci, aspiranti sindaci, ministri e aspiranti ministri, più la falange di Comunione e Liberazione, da cui Marchionne si era recato a riscuotere gli applausi che i suoi dipendenti gli avevano negato. Uniche eccezioni, gli operai presi di mira, la Fiom, i sindacati di base e poche altre voci senza molta audience.

Perché a quell'attacco antioperaio Marchionne aveva abbinato un faraonico piano industriale da 20 miliardi di euro («Fabbrica Italia», l'ottavo piano, da quando Marchionne era in carica, nessuno dei quali mai realizzato), che avrebbe portato finalmente la Fiat, anche grazie alla stretta imposta agli operai, a competere nel pianeta globalizzato con mezzi adeguati alla nostra epoca, che Marchionne, con venti secoli di ritardo, aveva battezzato «Dopo Cristo». Al manifesto , che su quel piano aveva sollevato fondati dubbi, erano stati riservati i lazzi di ben sette collaboratori del Foglio - tra cui due stimati ex sindacalisti - e del direttore del Sole24ore. Qualcun altro aveva, sì, notato che quei 20 miliardi non comparivano, nè avrebbero potuto comparire, nel bilancio della Fiat; o che triplicare la produzione di auto ed esportarle in un mercato con il fiato corto era forse una mossa avventata;

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Legge elettorale: verso il montellum?

di Leonardo Mazzei

Dunque, ad oggi, la situazione è questa: gli artefici del Porcellum (autunno 2005) lo vogliono ora superare a tutti i costi per arrivare a un Montellum, mentre gli avversari storici del Porcellum se lo vorrebbero ora tenere stretto, pur senza poterlo dire.

Paradossi della situazione italiana, dove una casta politica che non ha la minima idea su come uscire dal disastro in cui ha portato il Paese, si azzanna su come spartirsi i resti di un potere comunque delegato in larga parte alle tecnocrazie al servizio degli squali della finanza.

Finora, a ben guardare, hanno fatto tutto in maniera bipolare: lo sfascio economico e sociale di quest'ultimo ventennio porta il marchio di Berlusconi come quello di Prodi, le controriforme antisociali idem, identica la loro subordinazione agli ordini dell'eurocrazia, per non parlare di quelli di Washington. Insieme sostengono il governo Monti, che da un anno esatto sta strangolando l'economia, peggiorando la vita di decine di milioni di persone, senza peraltro aver registrato alcun miglioramento neppure sul versante del debito pubblico [1].

Ed insieme avrebbero dovuto cambiare la legge elettorale, ma qui le cose si sono fatte più complicate. Intendiamoci, è assai probabile che l'accordo che ad oggi non c'è arrivi ben presto in parlamento. E' tuttavia utile cercare di capire qual è la vera materia del contendere. Fanno infatti un po' ridere le affermazioni (Grillo, Bersani) sul fatto che una soglia di accesso al premio di maggioranza al 42,5% sarebbe addirittura un «colpo di stato», mentre al 40% (Bersani) no.

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Grillo comunica

di Giuseppe Mazza

Ecco una storia da raccontare in corsa, mentre ancora sta accadendo. In fondo, del Movimento 5 Stelle è recente il debutto in politica, e le elezioni nazionali, imminenti, non potranno che aggiungere lati al prisma. Ma già adesso i media aggiornano senza sosta i contorni di un fenomeno che contiene un po’ tutto: magma e dirigismo, colpi di scena e vecchi film, coraggio e furbizia. A voler scavare, tuttavia, la comunicazione di Grillo e del movimento di cui è fondatore, si è andata definendo lungo un percorso che a questo punto conta oltre venticinque anni di storia. E ha accompagnato quella del paese, anche se spesso non vista, e per lunghi tratti quasi sotterraneamente.

Una storia di comunicazione non è per forza una storia dei trucchi che sono stati usati, né è necessariamente la ricostruzione di ingredienti magici, di incantamenti irrazionali. L’idea, molto italiana ma non soltanto, che quello della comunicazione sia il terreno privilegiato dell’inganno e della mistificazione, è una lettura ossessiva che corrisponde al sospetto progressista nei confronti del “parlare a tutti”. Certo, la diffidenza verso il consenso di massa arriva da un Novecento che ha offerto molti buoni motivi. Ma come concepire la modernità senza poterla declinare in un linguaggio democratico e accessibile? Un linguaggio capace non di banalizzare, ma di rendere vive le proprie ragioni e i propri valori.

Il caso di Beppe Grillo non fa che riproporci questo disagio.

