Print
Hits: 1972
Print Friendly, PDF & Email
manifesto

Il paradosso innominabile della crisi democratica

Alberto Burgio

Cambiare il sistema politico a partire dalla mutazione della propria identità facendo propri molti elementi di quella che caratterizza l'antico avversario. Sempre in nome della concordia. E del mantenimento dello status quo

veltrusconiSono elezioni davvero speciali, queste. La maggioranza dei partiti che vi partecipano non esistevano ancora alle ultime politiche, appena due anni fa. E per la prima volta dal '48, complice la zelante faziosità dell'informazione, agli elettori-spettatori è somministrato lo show di una partita a due, tra Pd e Pdl. Anzi, tra i loro «capi». Perciò, nonostante il profluvio dei sondaggi, non è per nulla facile prevedere cosa accadrà. Meglio cercare di capire che cosa sta succedendo. E qual è la posta in gioco in questo match.
Partiamo da una semplice considerazione, frutto dell'esperienza dell'ultimo quindicennio. Il bipolarismo (e persino il bipartitismo) tende a produrre posizioni politiche in larga misura coincidenti.

E per ciò stesso favorisce la (ri)nascita di un grande centro moderato. Le forti somiglianze tra i programmi di Pd e Pdl nel segno dell'interclassismo post-ideologico (né destra né sinistra) e della pace sociale (il «patto dei produttori», plasticamente sancito dall'abbraccio tra il sindacalista di «sinistra» e il falco confindustriale) sono solo uno dei tanti indizi di questo movimento centripeto. Responsabile anche della caccia ai candidati double face, adattabili ad entrambe le formazioni, e del fuoco incrociato sui partiti di centro tradizionali.

Fin qui è tutto evidente. Ma vediamo di scavare più in profondità, guardando con attenzione il valzer delle candidature democratiche «eccellenti». Forse lo si può leggere come il sintomo di una tendenza non episodica. Forse in questo caso la storia insegna qualcosa.


Una «feconda trasformazione »


Lo shopping elettorale di Veltroni ai piani alti di viale dell'Astronomia richiama alla mente un precedente illustre. In vista delle elezioni del 1882, temendo le conseguenze «sovversive» della nuova legge elettorale, il leader della Sinistra costituzionale Agostino Depretis si accorda con esponenti di spicco della Destra moderata, a cominciare da Marco Minghetti.

E spiega questa scelta in un discorso che deve aver colpito l'attuale segretario del Pd, notoriamente uomo di robuste letture. «Se qualcheduno - questo è il cuore del ragionamento - vuole entrare nelle nostre file, se vuole accettare il mio modesto programma, se vuole trasformarsi e diventare progressista, come posso io respingerlo?» Sin dal '76 Depretis ha aperto il dialogo con l'opposizione, nel nome della «concordia» e del «Progresso». E ha ripetutamente invocato la «feconda trasformazione dei partiti», necessaria a costruire quelle «salde maggioranze» che i posteri avrebbero ribattezzato «larghe intese». Ora la manovra gli riesce, e porta al primo esecutivo «progressista» appoggiato dalla Destra. È un colpo di genio, che lo consacra alla storia. Che dà la linea ai successori (da Crispi a Giolitti), e che accompagna lo Stato liberale sin nei suoi estremi spasmi agonici.

Com'è noto, questa vicenda reca un nome importante del lessico politico italiano. Si chiama trasformismo, termine che designa anche un problema storiografico (basti pensare che un grande biografo di Cavour come Rosario Romeo ne nega l'esistenza). Al di là delle differenze interpretative, su un punto la storiografia è pressoché unanime (Antonio Cardini, Il grande centro. I liberali in una nazione senza Stato: il problema storico dell'arretratezza politica (1796-1996), Lacaita, 1996; Sandro Rogari, Alle origini del trasformismo. Partiti e sistema politico nell'Italia liberale, Laterza, 1998): proprio come il bipartitismo caro agli odierni fans del maggioritario, il trasformismo favorisce la formazione di un «grande centro» moderato, lealista e garante dei poteri costituiti (ieri la corona e il capitale fondiario, oggi l'impresa e la finanza). Il che, tra parentesi, indusse il Croce (se ne veda la Storia d'Italia dal 1871 al 1915) a considerarlo assai benevolmente.

