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la citta futura

La democrazia è al sicuro?

di Renato Caputo

Considerazioni sulle ragioni dell’impasse dell’opposizione di sinistra nel dopo referendum

alienazione L’illusione che, con il voto referendario, la democrazia sia stata messa in sicurezza, è un’esemplare indizio dell’egemonia liberale su ampi strati dell’opposizione di sinistra. Tale illusione porta a non rilanciare il conflitto sociale contro le politiche liberiste del governo, ma a ricercare di rilanciare l’opposizione di sinistra mediante le scorciatoie di una nuova sfida referendaria e dell’ennesimo “nuovo” soggetto politico in vista delle elezioni.

Lascia basiti la completa incapacità della grande maggioranza dell’opposizione della sinistra sindacale e politica di svolgere un ruolo attivo, da protagonista, nel nuovo scenario politico così favorevole che si è aperto in seguito tanto al Referendum istituzionale quanto alla grave crisi di legittimità che rischia di travolgere le giunte comunali delle due principali città italiane, rappresentanti una del centro-sinistra l’altra della sua alternativa populista di “sinistra”. Invece di cogliere l’occasione per attaccare un governo e delle giunte notevolmente indeboliti, invece di sfruttare l’occasione per passare finalmente al contrattacco alle politiche liberiste, al centro-sinistra, al populismo né di destra né di sinistra, che ne hanno segnato in questi anni il costante declino, le forze preponderanti della sinistra radicale sembrano in tutt’altre faccende indaffarate. Da una parte prevale, infatti, la logica sindacal-concertativa, tesa principalmente a farsi riconoscere come soggetto sociale con cui trattare dal nuovo governo, fotocopia del precedente, o dalla giunta Raggi, dall’altra gli sforzi appaiono tesi alla logica tutta politicista di tornare a essere competitivi sul piano elettorale, facendo di un mezzo, per quanto significativo, il fine. Come se fosse possibile rendersi nuovamente credibili dinanzi ai settori sociali subalterni, che in massa si sono espressi per il No, con alchimie elettoralistiche, o con le briciole ottenibili puntando tutto sulla logica concertativa, piuttosto che sfidare apertamente le politiche liberiste e populistico-qualunquiste in nome di una reale alternativa di classe.

Tale incredibile debolezza sul piano dell’agire politico è certamente legata, se non dovuta, a un altrettanto spaventosa arretratezza dal punto di vista teorico. Quest’ultima è dovuta non più all’incapacità di far prevalere la propria visione del mondo, nella lotta di classe sul piano delle idee, ma dall’aver rinunciato persino a tale scontro, per paura di perderlo, ricorrendo anche in questo caso a una suicida politica volta a riformare la concezione del mondo dominante, espressione degli interessi del blocco sociale egemone. Si è finito così, paradossalmente, per abbandonare la propria stessa autonomia politica e culturale proprio in quanto è subalterna alla dominante visione del mondo liberista e antipolitica. Come se non fosse naturale che chi ha il potere, lo ha proprio perché, oltre al monopolio della violenza legale, ha dalla sua anche l’egemonia sul piano intellettuale e morale. Come se non fosse altrettanto scontato che tale egemonia della classe, proprio perciò dominante, può essere, non solo messa in discussione, ma anche solo scalfita, unicamente se si è disponibili a portare avanti una dura e logorante guerra di posizione per la conquista delle “casematte” della società civile, ovvero i mezzi di comunicazione, le chiese, i partiti, i sindacati, la scuole, le università ossia tutti gli apparati su cui si fonda la capacità di dominio delle classi dominanti con l’indispensabile consenso delle dominate.

Così, proprio ora che la crisi strutturale del modo di produzione dominante mette in discussione oggettivamente l’egemonia delle classi dominanti, in quanto i ristretti margini di profitto rendono necessari una sempre più sistematica corruzione e un attacco sempre più feroce e aperto agli interessi materiali dei subalterni, l’opposizione di sinistra abdica alla propria stessa ragion d’essere, considerando più comodo il ruolo della fronda, piuttosto che i rischi del conflitto sociale, politico e culturale. In tal modo, dopo aver rinunciato negli anni precedenti alla possibilità stessa della conquista del potere politico, si è finito con il rinunciare alla stessa lotta di classe sul piano delle idee.

Ecco così che, “con la vittoria del No al referendum, si è salvata la democrazia”, è uno dei commenti più comuni negli ambienti della sinistra radicale – in realtà la sinistra tout court considerato il trasformismo della sinistra moderata. Tale ingenua affermazione si presenta come la constatazione di un dato di fatto, dinanzi all’aperto sovversivismo anti-democratico delle classi dominanti e all’aver completamente introiettato, da parte di chi dovrebbe guidare intellettualmente i subalterni, il punto di vista, l’ideologia e, persino, il linguaggio delle classi dominanti. Al punto che la situazione antecedente al 4 dicembre, viene considerata democratica, come altrettanto democratica è considerata la situazione seguente. Ecco che, di conseguenza, non appare utile sfidare sul piano della lotta di classe, del conflitto sociale il liberismo e il qualunquismo populista, ma si attendono le prossime scadenze elettorali – da un referendum, sempre più a rischio, alle prossime elezioni, in vista delle quali i politicanti della sinistra radicale si fanno la guerra per spartisti un numero di poltrone, che rischia di essere sempre più ristretto e ininfluente. O, peggio, si pensa di poter riconquistare consensi fra gli umiliati e offesi, fra una “plebe sempre più all’opra china senza ideale in cui sperar”, riaprendo il dialogo con le istituzioni sul piano nazionale e locale, sebbene esse siano sempre più prive di credibilità fra le stesse masse popolari e siano sempre più private di margini di trattativa, non solo per la pressione dei poteri forti, ma per la stessa logica della crisi strutturale del modo di produzione capitalista.