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Morte (e resurrezione?) della politica in Italia

di  Mimmo Porcaro

"Superamento dell’euro, sovranità nazionale, Europa politica, governo popolare per la democrazia sociale: se la politica italiana muore nella subalternità all’Europa monetarista essa può risorgere nella rottura di questa subalternità. E con essa può risorgere la politica di classe e popolare, e la sinistra che la organizza".

Dobbiamo riflettere con attenzione sul rapporto che lega la crisi della politica italiana e le vicende europee, sul nesso tra le scelte reazionarie delle élite continentali e la dissoluzione e ricomposizione di tutti i fronti politici, compreso il nostro.

Lo spappolamento del Pdl e la crisi di gestione e di consenso del Pd (malamente rattoppata da una “vittoria” siciliana che prelude ad ulteriori guai) sono il risultato diretto del commissariamento del Paese da parte di Monti. Il Professore ha dato la spallata definitiva all’ansimante Berlusconi (peraltro già defunto dal momento in cui Tremonti gli ha proibito, in ossequio alla disciplina europea, anche solo di accennare alla riduzione delle tasse) e ha privato il Pd di ogni parvenza di autonomia politica, debolmente sostituita oggi da qualche frase pre-elettorale sulla “crescita” e sull’ “equità”. A ben vedere anche il brillio delle 5 stelle si mostra meno smagliante di quello che sembra, se solo si considera che tutto il programma grillino si concentra sulla lotta alla casta, eludendo il problema del rapporto con l’Europa, o riproponendolo saltuariamente in forma caricaturale e provocatoria. Il nuovo movimento appare quindi destinato a crescere rapidamente, ma anche a dimostrare rapidamente la propria inutilità, scomparendo o mutandosi in qualcosa che non sarà necessariamente migliore.

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Vendola, Riva & l'Ilva

Come la diossina calò miracolosa/mente

di Girolamo De Michele

Chiesi ad Emilio Riva, nel mio primo incontro con lui, se fosse credente, perché al centro della nostra conversazione ci sarebbe stato il diritto alla vita. Credo che dalla durezza di quei primi incontri sia nata la stima reciproca che c'è oggi (Nichi Vendola)

Io non sono un capitalista, ma un imprenditore (Emilio Riva)

Chi non ha visto l'intervista di Fabio Fazio a Nichi Vendola, nella puntata del 29 ottobre di "Che tempo che fa", si è perso qualcosa: una straordinaria dichiarazione del governatore della Puglia, che ha voluto sottolineare la sua peculiarità – il suo «sguardo autonomo sul mondo» – con questa affermazione tranchant: «Io non vado dai banchieri e dai finanzieri, e se li incontro gli dico che bisogna tagliare gli artigli e regolamentare i mercati» [qui, al minuto 11:10].

A Taranto, immagino, gli artigli dei padroni dovrebbero essere le emissioni di diossina e altre sostanze nocive per l'ambiente e la vita dei viventi, umani e non, dal momento che Vendola si fa vanto di averne determinato, con la sua azione politica, la riduzione.

Ad avere pelo sullo stomaco, avrei glissato: ma noi tarantini, ormai, il pelo non lo abbiamo più neanche sulle cozze. Ecco, quindi, la vera storia di come le emissioni di diossina calarono.
Miracolosa/mente.

La causa del calo – anzi: del crollo, stando ai dati "ufficiali" – della diossina è, sostiene Vendola, la Legge regionale n. 44 del 19 dicembre 2008, Norme a tutela della salute, dell’ambiente e del territorio. Questa legge prevede(va) "il campionamento in continuo dei gas di scarico" (art. 3, comma 1): ricordatevi questo particolare.

La legge regionale 44/08 stabilisce per la diossina una soglia massima giornaliera di 0.4 ng. Viene presentata come la legge più avanzata d'Europa: peccato che in Germania la soglia massima sia di 0.1 ng.

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Un #Grillo qualunque

WM2 intervista Giuliano Santoro

È in libreria soltanto da due settimane, ma ha già attirato l’attenzione di quotidiani, blog, radio, tivù. Complice il successo dei 5 Stelle in Sicilia, certo, ma soprattutto grazie all’analisi profonda e multiforme che Giuliano Santoro ha dedicato a Grillo e al suo movimento. Un’analisi che riesce ad essere, nello stesso tempo, mirata e di ampio respiro, capace di prendere il largo a partire dal suo oggetto di indagine, per illuminare temi e questioni che spesso hanno fatto capolino anche qui su Giap: dalla “cultura di destra” al feticismo digitale, dal razzismo alle narrazioni tossiche. Nei ringraziamenti finali, l’autore cita per nickname alcuni giapster molto assidui e in generale tutta la comunità che si ritrova in questo blog, per avergli fornito un terreno di confronto. L’intervista che segue vuole essere anche un’opportunità per riprendere e rilanciare la discussione.


