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La sentenza sui fatti della Diaz

Tiziano Bagarolo

Condivido molto dell'amaro commento di Marco Revelli sul "manifesto" (che pubblico qui sotto) a proposito della sentenza della Corte d'Appello di Genova che, a distanza di quasi dieci anni, ha riconosciuto la verità sui "fatti della scuola Diaz" nei giorni del G8 di Genova. E finalmente ha condannato gli autori materiali di quell'ignobile "macelleria messicana" (parole di funzionario di PS durante la deposizione al processo), anche se non ancora i "mandanti", cioè il governo di allora (non lo si dimentichi).

Ma non condivido un punto centrale. Ossia che la reazione del governo – che immediatamente ha fatto sentire la sua voce per garantire ai condannati che non subiranno conseguenze (questo è il senso dei pesantissimi interventi "assolutori" di Maroni, Mantovani & C.) – la si debba al fatto che "sono della stessa pasta e della stessa cricca" (ossia gentaglia senza senso delle istituzioni e della giustizia...).
Non lo credo proprio. Sono assolutamente certo che – magari con un altro "stile", forse con meno pubblicità – un governo di centrosinistra nella sostanza non avrebbe agito diversamente. D'altra parte, non è forse vero che Manganelli (nomen omen), responsabile dell'ordine pubblico a Genova durante il G8, è stato successivamente chiamato a fare il consulente alla sicurezza da Amato, il ministro degli interni di Prodi? Governo che, per altro, si guardò bene dall'istituire quella commissione parlamentare d'inchiesta sui fatti del G8 tante volte reclamata dal PRC...

Bisogna capire – io credo – che la copertura del governo – qualsiasi governo – alle "sue forze dell'ordine" risponde a una legge non scritta che tuttavia viene prima di ogni altra, Costituzione compresa, perché sta scritta nella "costituzione materiale", prima che in quella giuridica, dello Stato borghese (di ogni Stato borghese), quale che sia il colore politico di chi provvisoriamente lo amministra. In questa costituzione materiale le forze repressive sono la garanzia ultima del potere statale e dunque del ceto politico e dell'intera classe dominante (l'essenza dello Stato è in ultima analisi un distaccamento di uomini armati, diceva Engels), e dunque sono (devono essere) al di là e al di sopra della legge. Nessun governo può correre il rischio che le sue forze repressive non si sentano adeguatamente "coperte" quando vengono mandate a svolgere il loro sporco lavoro. Potrebbero cominciare a chiedersi chi glielo fa fare di correre certi rischi per salvare il culo a politici pagati tanto meglio di loro o a industriali e banchieri ultraprivilegiati...
In verità è regola che non solo i governi, ma anche la magistratura tratti con molto "riguardo" gli esponenti delle forze dell'ordine coinvolte in inchieste "delicate". Non a caso queste finiscono quasi sempre con l'archiviazione o l'insabbiamento. I casi che fanno scalpore sono l'eccezione, non la regola, in questa materia.
Commentando mesi addietro su Facebook le risibili condanne inflitte agli assassini di Aldrovandi, ho osservato che esiste un articolo non scritto del Codice, a cui la magistratura si attiene comunque rigorosamente, che così recita: "Le divise non si processano. Le forze dell'ordine agiscono sempre in modo conforme alla legge. Se l'apparenza è che l'abbiano violata, ci sono valide ragioni per affermare che le cose non stanno come sembrano. Se l'evidenza non si può negare, ci sono valide ragioni per giustificare comunque l'operato delle forze dell'ordine. Se in singoli casi l'evidenza è tale che non si può evitare una condanna, ci sono comunque valide attenuanti per ridurre la pena ai minimi termini. In ogni caso una divisa non farà mai un giorno di galera".
L'impunità per le forze dell'ordine è il presupposto della loro "affidabilità". I governi lo sanno benissimo. Certo, siccome le "regole scritte" sono altre, capita che a volte anche esponenti delle forze dell'ordine vengano condannati per azioni di servizio in cui "hanno ecceduto". Ecco allora che i governi si premurano ad intervenire per fornire immediatamente la garanzia di impunità messa in dubbio dalla magistratura.
Con tutto ciò, resta che la sentenza della Corte d'Apello di Genova per i fatti della Diaz è importante non solo per le vittime di quella mattanza (alcune ne portano nel corpo e nella psiche segni indelebili) ma anche per la battaglia in difesa della verità su quei giorni, tutt'altro che vinta anche presso settori di popolazione non particolarmente reazionari ma semplicemente prigionieri del pregiudizio che le forze dell'ordine "lavorano per la sicurezza dei cittadini". Come quella di qualche mese fa per Bolzaneto, le sentenze dei giudici che condannano le forze della repressione sono sempre, almeno in parte, una vittoria e forniscono l'occasione e argomenti per fare chiarezza sulla vera natura del "lavoro" svolto di norma, anche se non "secondo la norma", da questi "servitori dello Stato"...