Dunque, nonostante che proprio il risultato del 4 dicembre, con la sua evidente connotazione di classe – certo in sé e non ancora per sé – dimostri il crescente abisso che si è venuto a creare fra la volontà generale e il pensiero unico liberista, fra il governo e la sovranità popolare, si crede di aver messo in sicurezza la democrazia. Ciò dipende dal fatto che si è fatta propria l’ideologia funzionale ai privilegi della classe dominante, che pretende di ridurre la democrazia al solo ambito sovrastrutturale delle istituzioni politiche, facendo così astrazione dal piano strutturale, sociale e politico. In tal modo si abbandona la stessa ragion d’essere del marxismo, facendo propria la concezione liberale. Per cui ci si accontenta della vittoria nella difesa delle istituzioni politiche di una liberal-democrazia sempre meno credibile e capace di egemonia, e si dimentica che il No del 81% di giovani che ha difronte un futuro di precarietà, delle masse popolari delle periferie, dei proletari e sottoproletari del sud, si è – in modo più o meno consapevole – rivoltato contro le politiche antipopolari del governo sulle quali, incautamente, quest’ultimo aveva preteso di fare del referendum un plebiscito.

Così, nonostante l’incredibile débâcle, sul piano plebiscitario, il più appropriato alle logiche demagogiche e bonapartiste, il governo si è tranquillamente clonato in un sostanziale Renzi bis, che ha preteso di blindare anche la peggiore delle sue misure antipopolari, il Jobs act, al punto che un ministro, nell’atto stesso di ottenere la fiducia dal parlamento, affermava che il governo era pronto alle dimissioni affinché non si realizzasse un plebiscito-referendum su tale odiosa misura.

Ma torniamo all’ingenua affermazione di aver salvato la democrazia e al significato che tale decisiva categoria politica assume. Si tratta, evidentemente, di un significato che non ha nulla a che vedere con il significato originario del termine, volto a connotare la forza (crazia), ovvero il potere del demos, ossia delle masse popolanti i quartieri periferici, proprio di contro allo strapotere dell’oligarchia [1].

Tanto meno l’uso del termine pare corrispondere al concetto filosofico di democrazia moderna introdotto da Rousseau, in aperta polemica con la tradizione liberale fondata sul principio della delega della sovranità popolare a una ristretta minoranza. Tale delega costituiva, infatti – per il padre della democrazia moderna – una forma di inaccettabile sudditanza, in quanto l’uomo si vedeva costretto a spogliarsi della sua inalienabile sovranità, come membro del popolo, e di conseguenza di quella libertà costitutiva del suo essere umano. Dunque la libertà, propria della natura umana e la sovranità non possono essere alienate o trasferite come i diritti di proprietà sugli oggetti. Di conseguenza i governanti possono avere unicamente il compito di far applicare le disposizioni fissate dalla volontà generale, traducendo l’universale nel particolare; il ruolo del governo non corrisponde più a quello del sovrano, ma diviene mero mediatore fra popolo e sovrano (la volontà generale). Perciò il governo, in una democrazia moderna, non può che essere un organo meramente esecutivo della sovranità popolare e, per questo, in ogni momento revocabile. Tanto più che la libertà comporta una partecipazione diretta della cittadinanza alle grandi decisioni politiche. Quindi Rousseau definisce il concetto moderno di democrazia proprio in contrapposizione alla teoria liberale della rappresentanza e della delega della sovranità e, perciò, la democrazia non può che essere diretta. Tanto più che, per Rousseau, il principio della delega della rappresentanza è indice della corruzione politica di un popolo, in cui gli uomini si interessano solo al guadagno e, dunque, stipendiano qualcuno che eserciti in loro vece le funzioni legislative.

In conclusione non possiamo che constatare come nel senso comune dell’opposizione di sinistra il termine democrazia è utilizzato nell’accezione ideologica cara ai liberali, in quanto funzionale a nascondere – dietro un’apparente eguaglianza formale – la differenza reale sociale ed economica su cui si fonda il dominio e i privilegi dell’alta. Dunque, se la sinistra non vorrà rinunciare al proprio costitutivo ruolo di opposizione al dominio dei grandi proprietari, dovrà in primo luogo riappropriarsi di un’autonoma visione del mondo, in modo da poter sfidare sul piano della lotta di classel’oligarchia ancora saldamente al potere. A tale scopo non si possono più lasciare le piazze e il ruolo di opposizione, a un governo rappresentante interessi oligarchici, al populismo della destra “sociale” o al qualunquismo di chi rifiuta, demagogicamente, di connotarsi a destra o a sinistra, ossia dalla parte della classe dominante o dei subalterni.


Note:
[1] Dimenticando, per altro, che con tale termine si connotava, nei fatti, una democrazia all’interno del ristretto ambito del “popolo dei signori”, da cui era esclusa la maggioranza della popolazione, a partire dalle donne, gli schiavi, i lavoratori più umili e chi non era nato nella polis. Nei confronti di questa maggioranza di esclusi, non-riconosciuti come cittadini, la democrazia già allora si presentava come una vera e propria dittatura.
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