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Attenti al virus mutante della Lega

di Alberto Burgio

Tutti guardiamo a Berlusconi e alle sue sorti e rischiamo di sottovalutare il ruolo di un altro protagonista della scena politica. Questa legislatura ha visto la Lega Nord conseguire importanti risultati. Il partito di Bossi, guidato in modo ferreo (a dispetto delle sue articolazioni) da un gruppo dirigente spregiudicato e abile, occupa posti-chiave nel governo (in particolare gli Interni e quella Semplificazione normativa che è il vero Ministero per le riforme istituzionali) e una posizione strategica in forza dell'asse con Tremonti. L'alleanza col Pdl gli ha permesso di dilagare nel sottogoverno (sia in periferia che a «Roma ladrona», nei consigli di amministrazione di banche, partecipate e media) e di rafforzarsi negli Enti locali (a cominciare dalle presidenze di Piemonte e Veneto e dalla vice-presidenza della Lombardia). In modo speculare, lo sradicamento della sinistra moderata dal mondo del lavoro dipendente e dalle fabbriche ha consentito alla Lega di conquistare consensi negli stessi settori più avanzati della classe operaia. Tutto questo è (dovrebbe essere) noto da tempo, ma ora c'è una novità. In queste settimane è emersa in modo plateale la capacità della Lega di sfruttare le crisi altrui (e persino le proprie) per trarne vantaggi.

L'esempio più evidente riguarda le rivolte nei Paesi della sponda sud del Mediterraneo. Non è inverosimile che la Libia cessi di fungere da posto di blocco per i migranti. La Ue evoca esodi biblici. E Bossi si frega le mani per il dono inatteso: tutta manna per la propaganda leghista, per l'appello razzista alla paura e all'identità.

Lo stesso meccanismo riguarda i rapporti con Berlusconi. La base leghista freme, non ama l'«utilizzatore finale» e non vuole favorire l'impunità dei politici corrotti. Questo fatto qualche grattacapo lo crea, com'è emerso nella vicenda del veto sulla trasmissione con l'Annunziata e nel commissariamento di giornali e radio, posti sotto il controllo del Trota. Ma non tutto il male vien per nuocere. Il malessere del popolo padano permette a Bossi di alzare il prezzo della lealtà e non è un caso che il governo abbia prontamente chiesto per il «federalismo municipale» un voto di fiducia della Camera che è di per sé un insulto, data la natura istituzionale del provvedimento.

La Lega è come un virus mutante, ha straordinarie capacità di resistenza anche perché intercetta umori profondi nel sottosuolo del Paese. E studia per diventare, nella parte più ricca del Paese, l'azionista di maggioranza nella destra italiana. Bisognerebbe stare attenti, smetterla di banalizzare, e invece siamo ancora alla spregiudicatezza manovriera di chi vede la battaglia e dimentica la guerra. A questo riguardo l'intervista concessa dal segretario del Pd alla Padania il 15 febbraio merita più attenzione di quanta non ne abbia riscosso.

Nell'intento conquistare la fiducia di Bossi e Calderoli, Bersani insiste sulle analogie tra la Lega e il Pd, entrambi partiti popolari e appassionatamente federalisti (le «due vere forze autonomiste in questo Paese», secondo un concetto ribadito nel dibattito alla Camera). Il segretario del Pd assicura che alla base dell'apertura alla Lega non vi è alcun calcolo: c'è piuttosto il timore che il «federalismo» (una «riforma storica, epocale per la democrazia italiana») venga azzoppato da qualche impenitente centralista. E via di questo passo, sino al commovente ricordo della «bellissima» festa padana di Busto Arsizio (gennaio 2006), che Bersani oggi rammenta «con grande simpatia». Ma quel «federalismo» che cos'è? Il nome è abusato, salvo credere alle mitologie identitarie care alla Lega. Più prosaicamente (come dimostra già la sciagurata riforma del Titolo V della Costituzione, che Bersani rivendica), è lo strumento con cui le aree più ricche d'Italia intendono salvaguardare le proprie condizioni scaricando la palla al piede del Mezzogiorno. Storia vecchia quanto l'unità del Paese (già Gramsci parlava della Piovra del nord), oggi rinverdita dal declino industriale e dai morsi della crisi. Il sud (e parte del centro) precipita. La crescita sotto zero, i redditi incomparabilmente inferiori a quelli del nord, la disoccupazione doppia (quella dei giovani e delle donne tripla), le infrastrutture e i servizi fatiscenti. Il divario è tale da mettere a rischio la stessa unità territoriale del Paese, ma che importa, pur di lisciare il pelo alla «costola della sinistra»? Davvero un bel modo di celebrare il 150° dell'unificazione nazionale.

E il razzismo leghista? Bersani giura: non serve che qualcuno gli spieghi che la Lega non è razzista. Solo retorica, insomma, quella di Borghezio che spruzza deodorante sui viaggiatori nigeriani in treno. Puro eccesso di zelo quello di Gentilini che invoca la «pulizia etnica contro i culattoni», si vanta di aver distrutto campi rom e giura di voler «eliminare i bambini degli zingari che rubano agli anziani». Solo boutades quelle di Salvini (un fan di Bersani, stando alle ultime dichiarazioni) che esige rastrellamenti casa per casa nella sua civile Milano. Mere divagazioni antropologiche quelle di Cota a sostegno delle «classi-ponte» e del senatore Pittoni contro l'invasione degli insegnanti meridionali (quindi ignoranti). Solo una goliardata quella di Tosi che raccoglie le firme per ripulire (anche lui) Verona dagli «zingari». Semplice superficialità quella di Maroni che si costituisce parte civile contro la cittadina somala maltrattata dagli agenti a Ciampino. Bersani non ha bisogno che gli si dica che cos'è la Lega: forse avrebbe bisogno di chiarirsi le idee su che cos'è il razzismo, come del resto dimostra tutta la legislazione «democratica» sui migranti dai tempi d'oro della Turco-Napolitano e dei Cpt.

Qui però non è il caso di fare prediche o lezioni, ma di riflettere freddamente. La strumentalità in politica è di casa e non c'è da stupirsi, ma perché arrivare all'autolesionismo? Sono anni che il Pd insegue l'avversario sul suo terreno: è un caso che oggi col cappello in mano cerchi i più impresentabili alleati sulla scena politica? Proprio la Lega si è giovata dell'abbandono della classe operaia da parte della sinistra liberista e della distruzione del partito di massa nel nome del partito d'opinione: possibile che non ci si fermi un momento per fare un bilancio delle proprie scelte? Pensare che la sperabile caduta di Berlusconi porti automaticamente a una rinascita sarebbe ingenuo. Vent'anni di devastazione sociale e politica e di corruzione civile e morale hanno sfigurato il Paese. Occorrerà un lavoro lungo, paziente, tenace per cancellare privilegi e restituire un minimo di decenza e di equità. Ma la partenza di questo cammino è cruciale, e il primo passo dovrebbe essere la chiarezza degli obiettivi. L'esatto contrario della confusione che oggi regna sovrana, complice la retorica della da troppi e con troppo diverse ragioni evocata emergenza democratica.

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