Ma se questo è vero, è facile rispondere a una domanda cruciale: chi si trasforma? In apparenza è Minghetti a traslocare, armi e bagagli, nella Sinistra. In realtà è la Sinistra a subire una mutazione nel momento in cui accoglie nelle proprie file l'avversario. È la Sinistra a trasformarsi centralizzandosi e con-fondendosi con la Destra. Per cui commenta lucidamente uno sconsolato Carducci: «Trasformismo, brutta parola a cosa più brutta. Trasformarsi da sinistri a destri senza però diventare destri e non però rimanendo sinistri» (Candidature, in «Don Chisciotte», 3 gennaio 1883).


Difendere la società


Si diceva della riforma elettorale del 1882. Abbassando i limiti di età e di censo, la nuova legge porta a tre milioni (da 600mila) gli aventi diritto al voto, e permette alle forze «antisistema» di conquistare ruoli importanti nel gioco politico. Tant'è che socialisti, radicali e repubblicani si aggiudicano 40 deputati e a Milano, all'indomani delle elezioni, nasce il Partito operaio, primo embrione del Psi. Contro queste pericolose evoluzioni - per «difendere la società», direbbe Foucault - la classe dirigente liberale corre ai ripari. Allo scopo di escludere il «quarto stato» dalla direzione del Paese converge al centro e il riferimento ai programmi cede il passo alla fedeltà personale a capi e notabili, padroni di clientele.

Insomma, il trasformismo è la risposta oligarchica delle élites liberali al minaccioso incombere delle «classi lavoratrici» e al deficit di legittimazione dello Stato unitario (Sabbatucci). Ne ha colto il significato Giampiero Carocci definendolo «un processo di cui la crescita della democrazia era la causa e la degenerazione della democrazia era la conseguenza». Ma l'aspetto cruciale è la asimmetria dei mutamenti che esso comporta. Per effetto della quale è la componente più avanzata della classe dirigente - la sinistra - a ripiegare su posizioni moderate. Ne consegue lo stallo del sistema, che rifiuta cambiamenti reali poiché considera incompatibile la partecipazione delle «classi lavoratrici» alla direzione politica. A ragione. Come potrebbe non apparire eversiva la soggettività del lavoro salariato in una società che al suo sfruttamento affida ogni chance di sopravvivenza e di sviluppo?


Rivoluzione passiva


Se Depretis è il padre legittimo del trasformismo, sbaglieremmo tuttavia a fermarci qui. La storia comincia ben prima, nel corso del processo unitario, e prosegue nel tempo della Repubblica. Nei Quaderni del carcere Gramsci legge nel Risorgimento la prima manifestazione dell'egemonia dei moderati, guidati da Cavour, sui «democratici» (Mazzini, Garibaldi, Pisacane). E scorge nel trasformismo ante litteram l'«espressione parlamentare» della subalternità di questi ultimi. Certo, ci sono differenze. Il modello Depretis esclude le estreme, il modello Cavour le neutralizza, sussumendo i gruppi dirigenti avversari. Il trasformismo risorgimentale è una forma di gestione conservatrice del mutamento (il che induce Gramsci a considerare il Risorgimento una «rivoluzione passiva»), mentre quello depretisiano è organicamente reazionario. Ma il segno politico prevalente è analogo. In entrambi i casi il trasformismo è una reazione conservatrice alle istanze di riconoscimento delle classi popolari (nel caso del Risorgimento, uno strumento teso a impedire la riforma agraria).

Minghetti insisteva sull'aderenza alla «legge generale delle cose viventi». Trasformismo era per lui un innocente sinonimo di «evoluzione». Ma la sua testimonianza è sospetta. In realtà ha senso distinguere tra trasformazione e trasformismo perché quest'ultimo individua una forma perversa del mutamento delle élites, una patologia della trasformazione. Che consegue, come abbiamo visto, al prevalere di pulsioni conservatrici contro il rischio di accelerazioni del processo democratico. E che porta con sé gravi distorsioni della rappresentanza, fenomeni di personalizzazione, crisi dei partiti, commistione tra politica e affari, sviluppo abnorme delle reti clientelari.