Una delle caratteristiche più interessanti del libro è la sua capacità di smontare alcune presunte “novità” del Movimento 5 Stelle, per tracciarne la genealogia e svelarne il contenuto ideologico. Al netto di questo prezioso lavoro, resta però uno scarto davvero inedito per il panorama politico italiano: quello di un movimento che partecipa alle elezioni senza candidare la sua personalità più in vista. Questo aspetto mi pare una novità anche rispetto al populismo, che tu definisci come “la capacità da parte di un leader di costruirsi attorno un «popolo» che gli corrisponda in pieno, mortificando le differenze e appiattendo le ricchezze”. Il leader populista, al momento delle elezioni, diventa così l’insostituibile candidato della sua gente. Grillo invece si sottrae, fa il “garante” del movimento: che ne pensi di questa sua rottura del rapporto classico tra capo e popolo?

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Crisi della politica, o politica della crisi?

Il paradigma siciliano

di  Emilio Quadrelli - Giulia Bausano

La recente tornata elettorale in Sicilia è stata considerata, da tutte le aree politiche, un significativo banco di prova per l’intero panorama politico nazionale. Così è stato a tutti gli effetti. I risultati sono, solo in apparenza, sorprendenti.

“I partiti dei socialisti – rivoluzionari di destra e dei menscevichi conducono, in realtà,fuori dalle mura dell’Assemblea costituente la lotta più accanita contro il potere sovietico facendo appello apertamente,nei loro giornali, all’abbattimento di questo potere definendo arbitrario il legame tra repressione – da parte delle classi lavoratrici – della resistenza degli sfruttatori, repressione necessaria per liberarsi dallo sfruttamento, difendendo i sabotatori al servizio del capitale, giungendo fino all’appello diretto al terrore che “gruppi ignoti” hanno già cominciato ad applicare. È chiaro che in forza di ciò l’altra parte dell’Assemblea costituente avrebbe potuto soltanto avere la funzione di coprire la lotta dei controrivoluzionari per l’abbattimento del potere sovietico. Perciò il Comitato Esecutivo Centrale decide: l’Assemblea costituente è sciolta” (Lenin, Decreto di arresto dei capi della guerra civile contro la rivoluzione).


La percentuale delle astensioni alle elezioni siciliane è stata di circa il 53% mentre, il numero di coloro che hanno dato il loro consenso ai partiti governativi, si è attestato a 1.450.207 voti. Circa il 33% degli elettori.

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Grillo è il gatto che può mangiare il topo

nique la police

Si comincia sempre volentieri dalle frasi celeberrime di Mao. Frasi famosissime ma dotate di una tale grazia che  non sembrano logorarsi nonostante l’uso e lo scorrere del tempo. Eppure la frase utile per spiegare quanto accaduto in Sicilia è di Deng Xiao Ping e compie giusto mezzo secolo: “non importa di che colore sia il gatto purché mangi il topo”. La frase di Deng va collocata nel contesto della durissima lotta, apertasi nel partito comunista cinese, dopo la tremenda carestia a cavallo degli anni ’50 e ’60 causata dal disastroso processo di industrializzazione forzata promosso proprio da Mao. Deng, con quella frase, suggeriva un approccio prudente e maggiormente pragmatico ai problemi dell’economia cinese rispetto al modello maoista di mobilitazione totale. Si tratta in fondo dell’approccio che lo ha portato a governare la Cina dopo l’esaurirsi della rivoluzione culturale. La frase di Deng, come quelle di Mao, va però anche intesa come un’allegoria, un qualcosa che trascende potentemente il suo primo significato. Nel nostro caso quindi possiamo interpretare benissimo nell’allegoria del topo la persistenza italiana di un ceto politico istituzionale fatto prevalentemente di disperati, pronto a vendere il paese all’incanto secondo le regole della governance liberista continentale. Il gatto, quello che può mangiare il topo, sembra essere il movimento 5 stelle con dei risultati elettorali semplicemente impensabili, almeno per i non avvertiti, pochi mesi fa. La storia italiana sembra così prendere le sembianze della filosofia di Deng: ci suggerisce un corso degli eventi nel quale il gatto può davvero mangiare il topo.