 

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Italia loro

di Marco Revelli

La sentenza della Corte d'Appello di Genova per i "fatti della Diaz" non ci restituisce la luce. Ma per lo meno apre uno spiraglio di verità e di senso, nel buio fitto e appiccicoso che avvolge il Paese. Giunge tardi. Tardissimo. A quasi dieci anni da quell'ignobile "massacro in stile sudamericano", che ci coprì di vergogna davanti al mondo. Dieci anni in cui i responsabili hanno continuato a ricoprire le più alte cariche nel "sistema di sicurezza". E a rappresentare le più delicate tra le istituzioni: quelle che incarnano il "monopolio della forza" e che dovrebbero, per dovere costituzionale, presidiare il più elementare dei diritti: quello all'integrità della persona. Dieci anni nei quali le vittime di allora – quasi tutti giovani e giovanissimi – hanno potuto crescere e farsi uomini portandosi dentro quella ferita non rimarginabile, e l'immagine di uno Stato fondato sull'illegalità, sulla prepotenza e sull'impunità del potere. Però ora sappiamo che c'è, in questo Paese, almeno un anfratto, un'aula di tribunale, una Corte, in cui la verità che allora percepimmo, tutti, sulla nostra pelle può essere riconosciuta e "detta". In cui una parola, corrispondente alla realtà, può essere pronunciata.
Il Governo – c'era da dubitarne? – costituitosi in Corte alternativa, si è affrettato ad assolverli. «Piena fiducia», ha dichiarato il ministro Maroni, «i nostri uomini – ha detto il sottosegretario Mantovano – resteranno al loro posto», nonostante la pesantezza delle condanne, e l'esclusione dai pubblici uffici. E ha fatto bene a chiamarli «i nostri uomini». Perché sono della stessa pasta e della stessa cricca. Sono, tutti insieme, in forma "sistemica", parte della stessa Italia, intreccio di ferocia e privilegio, di connivenze incrociate e di ostentazione d'impunità. Sono l'Italia che ha praticato la tortura, a Bolzaneto, su decine e decine di ragazzine e ragazzini alla propria prima esperienza di partecipazione politica. Sono l'Italia che ha ammazzato Carlo Giuliani e ha sputato sul suo corpo adolescente. Oggi sappiamo – dall'inchiesta di Perugia – che sono anche l'Italia della corruzione sistematica e degli scambi di piaceri. Quella delle case regalate e degli affitti di favore ai figli e ai cognati. L'Italia dell'Enasarco – per intenderci – e degli Anemone e Zampolini.
Sono, infine, la stessa Italia che, con un velenoso colpo di coda, ha sanzionato nel modo più brutale la fine della libertà di stampa, minacciando il carcere ai giornalisti e condannando di fatto a morte gli editori che osassero rendere pubblici i materiali giudiziari connessi a quelle stesse intercettazioni senza le quali mai si sarebbe giunti alla verità sui "fatti della Diaz".
Non vorremmo che quella di ieri fosse davvero l'ultima "bella notizia" che abbiamo potuto festeggiare.

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