Non sorprende che, all'indomani della formazione del quinto governo Depretis (1883), Gateano Mosca descriva il Parlamento come la culla di «camarille e combriccole, illegali ma potentissime», capeggiate da notabili interessati solo a «privati vantaggi» (Teorica dei governi, 1884). Pur di sbarrare la strada alle classi popolari la politica della borghesia si fa affarismo.

Nel Novecento (è ancora Gramsci a sostenerlo) la propensione trasformistica provoca la défaillance del «movimento operaio socialista», che fornisce alla classe dominante «importanti settori» dei suoi apparati di direzione. Il trasformismo aiuta a comprendere anche la vittoria della reazione fascista. Il Partito socialista, in ciò erede diretto dei democratici del Risorgimento, è, osserva Gramsci, un «partito paternalistico, di piccoli borghesi che fanno le mosche cocchiere». E la distanza dei suoi dirigenti dalla «classe rappresentata» favorisce la «trasformazione» di schiere di socialisti in sindacalisti-nazionalisti e in fascisti. Ma l'«eterna sindrome trasformistica» (Sabbatucci) è all'opera anche in tempi più recenti. Al tempo del centrosinistra e ancora negli anni Ottanta, quando la geometria variabile a centralità democristiana sortisce l'effetto di trasferire la dialettica politica in seno alle maggioranze di governo, impedendo il ricambio della classe dirigente e, con esso, l'evoluzione del sistema.


Fragili fondamenta


Può questa lunga vicenda fornire lumi su quanto stiamo vivendo? Ci parla anche di questa triste competizione elettorale in cui è ingloriosamente inciampata la lunga agonia della Prima repubblica? Sono molte le ragioni che suggeriscono di rispondere in modo affermativo.

Con la nascita del Pd si è compiuta per tanti ex-comunisti la traversata del deserto cominciata nell'89 alla Bolognina (in realtà, già negli Sessanta, come osserva Giuseppe Chiarante nel suo recente Con Togliatti e Berlinguer. Dal tramonto del centrismo al compromesso storico (1958-1975), Carocci, 2007). Gran parte della dirigenza post-comunista si è organicamente insediata al centro del sistema politico, ripudiando con fervore e fragore i fondamentali della propria precedente identità. I programmi, ridotti a spot propagandistici, non rimandano ad alcuna cultura politica degna di questo nome. Contano solo le facce dei leader o dei candidati eccellenti. E l'orizzonte politico, eclissato il tema eversivo della trasformazione, precipita sull'esistente e sulla sua gestione.

Insomma, ancora una volta gran parte della sinistra italiana si «trasforma» per convergere nel «grande centro» contro cui era nata e che per lungo tempo ha considerato l'altro da sé. Perché ciò nuovamente avvenga è oscuro. E, come nel caso del trasformismo classico, le risposte moralistiche o «antropologiche» (Bollati, Tullio-Altan) lasciano insoddisfatti. Probabilmente la questione delle questioni concerne la difficoltà dell'operare in questa società senza appartenerle, e mantenendo intatta la tensione al suo superamento.

Non c'è qui modo di trattarne adesso. Basti per il momento cogliere le tendenze in atto e riconoscere la necessità di scoprirne al più presto le cause. Quanto alla prospettiva, vale la pena di osservare che, ad ogni buon conto, il quadro non presenta solo ombre e forse rivela anche qualche luce. A chi obiettasse che non si scorgono oggi minacce sovversive all'orizzonte, proprio il revival trasformistico dovrebbe suggerire maggior cautela. Chissà che - come in passato - anche questo ennesimo centralizzarsi della «classe politica» non risponda a un moto tellurico che ancora non si manifesta in superficie. Ma che scava sottotraccia e rode le fondamenta di un edificio fragile, se non già periclitante.

Web Analytics